Riacquisto della cittadinanza italiana per i discendenti delle donne che l'hanno perduta
Sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili nr. 4466 del 25/02/2009
Avv. Michele Spadaro
di Milano, MI
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Nel caso in esame, la ricorrente, nata il 4 settembre 1962 al Cairo da uomo non avente la cittadinanza italiana in quanto figlio di donna, che la cittadinanza italiana l'aveva perduta per effetto di matrimonio con un cittadino egiziano, poichè tale perdita era dipesa dall'applicazione di norme della legge 13 giugno 1912 n. 555 dichiarate illegittime nel 1975 e nel 1983 dalla Corte costituzionale, perchè discriminatorie della posizione della donna rispetto a quella dell'
Nel caso in esame, la ricorrente, nata il 4 settembre 1962 al Cairo da uomo non avente la cittadinanza italiana in quanto figlio di donna, che la cittadinanza italiana l'aveva perduta per effetto di matrimonio con un cittadino egiziano, poichè tale perdita era dipesa dall'applicazione di norme della legge 13 giugno 1912 n. 555 dichiarate illegittime nel 1975 e nel 1983 dalla Corte costituzionale, perchè discriminatorie della posizione della donna rispetto a quella dell'uomo, chiedeva al Tribunale di Roma in contraddittorio con il Ministero dell'Interno di dichiararla cittadina italiana jure sanguinis, per trasmissione dello stato dai suoi ascendenti.
Massima: la titolarità della cittadinanza italiana va riconosciuta in sede giudiziaria, indipendentemente dalla dichirazione resa dall'interessata ai sensi dell'art. 219 della legge n. 151 del 1975, alla donna che l'ha perduta per essere coniugata con cittadino straniero anteriormente al 1° gennaio 1948, in quanto la perdita senza la volontà della titolare della cittadinanza è effetto perdurante, dopo la data indicata, della norma incostituzionale, effetto che contrasta con il principio della parità dei sessi e della eguaglianza giuridica e morale dei coniugi (art. 3 e 29 Cost.). Per lo stesso principio, riacquista la cittadinanza italiana dal 1° gennaio 1948, anche il figlio di donna nella situazione descritta, nato prima di tale data e nel vigore della legge n. 255 del 1912, determinando il rapporto di filiazione, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, la trasmissione a lui dello stato di cittadino, che gli sarebbe spettato di diritto senza la legge discriminatoria; da quest'ultimo quindi lo stato, per il rapporto di paternità, deve trasmettersi alla figlia, ricorrente in questa sede e alla quale deve riconoscersi.
CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza del 3-25 febbraio 2009 n. 4466
Svolgimento del processo
Mariam Elia, nata il 4 settembre 1962 al Cairo da Edward Elia, che non aveva la cittadinanza italiana quale figlio di Angelina Costanzo, che l'aveva perduta per effetto di matrimonio con un cittadino egiziano, dato che tale perdita e mancato acquisto di stato erano dipesi dall'applicazione di norme della legge 13 giugno 1912 n. 555 dichiarate illegittime nel 1975 e nel 1983 dalla Corte costituzionale, perchè discriminatorie della posizione della donna rispetto a quella dell'uomo (artt. 3 e 29 della Cost.), con citazione del 27 agosto 2003, chiedeva al Tribunale di Roma in contraddittorio con il Ministero dell'Interno di dichiararla cittadina italiana jure sanguinis, per trasmissione dello stato dai suoi ascendenti.
Il Ministero dell'Interno si costituiva e chiedeva il rigetto della domanda, respinta nel 2004 dall'adito Tribunale, per mancanza della dichiarazione della Costanzo di voler riacquistare la cittadinanza perduta, ai sensi dell'art. 219 della legge 19 maggio 1975 n. 151; avverso tale pronuncia l'attrice proponeva gravame, respinto dalla sentenza di cui in epigrafe della Corte d'appello di Roma, la quale riteneva inidonea la esibita dichiarazione della Costanzo sul riacquisto della cittadinanza.
Per la cassazione di tale sentenza la Elia ha proposto ricorso di quattro motivi, illustrati da memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c. e notificato a mezzo posta il 15-16 dicembre 2006 al Ministero dell'Interno e al Procuratore generale presso la Corte di cassazione e i due intimati non si sono difesi.
La prima sezione civile di questa Corte, con ordinanza n. 2563 del 4 febbraio 2008, ha rilevato che si ripropone la questione degli effetti retroattivi della incostituzionalità di norme precostituzionali, che, in relazione alla previgente legge n. 555 del 1912, è stata oggetto di contrasto tra più sentenze di questa Corte, risolto dalle Sezioni Unite nel senso che la incostituzionalità sopravvenuta di tali norme, non retroagisce oltre il 1° gennaio 1948 né opera per i rapporti esauriti, tra cui s'è compreso quello di perdita dello stato per la donna a causa di matrimonio con cittadino straniero, anteriore a detta data.
Si è negata la riespandibilità dei rapporti di cittadinanza estinti per effetto del matrimonio della donna con lo straniero, che aveva prodotto tale effetto irretrattabile, in ragione di una norma ratione temporis legittima; la prima sezione civile, pur ritenendo corretta la premessa dei principi enunciati dalle Sezioni Unite sulla retroattività delle sentenze della Corte Costituzionale dichiarative dell'illegittimità di leggi vigenti prima dell'entrata in vigore della carta fondamentale e sulla loro incostituzionalità c.d. sopravvenuta, non ne ha condiviso il corollario, per cui dovrebbero ritenersi “esauriti” i rapporti di cittadinanza estinti o mai nati anteriormente al 1° gennaio 1948, da ritenere insuscettibili di ripristino dopo la rimozione della norma che aveva prodotto tali conseguenze.
