JUVENTUS reato prescritto e silenzio assoluto . La federazione non doveva costituirsi parte civile ?
Corte di Cassazione ,Sentenza numero 21324\2007 ,Sezione Sezione Penale
Avv. Michele Marra
di Caserta, CE
Letto 410 volte dal 25/02/2013
Purtroppo l'Italia non ha rispetto dei principi che l'hanno resa patria del diritto ed oggi regina del rovescio . La Corte conclude sul punto sostenendo di non condividere affatto neppure la tesi che trae spunto dalla sentenza di patteggiamento del R. per ritenere fondata in parte qua la tesi della pubblica accusa: sostiene, infatti, la Corte territoriale che l'affermazione secondo cui il giudicante sarebbe vincolato, nella valutazione della posizione di un imputato, dall'esistenza di un precedente giudicato nei confronti di altro soggetto ritenuto concorrente nello stesso reato, sarebbe erronea e non sostenibile come costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità. Orbene, premesso che a nulla rileva, ovviamente, la circostanza, sostenuta dalla Corte territoriale sia pur ad adiuvandum, della mancata incriminazione del R. per il delitto di frode sportiva, osserva questo collegio che la motivazione complessivamente offerta dalla Corte territoriale appare carente e, quindi, censurabile. La stessa, infatti, pur ribaltando le conclusioni del giudice di primo grado, non ha preso in considerazione tutti gli elementi di fatto sui quali si fondava la decisione e, segnatamente: - l'avvenuta contraffazione, da parte del R., di alcune prescrizioni mediche provenienti dalla casa di cura (OMISSIS), per ottenere dalle case produttrici alcune specialità medicinali, poi trasferite alla soc. Juventus; - la richiesta da parte della soc. Juventus al farmacista R. di meri ordinativi commerciali per richiedere farmaci sottoposti all'obbligo della prescrizione medica; - la richiesta di farmaci autorizzati dal Ministero della sanità per indicazioni terapeutiche incompatibili con lo stato di salute di atleti in piena attività agonistica; - le dichiarazioni rese dai giocatori della soc. juventus; - la sentenza di patteggiamento relativa alla posizione del R.. In particolare, con specifico riferimento alle dichiarazioni dei giocatori circa la consapevolezza delle sostanze loro illecitamente somministrate, va osservato, pur nel rigoroso rispetto dei limiti del giudizio di legittimità, che la Corte territoriale, nel ribaltare, ancora una volta, le affermazioni del primo giudice, non ha operato una censura rigorosa delle argomentazioni del Tribunale ("quasi tutti i giocatori, fatta eccezione per i farmaci dichiarati all'antidoping, concordemente hanno affermato essersi trattato di vitamine e persino Bi. che in un primo momento aveva sostenuto che non sempre egli era stato messo a conoscenza della specialità farmaceutica che gli veniva iniettata per flebo, ha poi modificato tale versione assumendo di aver sempre saputo che cosa gli veniva somministrato" e affermando che, in ogni caso, gli veniva somministrato un prodotto disintossicante o un complesso vitaminico), limitandosi ad affermare, del tutto genericamente, che "non mancano nelle dichiarazioni rese dai giocatori della Juventus, indicazioni che fanno ritenere come gli stessi atleti fruissero di una informazione tutto sommato sufficiente in merito alle sostanze somministrate...". Analoghe considerazioni devono porsi con riferimento alla valutazione della sentenza di patteggiamento: pur corretto il presupposto logico- argomentativo (il giudicante non può certo ritenersi vincolato, nella valutazione della posizione di un imputato, dall'esistenza di un precedente giudicato nei confronti di altro soggetto, concorrente nello stesso reato), la sentenza di applicazione della pena non può, come è stato fatto dalla Corte territoriale, essere tenuta in non cale dopo la valutazione sul punto operata dal primo giudice, dovendo comunque essere esaminata, nel rispetto del principio del libero convincimento, ai sensi dell'art. 238 bis c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3,: la ratio di tali previsioni normative, di non dispersione degli elementi conoscitivi contenuti in provvedimenti che hanno, comunque, acquistato l'autorità di cosa giudicata, tra i quali rientra senza meno anche la sentenza di patteggiamento, riguarda non solo il fatto accertato ma anche gli altri elementi desumibili dalla motivazione della sentenza e, quindi, sicuramente, tra l'altro, anche la realizzazione, da parte del R. della condotta di cui all'art. 445 c.p.. Ben può il giudice di secondo grado discostarsi dalle conclusioni del giudice di prime cure giungendo a un risultato affatto diverso ma quando, come nella specie, la difformità riguarda l'esclusione della responsabilità (o, viceversa, l'affermazione della responsabilità), le diverse argomentazioni devono tener conto in modo analitico ed esaustivo di tutte le argomentazioni prese in considerazione dal giudice di primo grado, per giungere a un opposto verdetto. La necessità di una approfondita valutazione in merito appariva tanto più necessaria in quanto la Corte territoriale è entrata in rotta di collisione con un giudicato affermando che il R. "oltre a non aver posto in essere materialmente la condotta incriminata (ossia quella di somministrazione off label delle sostanze medicinali) non vi prese parte neppure sotto il profilo del concorso morale..". La motivazione della Corte territoriale sul punto specifico è, quindi, carente e va, conseguentemente, annullata in parte qua. Valgono, anche con riferimento a tali capi di imputazione, le stesse considerazioni già prospettate con riferimento al capo g) della rubrica: l'annullamento va disposto senza rinvio perchè i reati sono estinti per intervenuta prescrizione. Ed invero, la condotta del reato di cui all'art. 445 c.p. (Somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica. “Chiunque, esercitando anche abusivamente, il commercio di sostanze medicinali, le somministra in specie, qualità o quantità non corrispondente alle ordinazioni mediche, o diversa da quella dichiarata o pattuita, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da lire duecentomila a due milioni.”), risulta commessa, in esecuzione del medesimo disegno criminoso, dal luglio del 1994 al settembre del 1998: ne consegue che il termine massimo di prescrizione (anni sette e mesi sei), calcolato secondo le disposizioni della disciplina previgente, e ritenute le sospensioni già indicate, è maturato in data 12 febbraio 2007.. . . Eppure dalla mera prescrizione, erano perseguibili azioni civili, ad esempio da parte della Federazione Gioco Calcio che pure si doveva sentire lesa del comportamento juventino, invece il nulla più assoluto è stato steso un velo pietoso su anni che nessuno vuole veramente rivisitare e neanche i diretti interessati ne parlano . Chissà se e quanti calciatori ex juventini subiranno conseguenza dannose per la propria salute in relazione all'assunzione di medicinali come indicati in sentenza e se qualcuno non abbia già sintomi invalidanti permanenti . Il mistero più cupo che non lascia adito a dubbi qualcuno in Federazione forse ha voluto coprire una pagina buia dello sport più amato dagli italiani
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MORELLI Francesco - Presidente -
Dott. MONASTERO Francesco - est. Consigliere -
Dott. CARDELLA Fausto - Consigliere -
Dott. AMBROSIO Annamaria - Consigliere -
Dott. ZAPPIA Pietro - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
Procura generale presso la Corte di appello di Torino e dal difensore
dell'imputato G.A.;
avverso la sentenza emessa dalla Corte di Appello della stessa città
in data 14 dicembre 2005;
visti gli atti, la sentenza impugnata ed il ricorso;
udita, all'udienza pubblica del 29 marzo 2007, la relazione del
Consigliere, Dott. Francesco Monastero;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale, Dott. MONETTI V., che ha concluso chiedendo l'annullamento
senza rinvio del capo d) della sentenza impugnata, per intervenuta
prescrizione e, per il resto, in accoglimento del ricorso del
Procuratore generale, l'annullamento con rinvio della sentenza
impugnata;
uditi gli Avv.ti Krogh e Trotino, difensori di G., che hanno
chiesto l'accoglimento del ricorso dell'imputato e l'inammissibilità
di quello del Procuratore
generale, l'avv. Zaccone, difensore di A., che ha chiesto il
rigetto del ricorso del Procuratore generale e l'avv. Chiappero,
difensore di A., che ha chiesto, in via principale,
l'inammissibilità del ricorso e, in via subordinata, la declaratoria
di intervenuta prescrizione.
FATTO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza emessa in data 14 dicembre 2005, la Corte di Appello di Torino, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Torino in data 26 novembre 2004, dichiarava G.A. colpevole della contravvenzione di cui al capo d) della rubrica, assolveva A.R. e, per effetto estensivo, G. A., dal reato di cui al capo g), nella parte relativa alla contestazione avente ad oggetto "eritropoietina umana ricombinante o pratiche di tipo trasfusionale", perchè il fatto non sussiste, assolveva entrambi gli imputati dai residui fatti addebitati al capo g), con la formula perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato e, infine, assolveva A.R. dai reati di cui ai capi h) e i), della rubrica perchè il fatto non costituisce reato.
Gli imputati G. e A. erano stati rinviati a giudizio per rispondere:
entrambi, del capo a) della rubrica (ricettazione), per avere nelle rispettive qualità, acquistato e ricevuto da R.G. alcune specialità medicinali, ad acquisto, conservazione ed uso riservati ad ospedali e case di cura, e di cui era vietata la vendita al pubblico, provenienti dai delitti di falso e di truffa in danno delle rispettive case produttrici: il R., infatti, secondo l'ipotesi accusatoria, aveva contraffatto alcune prescrizioni mediche ed aveva attestato trattarsi di prodotti ospedalieri per la casa di cura "(OMISSIS)";
il solo G., del reato di cui al capo c) della rubrica (contravvenzione di cui al D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 538, art. 15), per avere esercitato, senza la prescritta autorizzazione, attività consistenti nel procurarsi e fornire i medicinali specificamente elencati;
il G., inoltre, del reato di cui al capo d) della rubrica (D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4), per aver omesso di redigere un documento di valutazione dei rischi per la sicurezza e salute durante il lavoro, relativamente ai calciatori della soc. juventus p.a.;
entrambi, delle contravvenzioni contestate ai capi e) ed f) della rubrica (L. n. 135 del 1990, art. 6, e L. n. 300 del 1970, artt. 5 e 38);
entrambi, inoltre, del reato di cui al capo g) della rubrica (L. n. 401 del 1989, art. 1) per avere, in concorso tra loro e al fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento di competizioni sportive organizzate dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio, campionato di calcio di serie A e Coppa Italia, compiuto una pluralità convergente di atti fraudolenti consistenti:
nel procurarsi e somministrare ai calciatori specialità medicinali contenenti sostanze rientranti nell'elenco formulato dal C.I.O., relativo alle classi di sostanze proibite e segnatamente specialità medicinali atte a stimolare l'eritropoiesi quali l'eritropoietina umana ricombinante, le specialità medicinali Liposom forte, Udocaina, Xilocaina, Depro-Medol fiale, Depro-Medol + hodocaina fiale, Bentelan fiale e compresse, Deflan compresse, Flantadin compresse, Flebocortid fiale, Solu-Medrol fiale, Tricortin 1000;
nel procurarsi e somministrare ai calciatori specialità medicinali al di fuori delle indicazioni autorizzate dal Ministero della Sanità, con lo scopo di incrementarne le prestazioni e, in particolare:
a) la specialità medicinale Samir, autorizzata dal Ministero della sanità per il trattamento delle sindromi depressive;
b) la specialità medicinale Liposom forte, autorizzata dal Ministero della sanità per le alterazioni metaboliche cerebrali conseguenti a turbe neuroendocrine e, invece, somministrata a calciatori in piena attività agonistica;
c) la specialità medicinale Neoton, contenente creatina fosfato, autorizzata dal Ministero della sanità per la cardioprotezione in chirurgia cardiaca e per la sofferenza del miocardio negli stati ischemici e, invece, somministrata per via endovena mediante fleboclisi a calciatori in piena attività agonistica, non affetti da alcuna sofferenza metabolica del miocardio;
d) la specialità medicinale Esafosfina, autorizzata dal Ministero della sanità per il trattamento della ipofosfatemia accertata in situazioni acute, come le trasfusioni di sangue o in affezioni croniche quali etilismo, malnutrizione o insufficienza respiratoria e per il trattamento delle miocardiopatie ischemiche, e, invece, somministrata per via endovena, mediante fleboclisi, a calciatori in piena attività agonistica, non affetti da alcuna miocardiopatia ischemica nè da altre patologie tra quelle indicate, con la giustificazione che si trattava di sostanze ricostituenti e non informando i calciatori che si trattava di un farmaco attivo sul metabolismo energetico-muscolare, con la finalità di realizzare nei calciatori trattati una efficace attivazione bioenergetica a livello della muscolatura cardiaca e scheletrica, e di modificarne le proprietà psicofisiche e biologiche e, quindi, con l'intento di incrementarne le prestazioni;
nel procurarsi e somministrare ripetutamente ai calciatori specialità medicinali al di fuori delle indicazioni autorizzate dal Ministero della Sanità e, segnatamente, Depro-medrol fiale e Bentelan fiale;
nel procurarsi e somministrare ripetutamente ai calciatori la specialità medicinale Voltaren, autorizzata dal Ministero della sanità per affezioni reumatiche infiammatorie e degenerative, artrosi ed altro e, invece, somministrata anche a immediato ridosso o nel corso delle competizioni a calciatori non affetti da alcuna patologia;
nel procurarsi e somministrare ai calciatori specialità medicinali ad acquisto, conservazione ed uso riservati a ospedali e case di cura e non utilizzabili in condizioni di sufficiente sicurezza al di fuori di strutture ospedaliere e, in particolare, l'Orudis e il Mepral;
nel procurarsi e somministrare ai calciatori prodotti contenenti creatina in dosaggi giornalieri superiori ai sei grammi, in contrasto con le specifiche indicazioni in materia con l'intento di potenziarne le prestazioni;
nel non riportare nelle cartelle cliniche relative ai giocatori le somministrazioni, le prescrizioni, le indicazioni, i dosaggi, la natura e la durata dei trattamenti farmacologici ad essi praticati;
entrambi, infine, dei reati di cui ai capi h) ed i) della rubrica (art. 445 c.p.), per avere somministrato ai calciatori trattati, specialità medicinali in specie e qualità diverse da quelle dichiarate.
