Per effetto dell’art. 1 della legge n. 604 del 1966 il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. o per giustificato motivo. Tale norma, che trova ulteriore supporto negli artt. 18 dello Statuto dei lavoratori e 2 della legge n. 108 del 1990, ha introdotto nel nostro ordinamento un regime vincolistico del licenziamento, con conseguente stabilità del posto di lavoro, in quanto non consente che il provvedimento unilaterale di recesso, intimato dal datore, sia privo di motivazione ed infatti esso può essere adottato solo in presenza di una giusta causa o un giustificato motivo. Il recesso ad nutum La disciplina limitativa del potere di licenziamento non si applica nelle ipotesi in cui è ammesso il recesso ad nutum, cioè la possibilità per il datore di licenziare senza alcun vincolo di giustificazione. Essa ricorre solo in alcune ipotesi espressamente previste, e cioè nei confronti:
  • dei dirigenti, salvo che i contratti collettivi od individuali contengano clausole limitative al riguardo;
  • dei lavoratori a tempo determinato, in quanto la legge n. 604 del 1966 fa riferimento ai soli rapporti di lavoro a tempo indeterminato;
  • dei lavoratori domestici;
  • degli atleti professionisti;
  • dei lavoratori ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici;
  • dei lavoratori in prova (ma sul punto cfr. cap. III, par. VI.1);
  • dei lavoratori licenziati per riduzione di personale;
  • dei lavoratori dipendenti da organizzazioni di tendenza;
  • del coniuge e dei parenti entro il 2deg. grado del datore.
Divieto di licenziamento La disciplina garantistica in tema di licenziamento non solo impone che il licenziamento sia intimato in presenza di una specifica motivazione che lo consenta, salve le eccezioni di cui sopra, ma prevede inoltre delle situazioni in pendenza delle quali vige un divieto di licenziamento. Sussiste un vero e proprio divieto di licenziamento nei casi di:
  • sospensione del rapporto di lavoro dipendente da fatto del lavoratore (malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, servizio militare);
  • matrimonio della lavoratrice;
  • stato di gravidanza e puerperio;
  • fruizione dei congedi previsti dalla legge;
e nei confronti dei:
  • dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali e dei candidati e membri della commissione interna, per un anno dalla cessazione dell'incarico;
  • lavoratori che partecipano ad azioni di sciopero;
  • lavoratori chiamati a svolgere funzioni pubbliche;
  • servizio di leva obbligatorio (sostituito dal 1° gennaio 2005 dal servizio militare professionale – oggi non più praticabile) e richiamo alle armi.
  Giusta causa e giustificato motivo Con riguardo al limite sostanziale, il primo problema che si pone è quello del significato da attribuire al concetto di giusta causa ed a quello di giustificato motivo, tenuto conto anche del fatto che, in relazione a quest'ultimo, dottrina e giurisprudenza distinguono il giustificato motivo soggettivo da quello oggettivo. La giusta causa La nozione di giusta causa si ricava anzitutto dall'art. 2119, c.c., che contempla la possibilità per ciascuna delle parti di recedere dal contratto prima della scadenza del termine se il contratto è a tempo determinato, ovvero senza preavviso se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto. Con l'entrata in vigore della L. 604/1966 si attribuisce alla giusta causa un significato più ristretto, riportando il concetto di fiducia entro i limiti oggettivi dell'affidamento del creditore nell'esattezza dei successivi adempimenti, generalmente rilevante in tutti i rapporti di durata. In tal modo, il concetto di giusta causa trova "una puntuale definizione nella stessa nozione di giustificato motivo soggettivo, dal quale si differenzierebbe solo per la particolare gravità dell'inadempimento" e cioè solo da un punto di vista quantitativo, non anche qualitativo. Il comportamento del lavoratore deve essere valutato caso per caso dal giudice, anche quando - come di solito accade - esso sia espressamente previsto dai contratti collettivi come giusta causa di licenziamento. In altri termini, il giudice è chiamato a verificare la conformità delle disposizioni contrattuali alla nozione legale di giusta causa, e, dunque, in concreto, a verificare se le mancanze addebitate al prestatore siano così gravi da imporre la risoluzione del rapporto anziché l'irrogazione di sanzioni disciplinari. Il giustificato motivo soggettivo Il giustificato motivo soggettivo è analogo alla giusta causa, dalla quale si distingue, come si è detto, solo da un punto di vista quantitativo, per la minore gravità dell'inadempimento. Ai sensi dell'art. 3, L. 604/1966, l'ipotesi si verifica quando il lavoratore incorre in un "notevole inadempimento degli obblighi contrattuali"; l'inadempimento è notevole, per l'art. 