Errata sarebbe, ad avviso della sezione semplice, la considerazione come conclusi o esauriti dei rapporti di cittadinanza perduti o non acquistati prima del 1948 per la pregressa disciplina ritenuta incostituzionale, desumendo tale esaurimento dalle norme dichiarate illegittime, in quanto i fatti preclusivi alla estensione retroattiva della illegittimità costituzionale possono ricavarsi solo da norme diverse da quelle valutate dal giudice della legge, essendo costituiti dagli effetti del giudicato, dal decorso dei termini di decadenza o dei tempi di prescrizione o da atti concludenti in tal senso, di natura processuale o sostanziale.
Pertanto i rapporti di perduta o mancata cittadinanza ex lege n. 555/1912 “non esauriti” al 1° gennaio 1948, in assenza di eventi esterni che li abbiano definiti in precedenza, rendendoli non più giustiziabili ovvero insuscettibili di tutela giurisdizionale, non possono ritenersi esauriti.
La perdita per la donna della cittadinanza a causa del “fatto” matrimonio con lo straniero, di cui all'art. 10, terzo comma, della legge n. 555/1912 dichiarato incostituzionale almeno a decorrere dal 1° gennaio 1948, non costituirebbe un effetto che necessariamente deve permanere oltre tale data, potendo considerarsi rimossa dalla stessa data per incostituzionalità sopravvenuta, qualora manchino fatti o eventi preclusivi a tale efficacia retroattiva assoluta della pronuncia di incostituzionalità.
Dato il virtuale contrasto di tale soluzione con quella enunciata da precedenti pronunce della Corte di legittimità risolutive dei predetti contrasti, il Primo Presidente ha assegnato la decisione alle sezioni unite, ai sensi dell'art. 374 c.p.c.
Motivi della decisione
1.1. Il primo motivo di ricorso deduce violazione o falsa applicazione dell'art. 219 della legge 19 maggio 1975 n. 151 e insufficiente o omessa motivazione su punti decisivi, relativi all'esistenza dei presupposti di fatto per applicare tale norma.
Erroneamente la Corte territoriale ha negato il riacquisto della cittadinanza per la ricorrente, per mancanza della dichiarazione della sua ascendente di voler recuperare la cittadinanza italiana, regolata dall'art. 219 della legge n. 151/1975, pur essendo in atti tale documento, che esprime la volontà di Angelina Costanzo di voler ritornare ad essere cittadina italiana, regolarmente manifestata alle autorità consolari italiane in Egitto, risiedendo la donna in quel paese.
La Corte di merito afferma apoditticamente che l'atto dela Costanzo non costituisce “idonea documentazione al riguardo... per cui la cittadinanza non è mai stata dalla medesima riacquistata e quindi non può essere trasmessa ai figli e ai loro eredi”; infatti la dichiarazione resa all'autorità consolare in presenza di due testi della Costanzo, di voler riacquistare la cittadinanza, è inidonea al riacquisto dello stato e la sentenza di merito ha chiari vizi di motivazione su tale punto decisivo della sentenza.
1.2. Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione di principi di diritto e insufficiente o omessa e contradditoria motivazione su punti decisivi della controversia, dato che, anche a ritenere il documento di cui al primo motivo di ricorso inidoneo allo scopo, la Corte territoriale ha errato nel negare che le pronunce di illegittimità costituzionale abbiano effetti retroattivi inapplicabili al rapporto di perduta cittadinanza per cui è causa, considerando quest'ultimo “esaurito”, pur essendo lo stato un rapporto imprescrittibile.
1.3. Con il terzo motivo di ricorso si solleva il dubbio sulla legittimità costituzionale dell'art. 219 della legge n. 151 del 1975, la cui applicabilità è stata confermata dall'art. 17 della legge sulla cittadinanza 5 febbraio 1992 n. 91.
La condizione imposta da tali norme, per la quale, in assenza della dichiarazione da essa prevista, il riacquisto della cittadinanza sarebbe negato, è incostituzionale, perchè in contrasto con gli artt. 3 e 10 della Cost., con la convenzione di New York del 18 dicembre 1979, ratificata dalla legge n. 132 del 14 marzo 1985 e con i principi di non discriminazione tra uomo e donna di cui alla Costituzione europea.
La perdita automatica della cittadinanza per la sola donna coniugata con straniero e non per l'uomo è discriminatoria e la pretesa di ulteriori oneri a carico della stessa vittima dell'ingiustizia, per recuperare lo stato di cui illegittimamente è stata privata, è incostituzionale, in quanto l'uomo conserva la sua cittadinanza in ogni caso e, per i discendenti delle donne decedute tra il 1948 e il 1975, il riacquisto della cittadinanza non potrebbe esservi.
Si chiede quindi di ritenere automatico il riacquisto della cittadinanza, così come lo era stata la perdita per effetto della legge incostituzionale.
1.4. Infine il quarto motivo di ricorso chiede la riforma della decisione della Corte territoriale anche per lo jus superveniens di cui al D. lgs. 11 aprile 2006 n. 198, il c.d. “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna” e a norma dell'art. 5 della legge 28 novembre 2005, n. 246.
2. Il secondo motivo di ricorso, che censura la sentenza di merito per aver negato l'automaticità del riacquisto della cittadinanza degli ascendenti della ricorrente e l'acquisto dello stato di cittadina per quest'ultima, per effetto delle sentenze della Corte costituzionale 16 aprile 1975 n. 87 e 9 febbraio 1983 n. 30, indipendentemente dalla dichiarazione della ascendente di lei, di cui all'art. 219 della legge n. 151 del 1975, è logicamente preliminare all'esame degli altri motivi di ricorso.