Nei confronti del R., chiamato a rispondere dei reati sub b) ed h) della rubrica, si procedeva separatamente avendo lo stesso chiesto e ottenuto l'applicazione di una pena concordata, ex art. 444 c.p.p..
Il Tribunale di Torino, con sentenza in data 26 novembre 2004, assolveva entrambi gli imputati dal reato di cui al capo a), riqualificato il fatto come concorso nel delitto di falso di cui al capo b), originariamente contestato al solo R., per non aver commesso il fatto e dai reati di cui ai capi e) ed f), perchè il fatto non sussiste; assolveva inoltre, il G. dal reato di cui al capo d), per non aver commesso il fatto, dalla contravvenzione di cui al capo c), per
prescrizione, e dai reati di cui ai capi g), h) ed i), per non aver commesso il fatto, a norma dell'art. 530 c.p.p., comma 2.
L' A. veniva, viceversa, riconosciuto colpevole dei reati di cui ai capi g), h) ed i) della rubrica e condannato alla pena di anni uno, mesi dieci di reclusione ed Euro 2.000,00 (duemila/00) di multa.
Avverso tale sentenza proponeva appello, da un lato, il Procuratore della Repubblica di Torino, sia con riferimento alla assoluzione di A. dal reato di falso di cui al capo b), della rubrica, sia con riferimento alla assoluzione di G. in ordine ai delitti di cui ai capi d), g), h) ed i): dall'altro, il difensore dell' A. che, oltre a proporre eccezioni in rito, si doleva, nel merito, della mancata assoluzione con riferimento a tutti i reati.
La Corte territoriale rilevava, in via liminare, che le più significative problematiche di cui si era discusso nel dibattimento di primo grado, e che erano state oggetto dell'impugnazione di A., convergevano sul reato di frode sportiva (L. n. 401 del 1989, art. 1) di cui al capo g) della rubrica, e sul reato di somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica (art. 445 c.p.), di cui ai capi h) ed i) della rubrica.
La Procura della Repubblica di Torino aveva, infatti, sostenuto che gli attuali imputati, nelle rispettive qualità, il G. di Amministratore delegato della società juventus e l' A. di responsabile del settore medico, in concorso con il R., titolare della farmacia fornitrice di farmaci al club, e nei cui confronti si è poi proceduto separatamente - essendosi lo stesso avvalso della possibilità di chiedere l'applicazione della pena anche in dibattimento, a seguito dell'entrata in vigore dalla L. n. 134 del 2003, e della relativa normativa transitoria - si erano procurati ed avevano somministrato ai calciatori della soc. Juventus, dal 1994 al 1998, una lunga serie di medicinali che erano stati suddivisi in a) sostanze proibite, in quanto ricomprese negli elenchi predisposti dal C.I.O., in vista della lotta al doping in ambiente sportivo, sostanze tra le quali spiccava la eritropoietina umana ricombinante, b) specialità medicinali non vietate ma utilizzate in condizioni "off label", ossia al di là e al di fuori delle indicazioni terapeutiche autorizzate dal Ministero della Sanità, c) specialità medicinali riservate agli ospedali e alle case di cura e non utilizzabili al di fuori delle strutture ospedaliere, e d) prodotti contenenti creatina somministrati in dosaggi superiori a sei grammi giornalieri, così da impiegare il predetto integratore sostanzialmente come medicinale.
Tali condotte, secondo l'accusa avevano dato vita a una attività di carattere fraudolento realizzata con il fine specifico di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento di competizioni sportive organizzate dalla Federazione Italiana Gioco Calcio, Campionato di calcio di serie A, in tal modo commettendo sia il reato di frode sportiva di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 1, sia il reato di cui all'art. 445 c.p., contestato, quest'ultimo in due distinti capi di imputazione concernenti, rispettivamente, il commercio di farmaci in senso tradizionale e il commercio di prodotti contenenti creatina.
Quanto al delitto di frode sportiva, dopo aver ricostruito il percorso argomentativo della sentenza di primo grado, che aveva ritenuto che la condotta dell'imputato A. integrasse il reato a forma libera di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 1, seconda parte, - fattispecie ritenuta applicabile al caso in esame perchè il legislatore, ad avviso dei primi giudici, dopo aver contemplato nella prima parte dell'articolo una condotta di natura corruttiva ("chiunque offre o promette denaro ... a taluno dei partecipanti a una competizione sportiva ... al fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione .-."), avrebbe poi sanzionato penalmente, e con la medesima pena, il compimento di "altri atti fraudolenti volti al medesimo scopo" - la Corte territoriale risolveva la problematica posta al suo esame in senso contrario rispetto alla soluzione adottata nella
sentenza di primo grado ritenendo che la disposizione in esame non poteva trovare applicazione nei confronti della condotta che era stata ascritta ai dirigenti della Juventus.
In particolare, la Corte territoriale sosteneva di condividere il pronunciamento dell'unica sentenza con la quale questa Corte aveva affrontato la tematica in esame (Cass., sez. 6^, 25 gennaio 1996, n. 3011, Omini), affermando che "non rientra nella ipotesi di reato di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 1, l'assunzione di sostanze dopanti da parte di un corridore", e che "gli atti fraudolenti volti al medesimo scopo di cui all'ultima parte della L. n. 401 del 1989, art. 1, devono essere individuati alla stregua degli atti espressamente correlati all'offerta o promessa di denaro o di altra utilità o vantaggio a taluno dei partecipanti" e che, pertanto, "l'ambito di applicazione della legge non può essere esteso ai fenomeni autogeni di doping".
Ad avvalorare tale interpretazione, ad avviso della Corte territoriale, soccorreva anche la lettura dei lavori preparatori della legge che venivano contestualmente ed accuratamente analizzati, e la ulteriore circostanza della presenza nell'ordinamento di una disciplina specifica, la L. 26 ottobre 1971, n. 1099, che all'art. 3, sanzionava l'impiego e la somministrazione di sostanze al fine di modificare artificialmente le energie naturali del partecipante a una competizione sportiva.
E' vero, infatti, proseguiva la Corte territoriale, che tale fattispecie era stata depenalizzata dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 32, ma tale "assenza di tutela" penale in senso stretto non poteva certo giustificare, per sè sola, una inammissibile interpretazione estensiva dell'ambito di applicazione della L. n. 401 del 1989.
Peraltro, proseguiva la Corte di appello, la stessa struttura della L. n. 401 del 1989, si poneva in forte contrasto con l'interpretazione privilegiata dal Tribunale: da un lato, infatti, il provvedimento legislativo era privo dell'elenco delle sostanze vietate, elenco che viceversa, doveva ritenersi una costante nella normativa antidoping riscontrandosi, infatti, non solo nella citata L. del 1971, ma anche nella Convenzione di Strasburgo, ratificata dalla L. 522 del 1995 e, da ultimo, nella L. n. 376 del 2000, che aveva dato concreta attuazione alla citata Convenzione.
Inoltre, l'interpretazione offerta dal Tribunale avrebbe trovato un ostacolo insormontabile, ad avviso della Corte, nell'art. 1, comma 2 della legge che equipara il partecipante che accetta il denaro o altra utilità, all'extraneeus che tale denaro offre: la condotta del partecipe, di conseguenza, integrerebbe la fattispecie incriminatrice solo con riferimento all'ipotesi corruttiva di cui al comma 1, non essendo prevista alcuna sanzione con riferimento al compimento degli "altri atti fraudolenti" di cui allo stesso art. 1, seconda parte.
Affermato il principio che "la somministrazione al partecipante ad una competizione sportiva, di sostanze idonee a modificarne la prestazione - siano esse proibite o meno - non rientra nell'ipotesi criminosa di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 1, comma 1, seconda parte allorchè il medesimo atleta sia consapevole di tale condotta", non potendo la stessa essere qualificata fraudolenta, la Corte territoriale proseguiva l'analisi della imputazione rilevando la presenza, all'interno della stessa, di due aspetti, l'uno relativo alle specialità medicinali non espressamente vietate e l'altro concernente alcune sostanze proibite tra le quali spiccava, ovviamente, l'eritropoietina.
Con riferimento alle sostanze non espressamente vietate, la Corte territoriale osservava che la condotta contestata era stata effettivamente posta in essere nei confronti dei giocatori della Juventus negli anni dal 1994 al 1998, con modalità off-label con la conseguenza che la formula assolutoria non poteva che essere "perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato", formula che veniva estesa anche al G., assolto in primo grado per non aver commesso il fatto, avendo la Corte ritenuto tale imputato concorrente a pieno titolo dell' A. (cfr. pp. da 56 a 61 del provvedimento impugnato) nella commissione del reato de quo.
Il secondo aspetto dell'imputazione di frode sportiva concerneva la somministrazione di sostanze vietate: premesso che l'indagine doveva essere effettuata esclusivamente con riferimento alla eritropoietina umana ricombinante - non essendo emerse dagli atti del processo indicazioni concrete di una somministrazione in favore degli atleti delle altre sostanze vietate di cui all'imputazione (e, segnatamente, il Liposom, la Lidocaina, la Xilocaina, il Bentelan, il Flantadin compresse, il Flebocortid fiale, il Tricortin 1000, etc..., sostanze che, proseguiva il giudice di secondo grado, erano state "praticamente ignorate" nel corso del giudizio) - la Corte territoriale compiva quindi una approfondita valutazione del merito della vicenda (da p. 65 in avanti) giungendo ad escludere che gli indizi emersi, qualificati come meri elementi probatori indiretti, potessero legittimare la tesi dell'accusa di avvenuta somministrazione di eritropoietina.