1455, c.c., quando è di non scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse delle parti. Così come nell'ipotesi del licenziamento per giusta causa, la dottrina e la giurisprudenza ritengono non vincolanti per il giudice le tipizzazioni delle condotte legittimanti il licenziamento per giustificato motivo soggettivo contenute nei contratti collettivi. Il giustificato motivo oggettivo L'art. 3, L. 604/1966, contempla anche l'ipotesi di giustificato motivo oggettivo che si realizza in presenza di ragioni inerenti "all'attività produttiva, alla organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa". Tali ragioni - da intendersi come esigenze "effettivamente rispondenti a criteri obiettivi di ordinato svolgimento dell'attività produttiva, desumibili da regole di comune esperienza" - prevalgono sull'interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro. Non esiste uniformità di vedute in dottrina ed in giurisprudenza in ordine alla sindacabilità o meno delle scelte imprenditoriali che conducono al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Da un lato, infatti, vi è chi, richiamandosi all'art. 41, Cost., sostiene l'insindacabilità nel merito da parte del giudice di tali scelte, dal lato opposto vi è chi afferma la necessità di un controllo di merito circa la loro razionalità. In ogni caso, la giurisprudenza prevalente ritiene legittimo solo il licenziamento che costituisce per il datore l'extrema ratio: quello che interviene, cioè, in mancanza di ogni reale possibilità di recupero del lavoratore nell'organizzazione produttiva. Ancora la giurisprudenza, infine, riconduce nell'ambito del giustificato motivo oggettivo alcuni casi di licenziamento che, benché collegati alla persona del lavoratore, non possono rientrare nell'ipotesi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo perché non integrano un inadempimento: così è a dire, ad esempio, per il licenziamento per superamento del periodo di comporto, giustificato dal perdurare dell'impossibilità temporanea del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa. È, peraltro, a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare l’effettività delle ragioni poste a base del licenziamento e l’impossibilità di una diversa proficua utilizzazione dei lavoratori licenziati. Il licenziamento determinato da giustificato motivo oggettivo, allorché investe una pluralità di lavoratori, non costituisce una ipotesi di licenziamento collettivo, il quale ai senso dell’art. 11 della legge 604/66 è sottratto alla normativa vincolistica in tema di recesso. I limiti procedurali posti al potere di licenziamento: la forma del licenziamento Oltre ai limiti sostanziali di cui si è appena detto, il potere di licenziamento del datore incontra anche limiti procedurali, attinenti alla forma del licenziamento. infatti: ·         deve essere comunicato al lavoratore per iscritto. La forma orale è ammessa solo per i licenziamenti dei lavoratori domestici e dei lavoratori in prova; ·         la motivazione del recesso non deve necessariamente essere enunciata nell’atto di intimazione del licenziamento; il prestatore di lavoro può chiedere, entro 15 giorni dalla comunicazione, i motivi che hanno determinato il recesso; ·         il datore di lavoro, nei sette giorni dalla richiesta del lavoratore, deve comunicare per iscritto i motivi che, una volta enunciati, sono immodificabili; ·         la giurisprudenza richiede anche l'immediatezza e la tempestività dell'adozione e, quindi, della comunicazione del licenziamento intimato per giusta causa; sembra logico ritenere che tale requisito, in ossequio ai princìpi generali in tema di risoluzione per inadempimento, per i quali la gravità di quest'ultimo va valutata alla stregua dell'interesse del creditore, debba valere anche in presenza di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento. L'onere della prova della sussistenza del giustificato motivo o della giusta causa grava sul datore. L'impugnazione del licenziamento L'impugnazione del licenziamento, da parte del lavoratore, deve avvenire, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla sua comunicazione o da quella dei motivi, se non contestuale. La previsione di un termine di decadenza induce a ritenere che il legislatore non si riferisca alle ipotesi in cui il licenziamento è espressamente dichiarato dalla legge nullo od inefficace. L'impugnazione può anche essere stragiudiziale, ossia effettuata per mezzo di qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota, anche attraverso l'organizzazione sindacale, la volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento. In tal caso, il prestatore può ricorrere al giudice del lavoro dopo aver esperito la procedura di conciliazione prevista dagli accordi sindacali o dai contratti collettivi ovvero quella