La pronuncia del 1975 ha dichiarato illegittimo l'art. 10, comma 3, della legge 13 giugno 1912 n. 555, per la parte in cui prevedeva la perdita della cittadinanza per la donna senza la volontà di questa, in caso di matrimonio con cittadino straniero; la sentenza n. 30 del 1983 del giudice delle leggi ha rilevato la incostituzionalità degli artt. 1, n.ri 1 e 2, e 2, comma 2, della stessa legge per la parte in cui il primo non prevedeva l'acquisto della cittadinanza per I figli di madre cittadina e l'altro sanciva in ogni caso la prevalenza della cittadinanza del padre nella trasmissione dello stato di cittadino ai figli.
La controversia riguarda una discendente di soggetti che, anteriormente al 1948, hanno subito gli effetti delle norme dichiarate incostituzionali: la nonna della ricorrente, Angelina Costanzo, aveva perduto la cittadinanza italiana senza avervi rinunciato, per essersi “maritata” (così la parola usata nella legge n. 555 del 1912) con un'egiziano e il figlio della coppia, nato nel 1942, aveva dovuto acquisire lo stato di cittadino del padre, come imposto dalla legge discriminatoria della condizione femminile, e non aveva potuto trasmettere la cittadinanza italiana alla figlia che ne chiede il riconoscimento in questa sede.
A differenza dei precedenti che hanno dato luogo al contrasto, nei quali agivano in giudizio soggetti sui quali avevano inciso direttamente le leggi dichiarate incostituzionali, cioè donne che avevano perduto la cittadinanza per il matrimonio con lo straniero o persone che non la avevano acquistata per essere figli di madri nella condizione indicata e di padre straniero, nel caso, la istante è solo discendente di soggetti che hanno subito le conseguenze della disciplina discriminatoria.
Il riconoscimento giudiziale della cittadinanza spetterebbe di diritto alla ricorrente, per essere state dichiarate incostituzionali le norme sopra citate, dovendo ritenersi riacquisito o non perduto lo stato di cittadini italiani dal padre e dalla nonna, quanto meno a decorrere dal 1° gennaio 1948, essendo incompatibili con il principio di non discriminazione tra i sessi gli effetti, perduranti nel tempo, della normativa incostituzionale non più applicabile quanto meno dalla data che precede.
2.1. La Corte Costituzionale nel 1975, dichiarando la illegittimità costituzionale dell'art. 10, comma terzo, della legge n. 555 del 1912 “nella parte in cui prevede la perdita della cittadinanza italiana indipendentemente dalla volontà della donna”, ha ritenuto tale disciplina discriminatoria della uguaglianza tra uomo e donna e violativa non solo dell'art. 3 Cost., ma anche del principio di uguaglianza dei coniugi e dell'unità familiare di cui all'art. 29 della Cost., potendo indurre la donna, per non perdere il proprio stato di cittadina, “a non compiere l'atto giuridico del matrimonio o a sciogliere questo una volta compiuto” (così testualmente la citata sentenza n. 87 del 1975), prevedendo la stessa norma, sul punto non dichiarata illegittima, il riacquisto della cittadinanza per il successivo scioglimento del vincolo coniugale, la cui permanenza era il presupposto giuridico del perdurare della perdita dello stato di cittadina, anche nel precedente regime.
Ad analoga ratio decidendi si ispira la pronuncia n. 30 del 1983, che ritiene discriminante la disciplina della legge n. 555 del 1912 in ordine al mancato acquisto della cittadinanza, perchè “tratta in modo diverso i figli legittimi di padre italiano e madre straniera rispetto ai figli legittimi di padre straniero e madre italiana”, come afferma la sentenza indicata, consentendo solo ai primi di acquisire lo stato di cittadino.
Nella stessa linea e con riferimento sempre agli artt. 3, comma primo, e 29, comma secondo, della Cost., si è infine dichiarato illegittimo, con la sentenza della C. Cost. 26 febbraio 1987 n. 81, l'art. 18 delle disposizioni preliminari al codice civile che, nel caso di diversa nazionalità dei coniugi e di mancanza di una legge nazionale comune ad entrambi, imponeva l'applicazione della legge nazionale del marito al tempo del matrimonio; la decisione assume rilievo in questa sede, perchè la denegata posizione preminente del marito per individuare la legge applicabile ai due coniugi, importa che la trasmissione alla moglie della cittadinanza imposta dalla legge nazionale di lui per effetto del matrimonio al tempo in cui fu contratto possa permanere, senza essere considerata discriminatoria e violativa del diritto alla eguaglianza giuridica e morale dei coniugi.
2.2. Questa Corte, con sentenza 23 febbraio 1978 n. 903, ha negato che la pronuncia d'illegittimità costituzionale di norme anteriori all'entrata in vigore della Costituzione possa avere effetti prima del 1° gennaio 1948, data di vigenza della carta fondamentale, rilevando che “la perdita della cittadinanza italiana, a causa dell'acquisto della cittadinanza straniera per effetto del matrimonio della donna contratto con cittadino di altro paese, è effetto istantaneo di tale atto, costituente fatto generatore dell'evento, sul quale non può produrre effetti la pronuncia di illegittimità dell'art. 10, 3° comma, della l. 13 giugno 1912 n. 555, di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 87 del 1975”. La sentenza enuncia principi già all'epoca consolidati sulla c.d. incostituzionalità sopravvenuta delle norme precostituzionali dichiarate illegittime (cfr. Infra n. 2.3.), ma ad essi non aderiscono due successive pronunce di questa Corte.