Per giungere a tali conclusioni, la Corte ricostruiva i fatti che avevano portato alla formulazione della predetta ipotesi accusatoria, osservando che originariamente il pubblico ministero, a seguito delle conclusioni peritali, aveva ritenuto di addebitare agli imputati esclusivamente una condotta omissiva, per non avere gli stessi adottato le necessarie misure precauzionali, in presenza di situazioni cliniche anomale evidenziatesi in alcuni calciatori, e consistenti, ad es., in intensi incrementi del valore di ematocrito.
Solo in un secondo momento, a seguito della perizia disposta in dibattimento ed eseguita dal Prof. D., il pubblico ministero provvedeva a modificare la imputazione: il perito, infatti, rispondendo ad uno specifico quesito posto dal giudice ("...se le riscontrate variazioni dei valori di alcuni degli indicati parametri siano da considerarsi fisiologiche e compatibili con la normale e intensa attività fisica svolta dai calciatori o siano invece indicative del fatto che gli stessi giocatori possano aver assunto eritropoietina, preparati a base di ferro o altre sostanze..."), affermava che la eritropoietina umana ricombinante sarebbe stata somministrata, in forma acuta e per brevi periodi, ai giocatori Co. e Ta., e in forma cronica e a dosi basse, anche ad altri giocatori. Tali conclusioni avevano comportato la modifica del capo di imputazione nel senso che la condotta meramente omissiva, originariamente contestata, lasciava il posto a una condotta, commissiva ed esplicita, di somministrazione della sostanza vietata.
Rilevava, sul punto, la Corte territoriale a) che negli anni dal 1994 al 1998 non era stato riscontrato alcun caso di positività a sostanze dopanti in nessuno dei giocatori in forza alla soc. Juventus, b) che nessun elemento processuale portava a ritenere che la stessa società avesse acquistato l'eritropoietina umana ricombinante, c) che le stesse espressioni utilizzate dal perito d'ufficio ("molto probabile" e "praticamente certa"), avevano sostenuto la possibilità di somministrazione della predetta sostanza dopante in termini diversi dalla sicura evidenza.
In particolare, la Corte riteneva che il valore probatorio di quanto accertato dal perito fosse "molto modesto" sia perchè le anomalie segnalate dallo stesso apparivano tutte circoscritte in un ambito di normalità di valori, sia perchè lo stesso perito avrebbe ridimensionato i risultati del proprio elaborato, "adeguandosi in parte alle spiegazioni e alle opinioni giunte dal versante delle difese".
Per quanto riguardava poi i singoli atleti, la Corte prendeva specificamente in considerazione i casi Co. e Ta., in relazione ai quali il perito aveva concluso per una somministrazione "praticamente certa" di eritropoietina, ed osservava che la posizione di entrambi i giocatori era caratterizzata "unicamente da sospetti, più o meno consistenti che non assurgevano a valore di prova neppure sotto il profilo indiziario".
Di conseguenza la Corte assolveva l' A., e, per effetto estensivo, il G., dal reato di cui al capo g9 della rubrica, nella parte relativa alla contestazione avente ad oggetto eritropoietina umana ricombinante, perchè il fatto non sussiste.
Sotto altro versante, e con riferimento al reato di somministrazione di sostanze medicinali in modo pericoloso per la salute, la Corte territoriale ricostruiva il percorso argomentativo del primo giudice che aveva affermato che la condotta dell' A., rappresentata dalla somministrazione off label dei medicinali indicati nel capo di imputazione, integrava il delitto di cui all'art. 445 c.p.:
e ricordava che la motivazione della sentenza di primo grado si fondava a) sulla circostanza, di ordine generale, che la fattispecie in esame non poteva certo ritenersi limitata ai soli farmacisti o commercianti di medicinali, b) sulla considerazione che la condotta della norma incriminatrice consisteva nella somministrazione di sostanze medicinali in specie, quantità o qualità non corrispondenti alle ordinazioni mediche o diversa da quella dichiarata o pattuita, e, conseguentemente, nel fatto che tale condotta doveva essere interpretata nel significato più ampio possibile, e c) che, nel caso di specie, l' A. aveva sicuramente somministrato ai calciatori le sostanze proibite sommando in sè la doppia qualità di medico sociale addetto alla cura dei calciatori, funzione che gli aveva permesso di richiedere i medicinali presso i fornitori, e di somministratore diretto degli stessi farmaci ai fruitori finali, attività, quest'ultima, esercitata, peraltro, in modo ingannevole.
In conseguenza, ad avviso del Tribunale, non poteva essere accolta la tesi della difesa secondo la quale "riferire la diversità in specie, qualità o quantità delle sostanze medicinali da quelle dichiarate o pattuite, non necessariamente a una attività strettamente o professionalmente commerciale, bensì all'atto di somministrare tali sostanze, sarebbe stata operazione vietata dal principio di stretta legalità in quanto avrebbe attuato una indebita estensione analogica".
Viceversa, ad avviso del Tribunale, l'interpretazione accolta era l'unica che doveva ritenersi rispondente "a un corretto criterio interpretativo ... della disposizione stessa nella quale non è stato utilizzato il verbo consegnare per descrivere la condotta, bensì il verbo somministrare".
La Corte territoriale, di contro, rilevava che il percorso dei farmaci e dei prodotti a base di creatina dai soggetti qualificati (farmacista o fornitore) al medico sociale e da quest'ultimo agli atleti, si era sviluppato in due fasi nettamente distinte.
La prima, durante la quale i farmaci erano stati ordinati e consegnati alla società, fase durante la quale, ad avviso della Corte, non vi era alcun motivo per ritenere che i soggetti qualificati avessero consegnato i farmaci stessi in modo difforme rispetto agli ordinativi commerciali ricevuti dall'acquirente sulla base delle indicazioni del medico sociale.
La seconda fase sarebbe stata caratterizzata dalla somministrazione dei farmaci e della creatina da parte di A. ai calciatori, con la conseguenza che nè il R. nè i fornitori di creatina avevano preso parte a tale seconda condotta che aveva riguardato esclusivamente il rapporto tra i dirigenti della società e i giocatori.
In altri termini, proseguiva la Corte, nel reato proprio il soggetto qualificato non aveva in alcun modo posto in essere la condotta incriminata nè sotto il profilo materiale ne sotto il profilo morale: e l'ulteriore considerazione che nei confronti del R., per tale reato, era divenuta irrevocabile una sentenza di patteggiamento, non consentiva di precludere una autonoma valutazione della posizione dei coimputati come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità.
Concludeva, infine, la Corte territoriale che la condotta posta in essere dai dirigenti della Juventus non poteva comunque integrare il delitto di cui all'art. 445, c.p. per l'assenza dell'elemento dell'inganno nei confronti dei calciatori che avevano fruito di una informazione non capillare ma tutto sommato sufficiente in merito alle sostanze che venivano loro somministrate.
Quanto, infine, alla contravvenzione di cui al capo d) della rubrica, concernente l'incompleta elaborazione del documento relativo alla valutazione dei rischi in tema di sicurezza e di salute
sul lavoro, relativamente ai giocatori nella loro qualità di dipendenti della Juventus - addebito in ordine al quale il Tribunale di Torino aveva assolto il G. (unico imputato) per non aver commesso il fatto, attesa l'esistenza di una delega che investiva di tale compito un dirigente della società - la Corte territoriale osservava che gli obblighi inerenti alla valutazione dei rischi, riguardavano in via esclusiva il datore di lavoro e non potevano formare oggetto di valida delega: per l'effetto, ritenuto sussistente l'elemento soggettivo del reato (quello oggettivo della mancata redazione del documento era, infatti, ritenuto del rutto pacifico), la Corte condannava il G. alla pena di Euro 2.000,00 (duemila/00) di ammenda.
Avverso tale sentenza interpongono ricorso per cassazione sia il Procuratore generale presso la Corte di appello di Torino, sia il difensore dell' A..
Il primo deduce inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione, sia con riferimento al delitto di cui al capo g) della rubrica, e cioè alla L. n. 401 del 1989, art. 1 sia con riferimento al delitto di cui ai capi h) ed i), e cioè all'art. 445 c.p..
In particolare, quanto al capo g) della rubrica, il Procuratore generale ritiene del tutto erronea l'interpretazione offerta dalla Corte territoriale circa la ritenuta non applicabilità della L. n. 401 del 1989, art. 1 alla fattispecie in esame, contestando punto per punto, le argomentazioni della sentenza e sviluppando una serie di considerazioni alternative.
Rileva il ricorrente che entrambe le fattispecie descritte dalla norma incriminatrice sono sorrette dal dolo specifico costituito dalla finalità di raggiungere un risultato diverso da quello connesso allo svolgimento di una corretta e leale competizione e la somministrazione di sostanze dopanti ad atleti partecipanti a competizioni sportive organizzate dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio, non può non rientrare nel concetto di "atto fraudolento volto al fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione".
Il ricorrente rileva poi che, la sentenza della Corte di cassazione richiamata dalla Corte territoriale (Cass., sez. 6^, sent. n. 3011 del 25 gennaio 1996, Omini) avrebbe affermato esclusivamente il principio che "non rientra nell'ipotesi di reato di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 1, l'assunzione di sostanze dopanti da parte di un corridore...", principio del tutto irrilevante nel caso di specie ove si discute non dell'assunzione spontanea di sostanze dopanti da parte di atleti, bensì della somministrazione di esse, da parte di terzi, ai giocatori di una squadra di calcio: a ben vedere, prosegue il Procuratore generale, una attenta lettura della sentenza Omini avrebbe condotto alla diversa conclusione di ritenere applicabile al caso di specie la somministrazione di sostanze dopanti alla luce del riferimento, contenuto nella predetta sentenza, al parametro della proiezione all'esterno dell'attività fraudolenta.
La sentenza richiamata, in altri termini, si sarebbe limitata ad escludere l'applicabilità di tale norma alle sole ipotesi di doping autogeno e non già ai fatti di doping eterogeno, ossia di somministrazione di sostanze dopanti da parte di un terzo, non partecipante alla competizione.
Principio, prosegue il Procuratore generale, recepito anche dalla giurisprudenza di merito (vengono richiamate la sentenza n. 174 del 1992, del Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Roma, e la sentenza del 19 novembre 2003 del Tribunale di Ferrara) che avrebbero, implicitamente la prima, ed espressamente la seconda, confermato la piena sussumibilità della condotta di somministrazione di sostanze dopanti nella disposizione normativa de qua agitur.
Peraltro, rileva il ricorrente, la Corte territoriale avrebbe preso in considerazione, come unico criterio interpretativo, esclusivamente i lavori preparatori, il cui esame, peraltro, sarebbe stato effettuato in modo parziale e frammentario, senza tener conto del criterio teleologico che fa
riferimento allo scopo della norma che, una volta emanata, vive di una propria autonomia che l'interprete deve attualizzare individuando il più congruo oggetto di tutela:
e sotto tale profilo non può non osservarsi, prosegue il Procuratore ricorrente, che tra gli scopi della legge, oltre quello di intervenire nel settore del giuoco e delle scommesse clandestine, e di contrastare i fenomeni di violenza in occasione delle manifestazioni sportive, vi è certamente anche quello di tutelare la correttezza nello svolgimento delle competizioni sportive.
Del tutto fuori luogo, prosegue il ricorrente, affermare che la condotta doveva ritenersi punita ai sensi della L. n. 1099 del 1971, che ha, infatti, di mira esclusivamente la tutela sanitaria delle attività sportive mentre la norma incriminatrice in discussione ha lo scopo di tutelare la correttezza delle manifestazioni sportive contro manovre fraudolente poste in essere da soggetti diversi dai partecipanti alla gara. Le due normative, quindi, avendo un diverso oggetto giuridico e una diversa struttura dovevano ritenersi entrambe applicabili al caso concreto, realizzando una ipotesi di concorso formale di reati e non già una ipotesi di concorso apparente di norme, con conseguente esclusione dell'applicabilità della L. n. 689 del 1981, art. 9 che tale disposizione aveva depenalizzato.