disciplinata dall'art. 7, L. 108/1990 e dagli artt. 410 - 412, c.p.c.. In proposito, va rilevato che una delle principali innovazioni introdotte dalla L. 108/1990 consiste nell'obbligo, imposto ad entrambe le parti del rapporto, di esperire il tentativo di conciliazione stragiudiziale se il licenziamento è intimato in difetto di giusta causa o giustificato motivo da datore soggetto alle regole della tutela obbligatoria; la comunicazione della richiesta di conciliazione equivale ad impugnazione del licenziamento ed impedisce la decadenza. In caso di esito positivo, tanto della conciliazione obbligatoria quanto di quella facoltativa, il verbale, depositato presso la Cancelleria del Tribunale competente territorialmente, è reso esecutivo con decreto del giudice del lavoro; in caso di esito negativo, si forma processo verbale con le indicazioni del mancato accordi e di eventuali soluzioni proposte di cui il giudice dovrà tenere conto (art. 412 c.p.c.). In alternativa le parti possono definire la controversia mediante arbitrato irrituale. Il D.Lgs. 387/98, disciplinante la riforma del pubblico impiego, ha introdotto anche norme di modifica al processo del lavoro: attualmente l’art. 410 c.p.c. prevede il tentativo obbligatorio di conciliazione che deve essere promosso, anche tramite associazione sindacale, da chi intenda impugnare giudizialmente l’atto di licenziamento. L’esperimento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda volta all’impugnazione giudiziale del licenziamento. Il tentativo di conciliazione, come detto, può essere di tipo sindacale, nel qual caso esso avviene secondo le procedure previste dai contratti collettivi, oppure di tipo amministrativo, nel qua caso deve avvenire presso la Commissione di conciliazione, istituita presso ciascuna Direzione provinciale del lavoro, competente territorialmente. L’esperimento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda volta all’impugnazione giudiziale del licenziamento (art. 412 bis c.p.c.). Se il ricorso viene proposto in difetto di tentativo di conciliazione il giudice deve sospendere il processo e fissare un termine perentorio non superiore a 60 giorni entro giorni entro cui le parti devono proporre la richiesta del tentativo di conciliazione. Trascorso inutilmente tale termine, il processo può riassunto entro il termine perentorio di 180 giorni. Come detto, la richiesta di tentativo di conciliazione, una volta che ne sia stata data comunicazione al datore di lavoro, ha l’importante effetto di interrompere la prescrizione e di sospendere, per tutta la durata del tentativo e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni temine di decadenza. Illegittimità del licenziamento A seguito di impugnazione del licenziamento, nel caso in cui venga accertata l’illegittimità del recesso, il giudice potrà dichiarare: ·         l’inefficacia del licenziamento, intimato senza forma scritta, senza indicazione dei motivi ed, in generale, senza il rispetto delle formalità di cui all’art. 2 della legge 604 del 1966; ·         la nullità del licenziamento, indipendentemente dalla motivazione addotta. allorché esso sia stato discriminatorio, cioè determinato da ragioni di credo politico, fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato ecc. ecc., oppure motivato da motivo illecito; ·         l’annullamento del licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo (artt. 1 legge 604 del 1966 e 18 della legge 300 del 1970). Le sanzioni contro il licenziamento illegittimo Il licenziamento illegittimo perché non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo è annullabile; quello illegittimo per ragioni formali (cioè intimato senza il rispetto della forma scritta, senza l'indicazione dei motivi ovvero senza il rispetto delle formalità previste dall'art. 2, L. 604/1966) è inefficace; infine, quello "discriminatorio", quello delle lavoratrici madri e quello intimato per causa di matrimonio sono nulli. Ai fini dell'individuazione delle conseguenze della declaratoria di illegittimità del licenziamento, occorre distinguere:
  • la c.d. tutela reale, consistente nella condanna del datore alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno da questi subito, pari ad un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto e comunque non inferiore a 5 mensilità; il lavoratore ha, comunque, facoltà di risolvere il rapporto e pretendere, in alternativa alla reintegrazione effettiva, la corresponsione di un'indennità pari a 15 mensilità da sommarsi all'indennità risarcitoria;
  • la c.d. tutela obbligatoria, che consiste nella condanna del datore alla riassunzione del lavoratore entro 3 giorni ovvero al pagamento di una indennità determinata dal giudice tra un minimo ed un massimo legislativamente previsti; la scelta tra le due soluzioni spetta allo stesso datore.