La Cass. 10 luglio 1996 n. 6297, sul presupposto che la stessa rilevanza della questione di legittimità costituzionale nel sistema di giudizio incidentale nel quale essa è decisa, comporta la cessazione di efficacia erga omnes delle leggi precostituzionali in quanto applicabili ai rapporti non esauriti, ritiene che causa del mancato acquisto della cittadinanza per l'attore, nato anteriormente al 1° gennaio 1948 e figlio di padre argentino e di madre che aveva perduto la cittadinanza per il matrimonio, non sia la nascita ma il rapporto di filiazione con uno dei genitori cittadino inciso ingiustamente dalla norma illegittima e riconosce all'istante la cittadinanza.
Nella stessa linea si muove Cass. 18 novembre 1996 n. 10086, relativa a un matrimonio del 1950 di una italiana con uno svizzero, e all'acquisto dello stato di cittadino del figlio; a seguito di queste due pronunce sorge il contrasto tra decisioni delle sezioni semplici, cui viene data una prima soluzione, da questa Corte a sezioni unite con la sentenza 27 novembre 1998 n. 12061, che aderisce a quanto enunciato nel 1978, con la precisazione che la regola dell'incostituzionalità sopravvenuta impone che la perdita della cittadinanza per effetto del matrimonio della donna con uno straniero prima dell'entrata in vigore della carta costituzionale, evento ormai definitivo, permanga pure dopo l'entrata in vigore della Costituzione, salvo la facoltà per la donna di riacquistare il suo stato con gli strumenti previsti dalla legge ordinaria, cioè con la dichiarazione di cui all'art. 219 della legge n. 151 del 1975.
In rapporto a una cittadina italiana nata in Libia, che aveva perso la cittadinanza per un matrimonio del 1944 con un tunisino, la Cass. 22 novembre 2000 n. 15062, discostandosi dai principi enunciati nel 1998 ed aderendo alla tesi della c.d. incostituzionalità sopravvenuta, ha affermato che, a decorrere dal 1° gennaio 1948, il mancato esaurimento del rapporto di perdita della cittadinanza imposta dalla norma illegittima, ne comporta il recupero.
Si è rilevato il permanere degli effetti della perdita e del mancato acquisto dello stato contrastanti con principi e norme costituzionali dopo il 1° gennaio 1948, riconoscendosi la cittadinanza italiana ai tre figli della donna, non cittadini solo per essere nati dopo che la madre aveva perduto lo stato di cittadina per la nroma divenuta illegittima.
A causa del rinato contrasto degli orientamenti di questa Corte sulla perdita e sul mancato acquisto della cittadinanza, derivati tutti dalla previgente disciplina delle norme dichiarate illegittime della legge n. 555 del 1912, questa Corte a sezioni unite, con la sentenza 19 febbraio 2004 n. 3331, ha di nuovo confermato la irretrattabilità della perdita dello stato di cittadina per la donna che abbia contratto matrimonio con uno straniero prima dell'entrata in vigore della costituzione, essendo tale effetto sorto da un evento intervenuto in via definitiva e ormai esaurito, prima che il parametro costituzionale di riferimento che lo rendeva illegittimo fosse giuridicamente esistente e potendo comunque la donna riacquisire il suo stato con la dichiarazione, in tal caso avente effetti costitutivi, di cui all'art. 219 della legge n. 151 del 1975.
2.3. Ad eccezione delle due sentenze del 1996, tutte le altre riaffermano il principio per il quale “la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma di legge è un accertamento con efficacia erga omnes, per cui, in conseguenza di esso, la norma di legge dichiarata costituzionalmente illegittima è espunta dal vigente sistema legislativo ex tunc, dal momento in cui è entrata in vigore, se si tratta di norma successiva alla Costituzione, ovvero dal momento di entrata in vigore di quest'ultima, se si tratta di norma anteriore ad essa” (tra le altre, con le pronunce citate, cfr. Cass. 4 giugno 1969 n. 1959, 4 febbraio 1975 n. 419 e 12 gennaio 1980 n. 260 e, nello stesso senso, C. Cost. 27 aprile 1967 n. 58).
Salvo il caso in cui la stessa sentenza della Corte costituzionale regoli in maniera diversa la propria retroattività, la questione degli effetti retroattivi delle declaratorie d'illegittimità di leggi precostituzionali viene di solito risolta con i principi sopra enunciati della c.d. incostituzionalità sopravvenuta, affermandosi che, solo a decorrere dalla entrata in vigore della Costituzione (1° gennaio 1948) e non prima di tale data, possa avere rilievo il contrasto con le norme della legge fondamentale del diritto interno, mancando il parametro costituzionale di riferimento, non esistente nè vigente.
Pure di incostituzionalità sopravvenuta di norme giuridiche esattamente si parla con riferimento a norme dichiarate incostituzionali per il loro contrasto con precetti nascenti da modifiche alla Costituzione successive alla entrata in vigore delle norme ordinarie dichiarate illegittime: ciò è accaduto con l'art. 5 bis della legge n. 359 del 1992, in rapporto all'art. 117 Cost., sostituito dalla legge 18 ottobre 2001 n. 3, e alle pronunce della C. Cost. 24 ottobre 2007 n. 348 e 349.