Oltre che in violazione di legge, la motivazione della Corte territoriale, ad avviso del ricorrente, sarebbe in parte inesistente, nonchè illogica e contraddittoria, laddove, del tutto apoditticamente, ha affermato che la consapevolezza dell'atleta farebbe venir meno l'antigiuridicità della condotta di somministrazione di sostanze dopanti e laddove ha ritenuto, del pari immotivatamente, che i giocatori della Juventus fossero perfettamente consapevoli del tipo di sostanze assunte e delle modalità off label delle medesime.
Dopo aver ribadito l'applicabilità della L. n. 401 del 1989, il ricorrente prende in esame il rapporto tra l'art. 1 di tale normativa e la L. n. 376 del 2000, sopravvenuta ai fatti, e intitolata "Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping, che ha introdotto nell'ordinamento una specifica previsione penale in tema di doping, l'art. 9, che punisce l'assunzione, la somministrazione o l'utilizzo di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricomprese nelle classi previste dall'art. 2, comma 1, della stessa legge, e rileva che il giudice di primo grado, contrariamente a quanto affermato dalla difesa, aveva motivatamente affermato che tra i reati non c'era alcuna continuità normativa, mancando il requisito della coincidenza strutturale, richiesto dalla giurisprudenza di legittimità (viene richiamata Cass., sezioni unite, 26 marzo 2003, n. 25887, Giordano) per diversità della condotta, dell'ambito di applicazione e del bene giuridico protetto.
Il Procuratore generale ricorda di aver prospettato anche una diversa ricostruzione sistematica, con riferimento alla presenza nell'ordinamento di entrambe le leggi de quibus, giungendo alla conclusione che la somministrazione di sostanze dopanti espressamente vietate, anche dal decreto ministeriale di attuazione della L. n. 376 del 2000, art. 2 sarebbe oggi punita solo ai sensi dell'art. 9 della stessa legge, mentre gli stessi fatti commessi prima dell'entrata in vigore della nuova legge, sarebbero puniti, in applicazione dell'art. 2 c.p., comma 3, dalla disposizione di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 1;
per altro verso, la somministrazione di sostanze dopanti non comprese nell'elenco ministeriale, resterebbe sanzionata solo dalla L. n. 401 del 1989, art. 1, seconda parte:
si sarebbe cioè di fronte, nel caso di specie, a una ipotesi non già di successione di leggi nel tempo, ma a una tipica ipotesi che configura un rapporto di specialità per specificazione tra due norme, contestualmente vigenti. La somministrazione di sostanze dopanti altro non sarebbe se non uno dei possibili modi in cui si può realizzare l'atto fraudolento volto allo scopo di alterare il risultato di una competizione sportiva.
Il ricorrente ricorda poi che le sezioni unite di questa Corte hanno affermato il principio che le ipotesi di reato previste dalla L. n. 376 del 2000, art. 9 sono configurabili anche per i fatti commessi dopo la sua entrata in vigore ma prima dell'emanazione del D.M. 15 ottobre 2002, con il quale si è provveduto a ripartire in classi i farmaci e le sostanze il cui impiego è considerato doping, sentenza, quest'ultima, che, negando natura costitutiva e tassatività al decreto ministeriale, ha comportato che le sostanze vietate non sono solo quelle espressamente elencate nel citato decreto ministeriale, ma anche le ed sostanze affini a quelle ripartite per classi con la conseguenza, ai fini che qui ne occupa, che la somministrazione delle sostanze di cui al capo g) della rubrica continua a costituire reato anche secondo la nuova legge perchè alcune sostanze sono espressamente comprese negli elenchi del decreto e le altre rientrerebbero nel divieto in quanto sostanze affini.
Per tutte queste sostanze dovrebbe quindi trovare applicazione la L. n. 401 del 1989, art. 1, come norma più favorevole, per i fatti commessi prima dell'entrata in vigore della nuova legge.
Il ricorrente prende poi in esame, separatamente, la somministrazione dell'eripropoietina e di sostanze diverse dall'EPO, seguendo l'analisi operata dalla Corte territoriale e rileva, liminarmente, la manifesta contraddittorietà e illogicità della motivazione della Corte territoriale nella parte in cui ha affermato che i farmaci vietati, diversi dalla eritropoietina, sarebbero stati "praticamente ignorati" nella vicenda processuale dalla quale, infatti, non emergerebbe, sempre secondo i giudici di appello, alcuna indicazione concreta di una somministrazione delle stesse sostanze in favore degli atleti.
Il ricorrente osserva infatti che la perizia del Prof. Mu., alla quale fa riferimento la Corte territoriale, si era occupata specificamente dei corticosteroidi, categoria alla quale appartengono tutte le specialità medicinali vietate che la Corte d'appello ha ritenuto ignorate (Depomedrol fiale, Deflan compresse, Flantadin compresse, Flebocortid fiale, Solumedrol fiale, Bentelan fiale e compresse, Delltascortene compresse, etc...) ed aveva elencato quelli rinvenuti in giacenza presso la sede della Juventus specificando che l'impiego dei corticosteroidi è sempre vietato.
Conclude sul punto il ricorrente rilevando che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale, numerosi indizi portavano a ritenere verificata l'avvenuta somministrazione delle stesse sostanze ai giocatori della Juventus, e segnatamente le schede sanitarie dei giocatori, le giustificazioni fornite da A., il regime degli acquisti, le giacenze rinvenute presso la società e la circostanza che tutti gli acquisti erano stati effettuati esclusivamente per la somministrazione alla "prima squadra", così escludendo che potessero essere stati utilizzati sistematicamente per usi diversi.
Tali considerazioni, sostanzialmente ignorate dalla Corte territoriale, esigono, ad avviso del ricorrente, l'annullamento della sentenza per assoluto difetto di motivazione.
Il ricorrente dedica poi un lungo ed articolato capitolo alla somministrazione dell'EPO (da p. 50 a p 115 del ricorso) osservando, sostanzialmente, che la Corte territoriale avrebbe assolto gli imputati sconfessando integralmente non solo le argomentazioni del giudice di primo grado ma anche le conclusioni del perito di ufficio, Prof. D., senza ritenere necessario procedere a nuova perizia.
Dopo aver ricordato la giurisprudenza di questa Corte in tema di rapporti tra il giudice di primo grado e quello di appello e in tema di valutazione delle risultanze peritali, il ricorrente deduce, sul punto specifico, l'erronea applicazione di norme processuali che presiedono al governo della prova nel processo penale, la mancanza e la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, risultante da atti specificamente indicati nonch¨¨ il travisamento delle risultanze processuali.
Quanto all'affermazione del mancato riscontro di positività a sostanze dopanti, si rileva la illogicità di una affermazione che non tiene conto della circostanza che, all'epoca di fatti, non si cercavano gli anabolizzanti nei campioni degli atleti, nè sussistevano metodi di ricerca dell'EPO (vengono richiamati alcuni atti processuali a conferma di quanto affermato).
Quanto all'affermazione della mancanza di prove di acquisto dell'EPO, a confronto con quanto invece avvenuto in altri procedimenti penali, si rileva, da un lato, che la mancanza di prove dirette non costituisce di per sè valida e sufficiente motivazione per escludere il reato e, dall'altro, che la motivazione, in modo del tutto illogico, ha fatto riferimento ad altre vicende processuali, asseritamente di maggior spessore probatorio, n ma di nessun rilievo ai fini che qui ne occupa.
Quanto alla ritenuta insufficienza della prova indiretta, si rileva l'erroneità di una affermazione che esclude "comunque" che la prova indiretta o indiziaria possa condurre il giudice a dimostrare l'esistenza di un fatto, e la conseguente violazione dell'art. 192, c.p.p..
Quanto alla questione semantica (consistente nell'avere il giudice tratto alimento dalle espressioni del perito "molto probabile" e "praticamente certa", per inferirne un giudizio non di certezza della prova), si rileva che il giudice di appello avrebbe fatto riferimento nella sua valutazione alla sola perizia del Prof. D., senza tener conto delle integrazioni e dei chiarimenti dello stesso (atti che vengono allegati per estratto) e dai quali si evincerebbe, viceversa, che le espressioni utilizzate comportavano un giudizio di certezza da parte del perito.
Quanto al mancato superamento dei valori fissati nei vari protocolli anti-doping, si rileva che la somministrazione dell'EPO non porta necessariamente al superamento delle soglie fissate nei vari protocolli: e ancora che non occorre portare a livelli fuori norma l'emoglobina per dedurne la somministrazione dell'EPO, la cui somministrazione cronica a bassi dosaggi può essere rilevata da altri indizi e segnatamente da una alta variabilità per stagione, per ruolo, da una concentrazione di valori più elevati in due periodi particolari, e nella frequente reiterazione degli esami nei confronti di buona parte dei giocatori; indizi che, pur evidenziati dalla Corte territoriale, erano stati poi del tutto abbandonati e sostanzialmente ritenuti subvalenti rispetto ad aspetti del tutto marginali e secondari, evidenziati dalla difesa.
Il ricorrente contesta poi le conclusioni e le argomentazioni della sentenza impugnata con particolare riferimento alla specifica posizione di singoli atleti rilevando, in particolare, l'erroneità delle valutazioni effettuate con riferimento al giocatore Amoroso (p. 81), al caso Bi. (p. 82), al caso Pe. (p. 87) e, infine, ai casi Co. e Ta. (da pag. 97 in avanti).
L'analisi del ricorrente viene condotta comparando le argomentazioni del Tribunale da un lato, con quelle della Corte territoriale, dall'altro, e sottolineando le ritenute incongruenze e le contraddittorietà della sentenza impugnata che farebbero emergere, ad avviso dello stesso Procuratore generale, non già semplici contrasti ma una radicale incompatibilità con gli atti del processo del ragionamento seguito dai giudici di secondo grado, incompatibilità talmente significativa che consentirebbe di ritenere integrato il vizio di motivazione censurabile in sede di legittimità.
Quanto ai casi Co., il Procuratore generale, dopo aver ricordato che, ad avviso del perito, la rilevante diminuzione iniziale dell'emoglobina e dell'ematocrito riscontrata e il rapido recupero dei predetti valori, ritenuto in tutti i casi non fisiologico anche perchè accompagnato da anomalie nei dati del bilancio marziale, contesta punto per punto le argomentazioni della Corte territoriale che aveva ritenuto non univoche le conclusioni peritali perchè diversamente interpretabili e, infatti, diversamente interpretate dal perito e dallo stesso Tribunale: il primo aveva infatti ritenuto che l'eritropoietina era stata utilizzata dopo l'infortunio al fine di conseguire un rapido recupero dell'atleta in vista di impegni agonistici futuri, mentre il
secondo aveva ritenuto di collocare la utilizzazione della sostanza proibita in epoca antecedente rispetto all'infortunio.
Il ricorrente contesta in particolare che la ricostruzione operata dalla Corte non abbia tenuto conto neppure dei riscontri, estremamente significativi che riguardavano, in particolare, le posizioni dei giocatori Co., Ta., Pe. e Am. (il parametro dei reticolociti nell'emocromo effettuato dal Co. in data (OMISSIS), o le anomalie del bilancio marziale e segnatamente nell'aumento della ferritina associato a un calo della sideremia, con riferimento al secondo caso Co. o, ancora, il superamento della differenza critica, nel caso Ta.), con evidente omissione e manifesta incongruità della interpretazione del dato processuale.
Conclusivamente il ricorrente deduce un più generale vizio di mancanza di motivazione per non avere il giudice di appello motivato sull'andamento anomalo dell'emoglobina, compatibile secondo la perizia solo con l'assunzione di eritropoietina.
Con un secondo motivo, il ricorrente deduce violazione di legge con riferimento all'art. 445 c.p., e alle disposizioni in tema di concorso di persone nel reato.