  Ora per stabilire se la tutela accordata al prestatore sia quella reale oppure quella obbligatoria occorre far riferimento alle dimensioni dell'impresa, sotto il profilo del numero dei dipendenti, tenendo presente che nel computo vanno compresi anche i lavoratori a tempo indeterminato parziale in proporzione all'orario effettivamente svolto ed i lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, mentre non vanno computati il coniuge ed i parenti entro il secondo grado del datore. Dunque, l'art. 18, St. lav., modificato dall'art. 1, L. 108/1990, che disciplina la c.d. tutela reale, stabilisce che essa si applica nei confronti dei datori, imprenditori e non imprenditori, che occupano più di 15 dipendenti in ciascuna unità produttiva o ufficio in cui svolge la propria attività il lavoratore licenziato o più di 5 se si tratta di impresa agricola o più di 15 (o 5 se impresa agricola) nello stesso comune sebbene in più unità produttive od uffici, ovvero nei confronti dei datori che abbiano complessivamente alle proprie dipendenze più di 60 prestatori di lavoro. L'innovazione più importante introdotta dalla L. 108/1990 è costituita dal riferimento alla complessiva dimensione organizzativa del datore: pertanto, risultano oggi garantiti dalla tutela reale i lavoratori dipendenti da datori che comunque abbiano alle proprie dipendenze più di 60 prestatori, indipendentemente dal frazionamento organizzativo in unità produttive. La tutela obbligatoria, invece, spetta ai sensi dell'art. 8, L. 604/1966, come modificato dall'art. 2, L. 108/1990, nei confronti dei datori che occupano fino a 15 dipendenti per ogni unità produttiva (fino a 5 se impresa agricola) o fino a 60 dipendenti ovunque essi si trovino. In conclusione, un chiarimento merita il concetto di "unità produttiva" che la giurisprudenza, anche anteriore alla L. 108/1990, definisce come quella porzione della più vasta organizzazione imprenditoriale dotata di autonomia in senso tecnico-produttivo. Dalla interpretazione giurisprudenziale non si discosta la dottrina dominante, che valorizza l'aspetto funzionale dell'unità produttiva caratterizzata dal fatto di realizzare un risultato autonomo, che tuttavia si inserisce in quelli perseguiti dalla più ampia organizzazione anche non imprenditoriale . Il licenziamento discriminatorio L'art. 3, L. 108/1990, sancisce esplicitamente la nullità del licenziamento intimato per ragioni discriminatorie (politiche, sindacali, religiose, razziali, di lingua e di sesso), a prescindere dall'applicabilità o meno della normativa limitativa dei licenziamenti e, quindi, anche nelle aree in cui è ammesso il recesso "ad nutum". Il licenziamento discriminatorio dà in ogni caso diritto, al lavoratore che ne sia vittima alla tutela reale, quali che siano le dimensioni dell'impresa. Il licenziamento disciplinare Il licenziamento disciplinare, intimato come misura sanzionatoria, ha dato luogo in passato a contrasti giurisprudenziali sia in ordine alla sua legittimità sia in ordine alla sua riconducibilità nell'area di applicazione dell'art. 7, St. lav.. I dubbi interpretativi sono sorti perché l'art. 7, co. 4, St. lav., statuisce che "fermo restando quanto disposto dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro". Oggi, in seguito alla sentenza n. 204/82 della Corte costituzionale, i commi 1, 2 e 3 dell'art. 7, St. lav., si applicano anche "alla sanzione disciplinare del licenziamento, per la quale la normativa si limiti ad includere il licenziamento medesimo tra le sanzioni disciplinari e non richiami espressamente il regime per questo previsto dall'art. 7, L. 300/1970". Anche il licenziamento disciplinare è dunque sottoposto ai vincoli di carattere procedurale contemplati dall'art. 7, St. lav.: così, il datore ha l'obbligo di portare il codice disciplinare a conoscenza del lavoratore, di contestare preventivamente l'addebito a quest'ultimo e di sentirlo a sua difesa. La mancata osservanza della procedura disciplinare determina la nullità del licenziamento, con conseguente applicazione dell'art. 18, St. lav..