In rapporto a tale questione Cass. 14 dicembre 2007 n. 26275 rileva correttamente che il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale impone che la norma che ne è oggetto regoli il rapporto controverso e che quindi questo sia ancora pendente perchè, per la sua regolamentazione, possa in riferimento ad esso cessare l'efficacia della legge di cui s'è dichiarata l'incostituzionalità, dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza del giudice delle leggi (art. 136 Cost.).
Per effetto dell'accoglimento della questione incidentale di illegittimità costituzionale, si rende inapplicabile la norma illegittima ai rapporti e ai casi ai quali essa sarebbe stata applicata, in mancanza della pronuncia del giudice delle leggi, che incide su tali situazioni solo se ed in quanto esse non siano ormai definite, consolidate e concluse, per effetto di altre norme (art. 30, comma 3, della legge 11 marzo 1953 n. 87).
Si era già autorevolmente affermato in dottrina che i limiti della retroattività delle sentenze dichiarative dell'incostituzionalità del giudice della legge, assoluta ed erga omnes, corrispondono comunque a quelli della rilevanza della questione prospettata al giudice delle leggi, che ne afferma l'ammissibilità solo quando il rapporto cui la norma della cui costituzionalità si dubita sia ancora giustiziabile, cioè assoggettabile a un giudizio che lo regoli in base alla disciplina in contrasto con la carta fondamentale e suscettibile di modifiche, e non quindi allorchè esso sia ormai esaurito e concluso, per effetto di norme diverse che lo abbiano ormai chiuso in via definitiva (Cass. 18 luglio 2006 n. 16450).
Se l'esaurimento di un rapporto si rileva da norme sostanziali o processuali diverse da quelle oggetto del giudizio di costituzionalità, la sua pendenza, necessaria per la rilevanza della questione, non può che desumersi dalla norma della cui costituzionalità si dubita, da rendere inefficace in relazione a situazioni che non debbano ritenersi già definite o ormai consolidate (così, Cass. 14 gennaio 2008 n. 599, la cit. n. 26275/2007, 28 luglio 2005 n. 15809).
Per le leggi precostituzionali, si afferma che i rapporti regolati da una normativa, sorti nella fase in cui questa non poteva valutarsi su parametri di costituzionalità inesistenti, di regola non possono neppure essere incisi dalla sopravvenuta illegittimità della legge, salvo diversa indicazione della sentenza del giudice delle leggi.
Quest'ultima pronuncia non può modificare i rapporti regolati dalla norma illegittima, salvo che questi non siano suscettibili di produrre, nella sfera giuridica di chi ne è titolare, ancora conseguenze per effetto della legge incostituzionale.
Nel caso di specie, la sentenza n. 87 del 1975 e la n. 30 del 1983 della Corte costituzionale chiariscono che, in ordine al matrimonio con lo straniero, la perdita della cittadinanza della moglie veniva meno con lo scioglimento del matrimonio e che il mancato acquisto dello stato derivava non dalla mera nascita da donna privata della cittadinanza, senza la sua volontà, ma dalla “filiazione” da questa, mostrando, con tale lettura delle norme incostituzionali della legge del 1912, che erano il coniugio con lo straniero e la filiazione da questo le cause permanenti della perdita e del mancato acquisto dello stato e non i fatti da cui i rapporti sorgevano, pur non avendo il marito rilievo preminente in essi (C. Cost. n. 71/1987).
3. La cittadinanza è una condizione personale che rende una persona membro del popolo di un certo paese e da essa sorgono diritti e doveri non solo nei confronti dello Stato ma anche nei rapporti del cittadino con la società e le altre persone che ad essa appartengono (art. 4, 1° e 2° comma, Cost.).
Per la normativa ordinaria, alla cittadinanza ha diritto il figlio di padre o madre cittadini o di genitori ignoti, se nasce sul territorio nazionale (art. 1 L. 5 febbraio 1992 n. 91), con riferimento ai concetti di ius sanguinis e ius soli; la Costituzione vieta che lo stato possa perdersi per motivi politici (art. 22 Cost.) e la legge ordinaria precisa che ad esso può rinunciare solo chi ne è titolare (art. 11 L. n. 92 del 1991).
La struttura normativa dell'istituto evidenzia che ogni persona ha un diritto soggettivo alla condizione personale costituita dallo stato di cittadino e in tal senso sono pure le convenzioni internazionali rilevanti in questa sede ai sensi dell'art. 117 Cost. (dall'art. 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 al Trattato di Lisbona approvato dal Parlamento europeo il 16 gennaio 2008).
La legge n. 92 del 1991 sulla cittadinanza riafferma l'esistenza di tale diritto che può essere solo riconosciuto dalle autorità amministrative competenti (Ministero dell'Interno: artt. 7 e 8), prevedendo eccezionalmente atti concessodi esso da parte del Presidente della Repubblica, con una discrezionalità politica limitata, in rapporto alle circostanze speciali indicate dalla legge, per le quali la cittadinanza viene concessa (art. 9).
Lo stato di cittadino è permanente ed ha effetti perduranti nel tempo che si manifestano nell'esercizio dei diritti conseguenti; esso, come si è rilevato, può perdersi solo per rinuncia, così come anche nella legislazione previgente (art. 8 n. 2 L. 555 del 1912).
Per la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1985 n. 132, richiamata in ricorso, alle donne spettano “diritti uguali a quelli degli uomini in materia di acquisto, mutamento e conservazione della cittadinanza”.
Nella legge del 1912, come interpretata dalla Corte Costituzionale nelle due richiamate sentenze, il rapporto di coniugio della donna “maritata” con straniero e quello di “filiazione” solo da padre cittadino comportavano rispettivamente la perdita o l'acquisto della cittadinanza, non spettante al figlio di donna che l'aveva perduta per matrimonio.