La scissione della vicenda della somministrazione dei farmaci in due fasi, come operata dalla Corte territoriale (il rapporto commerciale tra il soggetto qualificato e l'acquirente, soc. Juventus, da un lato, e la successiva somministrazione dei farmaci dall' A., direttamente o indirettamente, ai calciatori, dall'altro), sarebbe, infatti, ad avviso del ricorrente, operazione del tutto errata in diritto: in tanto si è resa possibile la somministrazione dei farmaci ai calciatori, prosegue il ricorrente, in quanto ciascuno dei protagonisti della vicenda ha dato il proprio contributo alla realizzazione del risultato finale: il farmacista e i fornitori di creatina consegnando i farmaci e la creatina agli imputati, e gli imputati consegnandoli ai calciatori: in altre parole, ad avviso del ricorrente, la consegna sarebbe stata effettuata ai calciatori dal soggetto qualificato per il tramite della società Juventus e, più in particolare, per il tramite del medico sociale della società.
La contraria opinione della Corte territoriale, che avrebbe affermato l'assenza nella specie del concorso morale del farmacista e del fornitore di creatina, sarebbe del tutto infondata perchè "la responsabilità dell'estraneo sussiste anche se il soggetto qualificato non è punibile a causa di una condizione personale o per difetto dell'elemento psicologico del reato", e a nulla rileverebbe la circostanza che ai fornitori delle sostanze proibite non sarebbe stato addebitato anche il reato di frode sportiva, attesa la diversità del dolo specifico.
Inoltre la provata irregolarità delle forniture (contraffazione da parte del R. di prescrizioni mediche, invio da parte della società juventus al farmacista R. di meri ordinativi commerciali per richiedere farmaci sottoposti all'obbligo della prescrizione medica, sentenza di patteggiamento relativa alla posizione di R., etc.) dimostrerebbe il pieno concorso del farmacista e dei fornitori di creatina nella successiva somministrazione dei farmaci ai calciatori.
Infine, il ricorrente rileva che i calciatori non erano consapevoli dei contenuti e degli effetti delle sostanze che andavano assumendo (vengono allegate, per estratto, le dichiarazioni di alcuni giocatori) perchè l'informazione loro fornita da A. non corrispondeva a verità, posto che i giocatori pensavano di ricevere esclusivamente vitamine e zuccheri o, al più, farmaci disintossicanti.
Il ricorrente G. deduce violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e) della rubrica, in relazione al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 2.
In particolare, il ricorrente osserva che la fattispecie prevista dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 2, contestata al G. per avere lo stesso redatto in modo incompleto il documento relativo alla valutazione dei rischi in tema di sicurezza e di salute sul lavoro, relativamente ai giocatori nella loro qualità di dipendenti della soc. Juventus, riguarderebbe esclusivamente i rischi presenti sul luogo di lavoro ai quali possono essere esposti i calciatori e connessi alle
attività latu sensu lavorative degli stessi calciatori e non già all'attività agonistica degli stessi che, per sua natura, esula dalla valutazione di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994.
La stessa definizione di "prevenzione" proposta dal decreto, prosegue il ricorrente, che consiste nel complesso delle disposizioni e misure adottabili in tutte le fasi dell'attività lavorativa per evitare o diminuire i rischi professionali, non può riferirsi anche all'attività agonistica "sul campo", laddove cioè non esistono fattori di rischio sui quali il datore di lavoro può intervenire per ridurli o escluderli.
Ad avviso del ricorrente la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto che l'attività volta alla valutazione (e alla prevenzione) dei rischi specifici dell'attività agonistica dei calciatori, è regolata da una normativa specifica di settore, e segnatamente dal D.M. 18 febbraio 1982 e dal D.M. 13 marzo 1995 che, rispettivamente, attribuiscono al medico sportivo l'accertamento dell'idoneità per l'accesso alle singole attività sportive agonistiche e prevedono la figura del "medico sociale", responsabile sanitario delle società sportive professionistiche, con il compito di compilare ed aggiornare periodicamente le schede sanitarie e le cartelle cliniche degli atleti.
Tale "medico sociale" è, infatti, prosegue il ricorrente, figura del tutto omologa al "medico competente" descritto dal decreto legislativo in oggetto, deve possedere gli stessi requisiti professionali e la sua attività deve ritenersi pertanto del tutto esaustiva degli obblighi di prevenzione previsti dall'art. 4 del decreto in esame.
Con memoria in data 5 gennaio 2007, i difensori di A. e G. chiedono, preliminarmente, l'inammissibilità del ricorso in quanto la modifica dell'art. 606 c.p.p., lett. e), operata con la L. n. 46 del 2006, deve essere intesa nel senso che gli atti indicati dal ricorrente devono sempre essere apprezzati nei rigorosi limiti del sindacato di legittimità, non essendo sufficiente, come affermato da numerose sentenze di questa Corte, contestualmente richiamate, che gli atti del processo siano semplicemente contrastanti con particolari accertamenti o valutazioni del giudicante o con una sua ricostruzione complessiva dei fatti o che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella contenuta nella sentenza occorrendo, invece, che gli stessi siano dotati di una autonoma forza esplicativa sì da disarticolare l'intero ragionamento della sentenza e da determinare al suo interno radicali incompatibilità.
I difensori degli imputati contestano, poi, il metodo seguito dalla Procura generale di Torino, ricorrente, nella parte in cui "in modo disarticolato e sparpagliato", ha inserito nel corpo del ricorso "pezzi di esami e controesami proponendo al giudice del diritto l'inconcepibile esigenza di acquisire d'ufficio gli originali di detti esami, sia per apprezzarli nel testo integrale, sia per verificare la corrispondenza di quanto richiamato nel ricorso all'originale".
L'inammissibilità sarebbe particolarmente evidente, ad avviso dei difensori degli imputati, laddove il ricorrente, con una censura analitica e minuziosa delle conclusioni peritali, avrebbe sovrapposto alle stesse le proprie specifiche conclusioni, proponendole come l'unica versione attendibile dei fatti.
Analoghe considerazioni vengono poste con riferimento alla somministrazione di sostanze diverse dalla eritropoietina, laddove le censure, ad avviso della difesa, concernono questioni di fatto e valutazioni della prova, non censurabili in Cassazione.
Con specifico riferimento alla somministrazione dell'eritropoietina, la difesa sostiene che la Corte di appello avrebbe congruamente, logicamente e condivisibilmente motivato sul perchè gli elementi indiretti e incerti offerti dall'istruttoria dibattimentale, e segnatamente dal perito, non erano stati ritenuti sufficienti a fornire la prova della somministrazione di EPO ai giocatori:
non si sarebbe, quindi, trattato, di una "sconfessione" dell'elaborato peritale, come erroneamente ritenuto dal ricorrente, ma di una attenta lettura delle conclusioni peritali e di
una diversa valutazione, sempre opportunamente motivata, degli elementi complessivamente emersi.
La difesa ripropone, poi, la tesi della inapplicabilità della L. n. 401 del 1989 che avrebbe un oggetto giuridico diverso da quello tipico delle normative antidoping, peraltro, prosegue la memoria, all'epoca dei fatti era in vigore la L. n. 1099 del 1971, che avrebbe dovuto trovare applicazione.
A riprova della inaccoglibilità della tesi del ricorrente, la difesa ricorda che, ai sensi della L. n. 401 del 1989, art. 1 che estende la punibilità al partecipante alla competizione che abbia accettato il denaro o ne abbia accolto la promessa, e, quindi, con esclusivo riferimento agli atti di corruzione e non già agli "altri atti fraudolenti", l'atleta che si fosse dopato autonomamente, sarebbe incorso nella sanzione amministrativa prevista dalla L. n. 1099 del 1971, art. 1 ove avesse utilizzato sostanze contenute nel D.M. di attuazione, mentre non sarebbe stato punibile ove avesse utilizzato sostanze non ricomprese nel citato elenco: viceversa, a fronte di tale "impunità", l' A., qualora avesse somministrato sostanze vietate, non comprese nel citato elenco, all'atleta consenziente, sarebbe punito con la pena della reclusione e della multa.
Peraltro, rileva la difesa, se la norma dovesse essere interpretata nel senso voluto dal ricorrente, nel senso cioè di vietare la somministrazione di qualsiasi sostanza al fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione, ne sarebbe evidente la illegittimità per mancanza di determinatezza e sostanziale violazione del principio di tipicità.
Infine, con riferimento all'art. 445 c.p., la difesa afferma che la decisione della Corte territoriale si fonda su un accertamento di fatto sul quale non è possibile tornare in sede di legittimità.
In ogni caso si sostiene che nel reato proprio l'azione tipica deve essere sempre riferibile al soggetto qualificato; qualora sia posta materialmente in essere da un soggetto extraneus, l'azione tipica deve essere comunque riferibile al soggetto qualificato almeno sotto il profilo soggettivo, riferibilità espressamente esclusa dalla Corte territoriale. Conclusivamente, questa Corte è chiamata a giudicare in ordine:
al capo d), D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 2, contestato al solo G., assolto in primo grado e condannato in appello, a seguito di ricorso dell'imputato;
al capo g), L. 13 dicembre 1989, n. 401, art. 1, contestato a G. e A. (con la sentenza di primo grado il G. è stato assolto e l' A. è stato condannato: a seguito di impugnazione - del pubblico ministero relativamente all'assoluzione G. e della difesa, in relazione alla condanna di A. - in appello entrambi gli imputati sono stati assolti), a seguito di ricorso del Procuratore generale;
- al capo h) art. 445 c.p., contestato a G. e A. e R. (con la sentenza di primo grado, il primo è stato assolto, il secondo è stato condannato e il terzo ha chiesto l'applicazione della pena: in appello - a seguito di impugnazione del pubblico ministero, relativamente all'assoluzione G., e della difesa, in relazione alla condanna di A. - entrambi gli imputati sono stati assolti), a seguito di ricorso del Procuratore generale;
- al capo i), art. 445 c.p., contestato a G. e A. (con la sentenza di primo grado, il primo è stato assolto, il secondo è stato condannato: in appello - a seguito di impugnazione del pubblico ministero relativamente all'assoluzione G., e della difesa, in relazione alla condanna di A. - entrambi gli imputati sono stati assolti), a seguito di ricorso del Procuratore generale.
DIRITTO
MOTIVI DELLA DECISIONE
f) - Il ricorso dell'imputato G. va accolto, anche se per motivi procedurali, affatto diversi da quelli di merito prospettati dalla difesa.
Il capo d) della rubrica, infatti, concerne la violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 2, contestata al solo G., che era stato assolto in primo grado e condannato in appello a seguito di impugnazione del pubblico ministero.
Orbene, l'art. 593 c.p.p., comma 3, nel testo vigente all'epoca della impugnazione proposta dal pubblico ministero, prevedeva l'inappellabilità delle sentenze di condanna con le quali era applicata la sola pena dell'ammenda e, ai fini che qui ne occupa, delle sentente di proscioglimento o di non luogo a procedete relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell'ammenda o con pena alternativa.
Nel caso di specie, il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 89 punisce la violazione della contravvenzione di cui all'art. 4, comma 2, con la sanzione dell'arresto da tre a sei mesi o dell'ammenda da tre a otto milioni di lire: ne consegue che, trattandosi di contravvenzione punita con pena alternativa, la sentenza di proscioglimento emessa dal primo giudice non era soggetta alla proposta impugnazione e, per l'effetto, la condanna emessa dalla Corte di appello, in riforma di quella di primo grado, va, in parte qua, annullata senza rinvio.
Restano assorbiti i motivi di merito, prospettati dalla difesa.
2) - Il ricorso del Procuratore generale è parzialmente fondato e va accolto nei limiti di cui in motivazione.
Capo g) della rubrica.
1)- La problematica concernente l'applicabilità della L. n. 401 del 1989.
La principale questione dibattuta nel corso del processo ha riguardato l'applicabilità, nel caso concreto, della L. 13 dicembre 1989, n. 401 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di competizioni agonistiche): se cioè, la somministrazione dei farmaci vietati di cui all'imputazione, possa integrare il delitto di cui all'art. 1 della legge citata (Frode in competizioni sportive), che specificamente recita:
"Chiunque offre o promette denaro o altra utilità o vantaggio a taluno dei partecipanti ad una competizione sportiva organizzata dalle federazioni riconosciute, dal CONI, dall'UNIRE o da altri enti sportivi riconosciuti dallo Stato e dalle associazioni ad essi inerenti, al fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione, ovvero compie altri atti fraudolenti volti al medesimo scopo, è punito con la reclusione da un mese a un anno e con la multa da L. 500.000 a L. 2.000.000. Nei casi di lieve entità si applica la sola pena della multa".