Nessun riferimento esclusivo alla nascita e al mero ius sanguinis giustificava o giustifica l'acquisto dello stato di cittadino, che sorge dalla filiazione, oggi anche adottiva, essendo dubitabile e superato il collegamento al mero fatto del nascere da un soggetto con una specifica cittadinanza dell'acquisto di questa, con una visione che pericolosamente si accosta al concetto di “razza”, incompatibile con la civiltà prima ancora che con l'art. 3 della Costituzione.
La cittadinanza, come esattamente si afferma dalla migliore dottrina, assume il suo senso e significato non solo nella disciplina dei rapporti verticali del suo titolare con lo Stato che esercita poteri sovrani nei suoi confronti, ma anche in quelli orizzontali con gli altri appartenenti alla società cui egli partecipa con lui titolari del medesimo stato (art. 4 Cost.).
Attraverso il rapporto di filiazione che collega una persona alla formazione sociale intermedia costituita dalla famiglia “società naturale” (artt. 2 e 29 della Cost.), la persona entra in rapporto con l'intera società e ha diritto al riconoscimento dello stato di cittadino e dei diritti e doveri conseguenti.
Perciò correttamente si afferma che lo stato di cittadino, effetto della condizione di figlio, come questa, costituisce una qualità essenziale della persona, con caratteri d'assolutezza, originarietà, indisponibilità ed imprescrittibilità, che lo rendono giustiziabile in ogni tempo e di regola non definibile come esaurito o chiuso, se non quando risulti denegato o riconosciuto da sentenza passata in giudicato.
Tale ricostruzione del concetto di cittadinanza emerge dalle stesse sentenze sulla legge precostituzionale che la regolava della Corte Costituzionale, che ritengono la perdita e il mancato acquisto dello stato imposte dalla normativa illegittima, effetto di un matrimonio, sempre che questo permanga efficace e non sia stato sciolto, e dell'essere figlio di madre che la perdita dello stato abbia subito contro la sua volontà, senza rinunciarvi.
Si afferma nelle sentenze delle S.U. del 1998 e del 2004, che il fatto causativo della privazione della cittadinanza per la donna sarebbe il solo evento del matrimonio contratto prima dell'entrata in vigore della costituzione, cui l'art. 10 collegava la perdita della cittadinanza, qualificandosi tale effetto come conseguenza esaurita del matrimonio stesso, senza darsi rilievo alle indicate ragioni delle decisioni dichiarative della illegittimità della normativa, rilevata anche in base al perdurare del vincolo matrimoniale fino al suo scioglimento e alla filiazione della persona anche da madre cittadina.
La stessa ordinanza interlocutoria della prima sezione civile esattamente afferma che lo stato di cittadino, se perduto, è comunque recuperabile, come accadeva anche nel vigore dell'art. 10 della l. n. 555 del 1912 sul punto non illegittimo, con lo scioglimento del vincolo e quindi che la perdita della cittadinanza costituisce un rapporto perdurante nel tempo, su cui incide lo stato di coniuge e non solo il fatto matrimonio e quello di figlio di donna e non di uomo cittadino, che, anche nella presente fattispecie, hanno inciso sulla cittadinanza degli ascendenti della ricorrente, in contrasto con i principi fondamentali e costituzionali di non discriminazione della donna e a causa di una diversità di trattamento fondata sulla distinzione sessuale e violativa del principio di tutela dell'unità familiare e di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi.
In assenza di eventi o situazioni, regolate da norme diverse dalla legge n. 555 del 1912, come ad es. una sentenza passata in giudicato che abbia reso definitiva ed esaurita la perdita o il mancato acquisto della cittadinanza, il permanere di tali effetti comporta il perdurare delle conseguenze di una normativa discriminatoria e violativa di diritti fondamentali della donna, pure in assenza di un evento esterno che abbia reso definitivo il rapporto regolato dalle norme incostituzionali.
Il carattere assoluto della tutela del diritto fondamentale a non essere discriminati per ragioni di sesso leso dalla normativa del 1912, potrebbe far riconoscere una retroattività oltre la data di entrata in vigore della Costituzione e un'incidenza nel tempo analoga a quella riconosciuta nello spazio da questa Corte (S.U. ord. 29 maggio 2008 n. 14201 e sent. 11 marzo 2004 n. 5044), essendo in gioco diritti inviolabili della donna ad essere trattata non diversamente dall'uomo, che la Carta all'art. 2 “riconosce” e non attribuisce, anche in riferimento al ruolo dei coniugi nella famiglia (C. Cost. n. 81/87).
Il mancato riferimento a tale più estesa retroattività dalle citate sentenze della Corte Costituzionale del 1975 e del 1983, il cui contenuto indica la loro efficacia retroattiva solo per i rapporti non esauriti sui quali le norme incostituzionali ancora incidano, non consente di superare nel caso I principi enunciati dell'incostituzionalità sopravvenuta e il limite della retroattività non oltre il 1° gennaio 1948 della rilevata illegittimità delle norme precostituzionali.
3.1. I due precedenti del 1998 e del 2004 di questa Corte a sezioni unite collegano il recupero della cittadinanza alla dichiarazione prevista dall'art. 219 della legge n. 251 del 1975, ritenendo la prima che il riferimento nella sentenza n. 87 del 1975 alla perdita della cittadinanza contro la volontà della donna, naturalmente escluda un riacquisto dello stato senza la volontà della stessa e affermandosi, nella seconda pronuncia, che tale atto avrebbe natura costitutiva almeno con riferimento alla cittadinanza perduta prima dell'entrata in vigore della legge n. 151 del 1975.
La norma, confermata dall'art. 17 della L. n. 92 del 1991, prevede che “la donna che, per effetto di matrimonio con lo straniero... ha perduto la cittadinanza italiana prima dell'entrata in vigore della presente legge, la riacquista con dichiarazione resa all'autorità competente”, cioè all'ufficiale di stato civile della città dove la dichiarante risiede o intende stabilire la sua residenza o, in caso di residenza all'estero, alle autorità diplomatiche o consolari (cfr. artt. 7 e 23 della L. n. 92 del 1991 e art. 1 del DPR 18 aprile 1994 n. 362, norme che hanno sostituito l'art. 36 delle disp. att. del c.c.).
In rapporto alla facoltà degli aventi diritto al recupero o all'acquisto della cittadinanza di rinunciare allo stato di cittadino, prevista, nella previgente legge n. 555 del 1912 (art. 8) e nella attuale normativa (art. 11 della l. n. 92 del 1991), l'art. 219 della l. n. 151 del 1975 impone la dichiarazione, che, dalla stessa norma si prevede sia “resa” all'autorità amministrativa con effetti ricognitivi del riacquisto della cittadinanza perduta prima dell'entrata in vigore della legge del 1975 e anteriormente al 1948.
L'affermazione della norma che il riacquisto si ha “con” la dichiarazione e non “per effetto” di questa, in nessun caso consente di qualificare tale atto come costitutivo, anche se le autorità amministrative sono tenute a “riconoscere”, con decreto ministeriale, il diritto al recupero della cittadinanza perduta a decorrere dal giorno successivo a quello in cui sono state adempiute tutte le formalità richieste (art. 15 della legge n. 92 del 1991).
Deve ritenersi che, come previsto per lo stato di apolide, anche per lo stato di cittadino, la ricognizione amministrativa e il decreto del Ministro dell'Interno che ad essa consegue (art. 7 e 8 L. n. 92 del 1991), riguardando un diritto soggettivo, sono atti vincolati che non possono che fondarsi sui documenti prodotti da chi li richiede, in applicazione dei principi d'imparzialità e trasparenza dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.).
L'accertamento giudiziale dello stato di cittadino invece non è vincolato ai medesimi limiti dell'azione della P.A. E, nel caso di perdita della cittadinanza per il matrimonio di donna con straniero anteriore al 1975, può avvenire senza tale atto, sempre che non sia provata dal Ministero la rinuncia dell'interessata allo stato stesso intervenuta nelle more (sul doppio binario, amministrativo e giurisdizionale, per il riconoscimento dello stato di apolidia, cfr. S.U. 9 dicembre 2008 n. 28873).
Tale lettura costituzionale dell'art. 219 della legge n. 151 del 1975, assorbe ogni censura proposta nel primo motivo di ricorso e rende irrilevante la questione di legittimità costituzionale sollevata nel terzo motivo d'impugnazione.
3.2. La situazione a base delle domande oggetto di questo giudizio, cioè il diritto allo stato di cittadina della ricorrente, perchè illegittimamente mai acquisito dal padre figlio di donna che lo ha perduto ingiustamente, è conseguenza “automatica” della applicazione di una legge incostituzionale a decorrere dal 1° gennaio 1948.
Sul piano logico prima che su quello giuridico, ai sensi dell'art. 136 della Cost. e dell'art. 30 della L. 11 marzo 1953 n. 87, la cessazione degli effetti della legge illegittima perchè discriminatoria, non può incidere immediatamente e in via “automatica” sulle situazioni pendenti o ancora giustiziabili, come il diritto alla cittadinanza, potendo in ogni tempo, dalla data in cui la legge è divenuta inapplicabile, essere riconosciuto l'imprescrittibile diritto alla mancata perdita o all'acquisto dello stato di cittadino degli ascendenti della ricorrente e quindi il diritto di questa alla dichiarazione del proprio stato, come figlia di padre cittadino per la filiazione da donna che, dal 1° gennaio 1948, deve ritenersi cittadina italiana.
Gli effetti prodotti da una legge ingiusta e discriminante nei rapporti di filiazione e coniugio e sullo stato di cittadinanza, che perdurino nel tempo, non possono che venire meno, anche in caso di morte di taluno degli ascendenti, con la cessazione di efficacia di tale legge, che decorre, dal 1° gennaio 1948, data dalla quale la cittadinanza deve ritenersi automaticamente recuperata per coloro che l'hanno perduta o non l'hanno acquistata a causa di una norma ingiusta, ove non vi sia stata una espressa rinuncia allo stato degli aventi diritto.
Le norme precostituzionali riconosciute illegittime per effetto di sentenze del giudice della legge, sono inapplicabili e non hanno più effetto dal 1° gennaio 1948 sui rapporti su cui ancora incidono, se permanga, la discriminazione delle persone per il loro sesso o la preminenza del marito nei rapporti familiari, sempre che vi sia una persona sulla quale determinano ancora conseguenze ingiuste, ma giustiziabili, cioè tutelabili in sede giurisdizionale.
Di certo non può costituire criterio ermeneutico in senso opposto degli effetti delle sentenze d'incostituzionalità delle leggi, la diffidenza della prassi amministrativa verso una eccessiva espansione della retroattività, che potrebbe dar luogo ad una moltiplicazione di richieste di cittadinanza dai discendenti dei cittadini italiani emigrati in altri Stati, quale è l'attrice ricorrente nella fattispecfie (cfr. La circolare del Ministero dell'interno 11 novembre 1992, n. K.60.1, che in tali sensi interpreta la legge n. 91 del 1992, richiamando il parere della 1° sezione del Consiglio di Stato del 15 gennaio 1983, che nega che le sentenze della Corte costituzionale possano retroagire oltre il 1° gennaio 1948.