Il comma 2 dello stesso articolo stabilisce che "le stesse pene si applicano al partecipante alla competizione che accetta il denaro o altra utilità o vantaggio o ne accoglie la promessa".
Va, quindi, in via liminare, affrontata tale tematica al fine di valutare se la condotta di somministrazione ad atleti (nella specie, giocatori di calcio) da parte di terzi, di sostanze destinate a migliorarne artificiosamente le prestazioni e, per l'effetto, il rendimento agonistico, possa integrare il delitto di frode in competizioni sportive di cui alla citata disposizione normativa e, segnatamente, la condotta prevista nel comma 1, seconda parte che equipara la condotta di offrire denaro o altra utilità al compimento di altri atti fraudolenti volti al medesimo scopo.
Non si discute, pertanto, in questa sede del fenomeno del c.d.
autodoping, di cui pure a lungo si è discettato nel procedimento, e cioè della possibilità che la condotta dell'atleta che volontariamente assume sostanze dopanti potesse costituire reato anche in epoca precedente all'entrata in vigore della L. n. 376 del 2000, ma esclusivamente della possibilità di applicare la citata disposizione normativa anche alla condotta di chi somministra sostanze dopanti ai partecipanti a una competizione sportiva al fine di alterarne il risultato.
E' noto che la normativa che disciplina, tra l'altro, la "frode in competizioni sportive", è stata emanata per sopperire a una sostanziale carenza di strumenti sanzionatoli nello specifico settore: il delitto di truffa, al quale si faceva a volte ricorso, risultava, infatti, di difficile applicazione pratica di talchè particolarmente sentita era l'esigenza di far fronte a tale obiettiva lacuna normativa per sanzionare in modo adeguato gravi comportamenti illeciti che spesso compromettevano la regolarità delle competizioni sportive.
Si è così costruita una normativa che ricorda lo schema della istigazione alla corruzione e che punisce la condotta di "chiunque offre o promette denaro" o "compie altri atti fraudolenti volti al medesimo scopo"; il comma 2 dello stesso articolo, si limita ad equiparare quoad poenam la condotta del partecipante "che accetta denaro o altra utilità o vantaggio o ne accoglie la promessa".
Non appare utile ripercorrere i lavori preparatori alla ricerca della ratio e dell'intentio legis, anche perchè tale indagine, operata da entrambe le parti processuali, non ha consentito di giungere a risultati certi e inequivoci; pare, invece, opportuno, molto più semplicemente, riportarsi ai contenuti della Relazione, nella quale si legge che la normativa de qua mira alla "salvaguardia nel campo dello sport, di quel valore fondamentale che è la correttezza nello svolgimento delle competizioni agonistiche"; finalità, peraltro, che risulta agevolmente dallo stesso testo della disposizione in esame che individua un dolo specifico costituito dal "fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione".
Le condotte incriminate dall'art. 1 sono, quindi, due:
la prima consiste in una forma di corruzione in ambito sportivo, mentre la seconda, che è l'unica che interessa in questa sede, è costituita da una generica frode, e rimane integrata dal mero compimento di "altri atti fraudolenti".
E' stato precisato in dottrina che si è in presenza, in quest'ultimo caso, di una modalità alternativa e non cumulativa, nel senso che l'art. 1, non costituisce "una disposizione a più norme ma una norma a più fattispecie", conclusione suggerita, in particolare, dalla connessione letterale delle previsioni in termini disgiuntivi.
Ed è stato, inoltre, condivisibilmente sostenuto dalla dottrina che, alla puntuale determinatezza della fattispecie della ipotesi corruttiva, si contrappone una ipotesi sussidiaria dai contorni assai lati.
L'ipotesi di cui alla seconda parte del comma 1 della disposizione in esame ha, infatti, una latitudine, sì determinata, ma assai ampia, e non certo comparabile con la puntuale previsione di cui al comma 1:
si può sul punto affermare, condividendo la migliore dottrina, che la natura fraudolenta dell'atto, richiesta dalla norma incriminatrice, esclude qualsivoglia violazione del principio di determinatezza e di tipicità.
La sia pur sommaria analisi della disposizione in esame va completata con un richiamo al dolo specifico, costituito dal "fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al leale e corretto svolgimento della competizione".
E' corretto il risultato ottenuto rispettando le regole del giuoco, mentre è "leale" quello ottenuto ponendo in contrapposizione (sul campo) i soli valori agonistici: ne consegue che l'oggetto giuridico tutelato dalla norma è, in ultima analisi, il risultato della competizione che non deve essere fraudolentemente alterato.
Come emerge anche dalla relativa intitolazione, nella parte in cui accosta agli interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestine, la tutela della correttezza nello svolgimento di competizioni agonistiche, la legge presenta una precisa oggettività giuridica rivolta, fondamentalmente, a vietare condotte che ledono il dovere di correttezza ed è tesa a tutelare il
risultato della competizione, a rispettare l'alea correlata ad ogni manifestazione sportiva, che non deve essere fraudolentemente alterata.
Se ciè è vero, ne consegue che l'extraneus che somministra ai partecipanti alla competizione, sostanze atte ad alterarne le prestazioni, e che fraudolentemente mira a menomare o ad esaltare le capacità atletiche del giocatore, pone in essere una condotta che consiste in un espediente occulto per far risultare una prestazione diversa da quella reale, in un artifizio capace di alterare il "genuino" svolgimento della competizione, con palese violazione dei principi di lealtà e di correttezza: per l'effetto, gli atti posti in essere sono agevolmente riconducibili alla nozione di "atti fraudolenti" di cui alla normativa in esame.
Nè elementi di segno contrario alle conclusioni testè raggiunte possono cogliersi dalla giurisprudenza richiamata (di legittimità e di merito) che, contrariamente a quanto sovente sostenuto durante i giudizi di merito, non solo non è giunta a conclusioni diverse da quelle dianzi accennate ma che, in qualche misura, ha confermato le valutazioni testè compiute.
La sentenza di questa Corte che è stata più volte citata (Cass., sezione 6^, 25 gennaio 1996, Omini), riguardava il caso di un soggetto imputato del reato di cui all'art. 361 c.p., per aver omesso di denunciare un reato L. n. 401 del 1989, ex art. 1, consistente nell'assunzione di sostanze dopanti da parte di un corridore.
Con la richiamata decisione, questa Corte ha, infatti, affermato che "gli altri e innominati atti fraudolenti volti al medesimo scopo ...
devono essere identificati alla stregua degli atti espressamente indicati nella proposizione principale ... ";
deve trattarsi, in altre parole, in primo luogo, di "attività proiettate all'esterno delle persone che le hanno deliberate e tali da investire direttamente altri soggetti con quelli coinvolti nella medesima attività" e, in secondo luogo, di "attività in qualche modo sinallagmatiche dato che correlano la distorsione che il soggetto esterno persegue, dell'esito della gara, al denaro o all'altra utilità dati, ovvero promessi e perseguiti, dall'altro soggetto partecipante alla gara".
Con la conseguenza - ha proseguito la Corte - che "l'ambito di applicazione della legge in esame non si estende ai fenomeni di autodoping che trovano adeguata sanzione negli ordinamenti sportivi", e che pertanto punire ai sensi della L. n. 401 del 1989, art. 1, la condotta di doping autogeno realizzata dall'atleta al di fuori di un patto corruttivo, significherebbe forzare il senso della disposizione in esame, con conseguente violazione del principio di legalità.
Conclusione, quella testè riferita che, condivisibile o meno, in ogni caso, non può essere richiamata come precedente specifico per la risoluzione della questione che qui ne occupa, riguardando la stessa esclusivamente l'ipotesi di assunzione di sostanze dopanti da parte di un atleta, e non già la condotta di somministrazione di cui si discute in questa sede.
Situazione, quest'ultima, che peraltro, a tacer d'altro, presenta entrambi i requisiti che la citata decisione ha ritenuto necessari per integrare il delitto de quo: l'extraneus che somministra sostanze dopanti ai giocatori, infatti, non solo compie un atto fraudolento finalizzato ad alterare il risultato della gara, ma pone in essere un'attività da un lato proiettata all'esterno e, dall'altro, in qualche misura "sinallagmatica", per i riflessi di tale condotta nel mondo dello sport.
La sentenza commentata tende, infine, a circoscrivere gli "altri atti fraudolenti", di cui alla legge citata, con un lungo obiter ("...se così non fosse, qualsiasi illecito sportivo, dallo spintone al calciatore in corsa, alla spinta del gregario al campione ciclista in difficoltà, siccome oggettivamente volti a provocare un esito della gara diverso da quello cui avrebbe dato luogo una leale competizione, dovrebbe rientrare nella previsione della normativa in esame..."), non solo non rilevante ai fini di quella decisione ma, ad avviso di questo collegio, affatto
condivisibile: proprio il riferimento a un connotato di necessaria fraudolenza consente, infatti, di operare una netta distinzione tra l'ipotesi delittuosa e le semplici violazioni delle regole sportive.
E' fin troppo ovvio, infatti, che la condotta non può certo consistere in una mera violazione delle regole del giuoco, sanzionabile solo dall'ordinamento sportivo, ma deve contenere un quid pluris, un artifizio o un raggiro che modifica fraudolentemente la realtà con la specifica finalità di alterare il risultato della gara.
Analoghe considerazioni devono porsi con riferimento alla giurisprudenza di merito, e, segnatamente, alla sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Roma (sentenza n. 174 del 1992), sovente richiamata dalle parti, che aveva preso in esame una ipotesi di cessione di fentermina da parte di terzi ai giocatori di calcio, P. e Ca.: una attenta e compiuta lettura della stessa permette, infatti, di ritenere che la decisione è stata la diretta conseguenza della accertata mancanza di elementi probatori per ritenere sussistente un eventuale "coinvolgimento della struttura societaria nella illecita assunzione di sostanze stupefacenti da parte dei giocatori".
In altri termini, anche tale sentenza ha preso in considerazione, fondamentalmente, una ipotesi di mera assunzione e non già di somministrazione, come nella specie, di sostanze dopanti.
Non convince, inoltre, la tesi - utilizzata dalla difesa degli imputati per escludere tout court l'applicabilità della legge in esame alle condotte di doping autogeno ed eterogeno - che trae spunto dal tenore letterale dell'art. 1, comma 2 che punisce il partecipante alla competizione, nel solo caso di cui alla prima parte dell'art. 1:
si sostiene, infatti, che tale limitazione della responsabilità del "partecipante alla competizione", altrimenti incomprensibile, proverebbe che il legislatore non avrebbe previsto una autonoma ipotesi di reato per il c.d. autodoping e, quindi, più in generale, neppure per la condotta di somministrazione di sostanze stupefacenti da parte di terzi.
L'argomentazione proposta non può essere condivisa.
La punibilità del partecipante alla competizione "che accetta il denaro o altra utilità o vantaggio o ne accoglie la promessa", ove non espressamente prevista, avrebbe potuto, ragionevolmente, ritenersi esclusa dalla condotta individuata dalla prima parte del comma 1 della disposizione in esame, che punisce specificamente solo la condotta di "chiunque offre o promette denaro...";
secondo uno schema usuale nel diritto penale sostanziale, il legislatore ha ritenuto, nella sua discrezionalità, di estendere la punibilità al partecipante, disponendo l'equiparazione quoad poenam delle rispettive condotte.
Considerata la già sottolineata autonomia delle condotte incriminate dal comma 1, prima e seconda parte della disposizione in esame (si tratta di una norma a più fattispecie), non può certo trarsi argomento dalla disposta equiparazione, e, segnatamente dal fatto che la stessa risulta circoscritta alla sola condotta di "corruzione sportiva", per affermare che il legislatore non avrebbe previsto una autonoma ipotesi di reato per il c.d. autodoping e, quindi, più in generale, neppure per la condotta di somministrazione di sostanze stupefacenti da parte di terzi.
Innanzitutto, c'è da dire che la lettera della norma non consente affatto di interpretare la disposizione nel senso sostenuto dalla difesa atteso che il "chiunque" di cui alla prima parte dell'art. 1, pur essendo, all'evidenza, lo stesso soggetto dell'inciso "ovvero compie altri atti fraudolenti", e cioè, l'unico soggetto che regge tutti i verbi descrittivi di fattispecie criminose contenute nella disposizione in esame, cionondimeno, con riferimento alla fattispecie di "corruzione sportiva", si qualifica per la necessità di porre in essere una ben specificata
condotta, consistente nell'offerta o promessa di denaro o altra utilità, mentre, con riferimento alla condotta fraudolenta di cui alla seconda parte del comma, è sufficiente che ponga in essere una attività che presenti il connotato della fraudolenza.
Ne consegue, da un lato, la necessità di una previsione espressa, per affermare la punibilità della condotta del partecipante alla competizione che accetta il denaro o le altre utilità e, dall'altro, e viceversa, proprio a ragione della più volte sottolineata ampia latitudine della condotta di "chi compie altri atti fraudolenti volti al medesimo scopo", la sicura riferibilità anche ai partecipanti alla competizione di tale, ultima, omnicomprensiva condotta di frode, senza necessità di alcuna ulteriore specificazione o equiparazione.
Deve quindi concludersi, sempre alla luce della lettera della legge, che la specificazione di cui al comma 2, forse frutto di una tecnica legislativa poco chiara, non può certo essere interpretata nel senso sostenuto dalla difesa: peraltro, la stessa ratio della legge prima esaminata, e il dolo specifico richiesto, non consente certo di escludere la punibilità, con una inammissibile forzatura ermeneutica, proprio di quei soggetti che, partecipando alla competizione, possono, meglio e più direttamente di altri, alterarne il regolare svolgimento: la frode in competizioni sportive è, infatti, finalizzata all'alterazione del risultato naturaliter, alla modificazione artificiosa del leale confronto delle rispettive abilità.
E poichè nulla autorizza a ritenere, a priori, che l'atleta dopato debba essere considerato la vittima della fattispecie incriminatrice, ne consegue che una rigorosa interpretazione della norma non consente di escludere, sempre a priori, la loro punibilità, salvo l'accertamento in fatto della consapevolezza della illecita assunzione e/o somministrazione.
Questo collegio osserva, infine, e solo incidenter, che anche ove si condividesse la tesi della difesa - che sostiene che il circoscritto ambito di punibilità del partecipe (al solo caso di "corruzione sportiva") proverebbe, ex se, la non punibilità per la condotta di autodoping - cionondimeno non si vede per quale ragione tale evenienza dovrebbe comportare, automaticamente, anche la non punibilità dell'extratteus che somministra sostanze dopanti ai partecipanti alla competizione: condotta, quest'ultima che si discosta non poco dalla problematica dell'assunzione diretta, testè esaminata, e che, come i agevolmente si coglie, mirando a modificare fraudolentemente le condizioni atletiche dei giocatori, non può non integrare quella condotta, fraudolenta appunto, finalizzata a raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione.
Per escludere l'applicabilità della legge è stato, infine, speso un ulteriore argomento: la legge non conterrebbe l'elenco delle sostanze vietate, elenco che costituirebbe una costante nella normativa antidoping. L'argomento è del tutto privo di pregio: elenchi di sostanze stupefacenti o dopanti devono essere allegati a provvedimenti nomativi che si occupano, specificamente, di doping e non già a provvedimenti che non hanno specificamente di mira tale condotta, ma, più genericamente, tutti gli atti fraudolenti che possono alterare i risultati delle competizioni sportive: ove la ampia categoria "atto fraudolento" sia integrata da somministrazione di sostanze dopanti, si dovrà fare riferimento agli elenchi delle sostanze di cui ai decreti ministeriali che si sono succeduti nel tempo.
1.1) Con specifico riferimento alla L. 26 ottobre 1971, n. 1099.
E' stato, inoltre, sostenuto che la norma incriminatrice di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 1 non sarebbe comunque applicabile alla fattispecie in esame per la presenza nell'ordinamento di una normativa speciale (L. n. 1099 del 1971, artt. 3 e 4) che sanziona specificamente la somministrazione e l'assunzione di sostanze dopanti.
Tale fattispecie, depenalizzata con la L. n. 689 del 1981, art. 32 conterrebbe, infatti, elementi specializzanti rispetto alla più generale previsione di cui alla L. n. 401 del 1989, e, segnatamente, un preciso elenco dei farmaci vietati e una indicazione puntuale delle condotte
incriminate: con la conseguenza che dovrebbe trovare applicazione, nella specie, ai sensi dell'art. 9 della legge di depenalizzazione, la sola sanzione amministrativa.
La proposta argomentazione non può essere condivisa.
Infatti, la tesi sostenuta dalla difesa trova applicazione in caso di disposizioni normative che tutelino gli stessi beni giuridici perchè solo in tal caso, vertendosi in una situazione di continuità normativa, trova applicazione l'art. 9 della legge di depenalizzazione.
Viceversa, nella specie, la L. n. 1099 del 1971, artt. 3 e 4 non costituiscono disposizioni speciali, ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 9, rispetto al delitto di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 1, in quanto la prima è posta a presidio della salute dei partecipanti, mentre la seconda è posta a presidio del leale e corretto svolgimento delle competizioni sportive.
La L. n. 1099 del 1971, punisce infatti gli atleti partecipanti alle competizioni sportive che impiegano, al fine di modificare artificialmente le loro energie naturali, sostanze che possono risultare nocive per la loro salute: intitolata "Tutela sanitaria delle attività sportive", presenta, all'evidenza, un oggetto giuridico diverso, e, quindi, persegue la finalità di salvaguardare la funzione sociale dello sport e, per l'effetto, di scoraggiare pratiche dannose per l'atleta: la L. n. 401 del 1989, viceversa, incriminando la frode in competizioni sportive, più che la salvaguardia della salute degli atleti, si prefigge di tutelare la correttezza dello svolgimento delle gare e persegue la finalità che il relativo risultato non venga artificiosamente alterato.
Le due normative, peraltro, oltre ad avere un diverso oggetto giuridico, presentano una struttura solo parzialmente coincidente e una diversa finalità della condotta.
Alla luce di quanto sopra, non si ravviserebbe alcuna difficoltà nel ritenere applicabili alla situazione in esame, sussistendone i presupposti in fatto, entrambe le fattispecie secondo le regole generali del concorso formale di reati.
1.2) - I rapporti tra la L. n. 401 del 1989 e la successiva L. n. 376 del 2000.
Apparentemente più complesso il discorso concernente i rapporti tra la L. n. 401 del 1989, e la sopravvenuta L. n. 376 del 2000.
Si è sostenuta la tesi secondo cui l'entrata in vigore della L. n. 376 del 2000, e la successiva catalogazione per classi delle sostanze proibite, abbia determinato la non punibilità, ai sensi della L. n. 401 del 1989, art. 1 dell'uso di sostanze che, secondo l'elenco allegato al decreto ministeriale di attuazione della nuova normativa, ritenuto di natura costitutiva, non sarebbero (più) vietate:
in altri termini, la nuova legge speciale, avrebbe espressamente abrogato la somministrazione di sostanze "diverse" da quelle espressamente indicate nei nuovi elenchi, vale a dire, nel caso di specie, la somministrazione off label di specialità medicinali e di sostanze non vietate.
Il Tribunale di Torino non aveva condiviso tale argomentazione sulla base della ritenuta insussistenza tra le due normative della c.d.
continuità normativa trattandosi di fattispecie del tutto diverse quanto ai contenuti della condotta, all'ambito di applicazione e, soprattutto, al bene giuridico protetto.
Il Procuratore generale, nel corso del procedimento, aveva prospettato una diversa ricostruzione sistematica del fenomeno costituito dalla copresenza nell'ordinamento delle leggi de quibus, giungendo alla conclusione che la somministrazione di sostanze dopanti espressamente vietate, anche dal decreto ministeriale di attuazione della L. n. 376 del 2000, art. 2 sarebbe oggi punita solo ai sensi dell'art. 9 della stessa legge, mentre gli stessi fatti, commessi prima dell'entrata in vigore della nuova e specifica disciplina antidoping, sarebbero puniti, in applicazione dell'art. 2 c.p., comma 3, dalla disposizione di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 1;
per altro verso, la somministrazione di sostanze dopanti non comprese nell'elenco ministeriale, resterebbe sanzionata solo dalla L. n. 401 del 1989, art. 1, seconda parte: si sarebbe cioè in presenza, nel caso di specie, di una ipotesi non già di successione di leggi nel
tempo, ma di un classico rapporto di specialità per specificazione tra due norme, contestualmente vigenti. La somministrazione di sostanze dopanti, infatti, altro non sarebbe se non uno dei possibili modi in cui si può realizzare l'atto fraudolento volto allo scopo di alterare il risultato di una competizione sportiva.
Il ricorrente ricorda poi che le sezioni unite di questa Corte hanno affermato il principio che le ipotesi di reato previste dalla L. n. 376 del 2000, art. 9, sono configurabili anche per i fatti commessi dopo la sua entrata in vigore, ma prima dell'emanazione del D.M. 15 ottobre 2002, con il quale si è provveduto a ripartire in classi i farmaci e le sostanze il cui impiego è considerato doping, sentenza, quest'ultima, che, negando natura costitutiva e tassatività al decreto ministeriale, consente e, anzi, impone la punizione della somministrazione non solo delle sostanze espressamente elencate nel citato D.M. ma anche delle ed sostanze affini a quelle ripartite per classi, con la conseguenza, ai fini che qui ne occupa, che la somministrazione delle sostanze di cui al capo g) della rubrica continuerebbe a costituire reato anche secondo la nuova legge: alcune sostanze, infatti, sono espressamente comprese negli elenchi del decreto e le altre rientrerebbero nel divieto in quanto affini.
Questo collegio condivide pienamente tale prospettazione.
L'oggetto principale della tutela della L. n. 376 del 2000 va individuato, fondamentalmente, nella integrità psico-fisica dei partecipanti ad una attività sportiva come pacificamente si evince dalla lettura dell'art. 1, e segnatamente dei commi 1, 2 e 3.
"L'attività sportiva", si legge nel comma 1, "è diretta alla promozione della salute individuale e collettiva e deve essere informata al rispetto dei principi etici e dei valori educativi richiamati dalla Convenzione contro il doping"..."ad essa si applicano i controlli previsti dalla vigente normativa in tema di tutela della salute e della regolarità delle gare e non può essere svolta con l'ausilio di tecniche, metodologie o sostanze di qualsiasi natura che possano mettere in pericolo l'integrità psicofisica degli atleti".
Nei commi 2 e 3 dello stesso articolo, si afferma inoltre che "costituisce doping la somministrazione o l'assunzione di farmaci o di sostanze farmacologicamente attive idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell'organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti" e che devono ritenersi equiparate al doping la somministrazione degli stessi tarmaci finalizzata e comunque idonea a modificare i risultati dei controlli sull'uso dei farmaci.
Va, pertanto, contestualmente osservato che il legislatore ha richiesto espressamente che l'assunzione delle sostanze dopanti avvenga alfine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, dal che si può agevolmente rilevare che la norma intende tutelare anche beni di portata più "ampia" di quello costituito dalla salute del singolo atleta, e cioè la lealtà e la correttezza nello svolgimento delle competizioni sportive.
Anche la stessa scelta legislativa di punire, oltre alla somministrazione, anche l'assunzione diretta delle sostanze costituenti doping consente di affermare che il bene presidiato non può essere esclusivamente la tutela della salute dello sportivo, ma anche la regolarità e la correttezza delle competizioni, beni posti in pericolo dalla "sleale alterazione chimica della propria capacità di prestazione, nozione estesa dell'interesse protetto dalla norma che, peraltro, trova un significativo elemento di riscontro proprio nel dolo specifico espressamente previsto che è quello di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti".