In realtà, anche a non tenere conto della diversità, rispetto all'epoca della citata circolare ministeriale, dell'attuale condizione della società, in cui esistono forti flussi immigratori, oggi appare palese il favore del nostro legislatore per il recupero della cittadinanza dei discendenti degli emigrati all'estero, cui si tende a riconoscere il diritto di voto (la tendenza normativa emerge ad es. dalla legge 8 marzo 2006 n. 124, dal D.M. 5 aprile 2002 e dall'art. 18 della legge n. 91 del 1992), dovendosi negare ogni rilievo alla nuova normativa sulle pari opportunità di cui al quarto motivo, assorbito per l'accoglimento dell'impugnazione.
5. In conclusione, il ricorso della Elia è fondato, indipendentemente dalla dichiarazione della sua ascendente Angelina Costanzo di voler riacquistare la cittadinanza, dovendo ritenersi tale effetto prodotto, a decorrere dal 1° gennaio 1948, dalla sentenza della Corte Cost. n. 87 del 1975, con analoghe conseguenze, dalla stessa data, per il padre della ricorrente, figlio di madre cittadina avente diritto allo stato per effetto della filiazione indicato, in ragione della sentenza del giudice delle leggi n. 30 del 1983 e della fine della preminenza del marito nella vita della famiglia e delle norme che la regolano.
Tale riconoscimento non può negarsi neppure in caso di morte degli ascendenti della ricorrente, salvo che vi sia stata, da costoro, rinuncia alla cittadinanza sempre consentita dalle leggi succedutesi nel tempo (art. 8 L. n. 555 del 1912 e 11 L. n. 92 del 1991), rinuncia di cui deve dare la prova in questa sede chi si oppone alla ricognizione del diritto.
È in rapporto all'esercizio della facoltà di rinuncia alla cittadinanza e all'applicazione dei principi di buona amministrazione di cui all'art. 97 della Cost., che si è prevista la dichiarazione di cui all'art. 219 della L. n. 151 del 1975 per il riacquisto della cittadinanza: trattasi di un documento necessario al fine del riconoscimento in sede amministrativa dello stato di cittadino della donna e dei suoi discendenti, comprovante la mancanza di una rinuncia alla cittadinanza e con effetti non costitutivi.
La dichiarazione è necessaria con altre formalità, perchè resa all'autorità competente, vincola il Ministero dell'interno alla ricognizione con decreto dello stato già recuperato per legge.
Lo stesso documento non ha invece il medesimo rilievo decisivo per la tutela giurisdizionale dello stato di cittadino, recuperato automaticamente per la inapplicabilità sopravvenuta della legge dichiarata costituzionalmente illegittima, che fa cessare gli effetti di essa perduranti nel tempo, anche in costanza del rapporto di coniugio della donna a base della perdita, che, a decorrere dal 1948, non può dar luogo alla privazione dello stato.
Deve quindi enunciarsi il seguente principio di diritto: “La titolarità della cittadinanza italiana va riconosciuta in sede giudiziaria, indipendentemente dalla dichirazione resa dall'interessata ai sensi dell'art. 219 della legge n. 151 del 1975, alla donna che l'ha perduta per essere coniugata con cittadino straniero anteriormente al 1° gennaio 1948, in quanto la perdita senza la volontà della titolare della cittadinanza è effetto perdurante, dopo la data indicata, della norma incostituzionale, effetto che contrasta con il principio della parità dei sessi e della eguaglianza giuridica e morale dei coniugi (art. 3 e 29 Cost.). Per lo stesso principio, riacquista la cittadinanza italiana dal 1° gennaio 1948, anche il figlio di donna nella situazione descritta, nato prima di tale data e nel vigore della legge n. 255 del 1912, determinando il rapporto di filiazione, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, la trasmissione a lui dello stato di cittadino, che gli sarebbe spettato di diritto senza la legge discriminatoria; da quest'ultimo quindi lo stato, per il rapporto di paternità, deve trasmettersi alla figlia, ricorrente in questa sede e alla quale deve riconoscersi”.
Ai sensi dell'art. 384 c.p.c., questa Corte, accolto il ricorso, deve quindi cassare la sentenza impugnata che ha applicato principi diversi e accogliere la domanda della Elia, non essendo provati dal Ministero fatti ostativi alla ricognizione richiesta e dovendosi ritenere acquisito automaticamente dalla ricorrente, alla data della nascita (settembre 1962), lo stato di cittadina per le ragioni richiamate.
Al riconoscimento devono seguire le formalità di legge da disporsi in via accessoria; le incertezze giurisprudenziali nella materia giustificano la totale compensazione delle spese dell'intero giudizio tra le parti.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito ai sensi dell'art. 384 c.p.c.: a) accoglie la domanda di Elia Mariam, nata a Il Cairo (Egitto) il 4 settembre 1962 e la dichiara cittadina italiana; b) ordina al Ministero dell'interno e, per esso, all'ufficiale dello stato civile competente, di procedere alle iscrizioni, trascrizioni e annotazioni di legge, nei registri dello stato civile, della cittadinanza della persona indicata, provvedendo alle eventuali comunicazioni alle autorità consolari competenti; c) compensa le spese dell'intero giudizio tra le parti.
Così deciso nella camera di consiglio delle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione il 3 febbraio 2009.
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Michele Spadaro
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