Ciò nondimeno, va affermato che tra la L. n. 401 del 1989 e quella successivamente emanata, non sussiste continuità normativa, mancando quella coincidenza strutturale richiesta dalla (più recente) giurisprudenza di questa Corte; vi è, infatti, significativa diversità della condotta, del bene giuridico protetto e dell'ambito di applicazione.
In particolare, per quanto concerne la condotta, si osserva che il delitto di "frode sportiva", è, come più volte sottolineato, un reato "a forma libera", con particolare riferimento all'art. 1, comma 1, seconda parte mentre la fattispecie d cui alla L. n. 376 del 2000, art. 9 è sicuramente "a forma vincolata" perchè la relativa condotta viene tipizzata in modo tassativo.
Parimenti dicasi per il bene giuridico protetto che, nella L. n. 376 del 2000, va individuato, specificamente, nella tutela delle persone interessate all'attività sportiva e nella lotta al doping in particolare, mentre nella L. n. 401 del 1989, va individuato nella finalità di garantire la correttezza e la lealtà, nello svolgimento delle manifestazioni sportive.
Consegue a quanto testè affermato, che esistono spazi di possibile, parziale coincidenza tra le normative considerate: la nuova legge, infatti, per un verso è più ampia perchè riguarda tutte le competizioni sportive e non solo quelle del CONI etc:.;
per altro verso è, ovviamente, molto più circoscritta, perchè, come disciplina di settore, punisce esclusivamente la somministrazione, l'assunzione etc:.., di sostanze dopanti.
Consegue, altresì, che i fatti commessi prima dell'entrata in vigore della nuova legge, concernenti somministrazione di sostanze dopanti espressamente vietate dal decreto ministeriale - e che sono oggi punibili a norma della L. n. 376 del 2000, art. 9 - rimangono puniti dalle disposizioni della L. n. 401 del 1989, art. 1 in virtù del disposto dell'art. 2 c.p., comma 3 (legge più favorevole):
mentre la condotta di somministrazione di sostanze non ricomprese nell'elenco ministeriale, resta sanzionata dalla L. n. 401 del 1989, art. 1, comma 1 non potendo essere accolta la tesi della intervenuta abrogazione, a mente dell'art. 2 c.p., comma 2.
Nè può ritenersi che l'elemento nuovo sarebbe costituito dalla limitazione della punibilità della condotta ai soli farmaci e alle sole sostanze biologicamente e farmacologicamente attive ricompresi nelle classi previste dall'art. 2, comma 1, della legge, come individuate dal decreto ministeriale di attuazione, considerato che questa Corte, con la sentenza n. 3089 del 29 novembre 2005, nella sua più autorevole composizione, ha affermato il principio che le ipotesi di reato previste dalla L. n. 376 del 2000, art. 9 sono configurabili anche per i fatti commessi dopo la sua entrata in vigore ma prima dell'emanazione del decreto ministeriale di attuazione: l'art. 2, comma 1, prosegue infatti la citata sentenza, demanda al decreto ministeriale da esso previsto non già l'individuazione, bensì la mera ripartizione in classi di farmaci ... il cui impiego è considerato doping ai sensi dell'art. 1.
Per l'effetto, essendo stata esclusa la natura costitutiva del decreto ministeriale e, al contempo, la sua tassatività, va affermato che la somministrazione delle sostanze di cui alla lett. g) dell'imputazione continua a costituire reato anche dopo l'emanazione della nuova normativa (punito più severamente) con conseguente applicabilità, per i fatti commessi prima dell'entrata in vigore della normativa antidoping, della L. n. 401 del 1989, (legge più favorevole), art. 1).
1.3) - Conseguenze della ritenuta applicabilità della L. n. 401 del 1989.
1.3) - Con riferimento alle sostanze non vietate.
La Corte di appello ha correttamente affermato che la imputazione di concorso in frode sportiva di cui al capo g) della rubrica, si compone sostanzialmente di due parti:
l'una relativa alle specialità medicinali non espressamente vietate e l'altra concernente talune sostanze proibite, tra le quali spicca la eritropoietina umana ricombinante.
Posta tale precisazione, la Corte territoriale ha affermato che "non vi è dubbio che la condotta contestata, con riferimento alle specialità medicinali non espressamente vietate, venne posta in essere nei confronti dei giocatori della Juventus. Invero risulta ampiamente provato agli atti del processo ... che dal 1994 al 1998 la somministrazione dei farmaci in questione avvenne realmente e fu realizzata spesso con modalità off label, ossia al di il fuori del contesto autorizzativo individuato dal Ministero della salute ovvero in forme non consentite". "Di
conseguenza", proseguiva la Corte territoriale, "in relazione a tale aspetto dell'imputazione sub g), non può esservi spazio per una formula di proscioglimento diversa da quella derivante dalla impossibilità di applicare al caso di specie la normativa di cui alla L. n. 401 del 1989".
La Corte territoriale elencava, poi, gli elementi in base ai quali riteneva provato il coinvolgimento del G., assolto in primo grado, nella condotta di somministrazione dei farmaci non proibiti (p. da 56 a 62), e ciò conduceva alla "equiparazione di entrambi gli imputati sotto il profilo della formula di assoluzione adottata".
Questo collegio, viceversa, ha ritenuto che la condotta degli imputati integra il delitto di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 1:
apparendo condivisibili, quanto al resto, le affermazioni della Corte territoriale, con specifico riferimento alla ritenuta equiparazione della posizione degli imputati, la sentenza impugnata va annullata in parte qua e, segnatamente, nella parte in cui ha mandato assolto A.R. e, per effetto estensivo, G.A., "dai residui fatti addebitati nel capo g), perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato".
1.3)2. - Con riferimento alle sostante vietate, diverse dalla eritropoietina.
Analoghe considerazioni vanno poste con riferimento alle sostanze vietate, diverse dalla eritropoietina.
Condivisibile appare, infatti, il rilievo del Procuratore generale che ha contestato l'affermazione della Corte territoriale, nella parte in cui ha sostenuto che le sostanze diverse dalla eritropoietina sarebbero state "praticamente ignorate" nella vicenda processuale: il ricorrente elenca, infatti (da p. 39 a 51) una lunga serie di elementi dai quali emergerebbe, inequivocabilmente, la erroneità dell'assunto.
Il ricorrente osserva, in particolare, che la perizia del Prof. Mu., alla quale fa riferimento la Corte territoriale, si era occupata specificamente dei corticosteroidi, categoria alla quale appartengono tutte le specialità medicinali vietate che la Corte d'appello ha ritenuto ignorate Depomedrol fiale, Deflan compresse, Vlantadin compresse, Flebocortid fiale, Solu-medrol fiale, Bentelan fiale e compresse, Delltascortene compresse, etc.) ed aveva elencato quelli rinvenuti in giacenza presso la sede della Juventus specificando che l'impiego dei corticosteroidi è sempre vietato.
Conclude sul punto il ricorrente rilevando che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale, numerosi altri indizi portavano a ritenere provata l'avvenuta somministrazione delle stesse sostanze ai giocatori della Juventus, e segnatamente le schede sanitarie dei giocatori, le giustificazioni fornite da A., il regime degli acquisti, le giacenze rinvenute presso la società e la circostanza che tutti gli acquisti erano stati effettuati esclusivamente per la somministrazione alla "prima squadra", così escludendo che potessero essere stati utilizzati sistematicamente per usi diversi.
A questa Corte non compete certo la valutazione del merito delle specifiche condotte incriminate: è in questo caso sufficiente osservare che la motivazione della Corte territoriale, sul punto specifico, risulta carente perchè, pur pervenendo a conclusioni diametralmente opposte a quelle del primo giudice, non ne ha, specificamente e analiticamente, confutato le argomentazioni essendosi limitata, appunto, a una generica affermazione che tali sostanze erano state "praticamente ignorate" nel corso del processo.
L'annullamento della sentenza impugnata, in ordine al capo g), limitatamente alle sostanze vietate diverse dalla eritropoietina, nonchè alle sostanze non vietate, di cui all'imputazione, va disposto senza rinvio perchè il reato è estinto per intervenuta prescrizione.
Ed invero, il delitto di frode sportiva di cui alla L. n. 401 del 1989 concerne fatti commessi dal luglio del 1994 all'ottobre del 1998: il reato è punito con la reclusione da un mese a un anno e con la multa da L. 500.000 a L. 2.000.000.
Il termine massimo di prescrizione, calcolato secondo le disposizioni della disciplina previgente in quanto, al momento dell'entrata in vigore della L. n. 251 del 2005 (8 dicembre 2005), il processo già pendeva in fase di appello (art. 10 c.p.p., comma 3), maturava nel mese di marzo dell'anno 2006 (anni sette e mesi sei, con decorrenza ottobre 1998): la condotta, contestata genericamente fino all'ottobre del 1998, comporta a fini prescrizionali, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, che il termine deve essere calcolato a far tempo dal primo giorno dell'ultimo mese della contestazione, a nulla rilevando eventuali esami (cfr. posizione Pe.) effettuati nel corso di tale ultimo periodo che non solo riguardano esclusivamente uno dei tanti calciatori interessati ma che, in ogni caso, non rilevano a questi fini trattandosi di accertamenti concernenti la eritropoietina.
A tale termine va aggiunto un periodo di giorni 32, dal 17 novembre al 19 dicembre 2003, a causa del rinvio disposto dal giudice di primo grado per impedimento dell'imputato A., e un ulteriore periodo di giorni 310 per la sospensione del procedimento a seguito della rimessione degli atti alla Corte costituzionale, in data 8 luglio 2000. Complessivamente il termine prescrizionale è maturato in data 12 marzo 2007 (1 aprile 2006 + 31 giorni = 2 maggio 2006 +310 giorni =12 marzo 2007).
1.3) 3 - Con riferimento all'eritropoietina.
Con specifico riferimento alla somministrazione di eritropoietina umana ricombinante, il ricorso del Procuratore generale va, invece, dichiarato inammissibile.
Si sostiene, infatti, nell'atto di impugnazione che la Corte territoriale avrebbe "sconfessato" le conclusioni della perizia ematologica del prof. D., disposta dal primo giudice, "senza peraltro neppure ritenere necessario procedere a una nuova perizia".
Si sostiene, altresì, con significativi richiami alla giurisprudenza di questa Corte, che nell'ipotesi in cui il giudice non si attiene alle conclusioni peritali, le relative argomentazioni, quando si tratti di problemi tecnici particolarmente complessi che richiedono competenze particolarmente specializzate, devono essere "davvero ineccepibili".
Le affermazioni della Corte territoriale, prosegue il ricorrente Procuratore generale, sarebbero, viceversa, contraddittorie e palesemente illogiche:
- quanto al rilievo del mancato riscontro di positività a sostanze dopanti, trattandosi di affermazione che non tiene conto che, all'epoca di fatti, non si cercavano gli anabolizzanti nei campioni degli atleti, nè sussistevano metodi di ricerca dell'EPO;
- quanto all'affermazione della mancanza di prove dirette di acquisto dell'EPO, contrariamente a quanto invece avvenuto in altri procedimenti penali, trattandosi di irrilevante comparazione con altre vicende processuali, di nessun rilievo ai fini che qui ne occupa;
- quanto alla ritenuta insufficienza della prova indiretta, trattandosi di affermazione in palese violazione dell'art. 192 c.p.p.;
- quanto alla questione semantica (consistente nell'avere il giudice tratto alimento dalle espressioni del perito "molto probabile" e "praticamente certa", per dedurne un giudizio non di semplice probabilità), trattandosi di osservazione formalistica e, comunque basata su una lettura solo parziale degli atti, perchè il giudice di appello avrebbe fatto riferimento nella sua valutazione alla sola perizia del Prof. D., senza tener conto delle integrazioni e dei chiarimenti dello stesso (atti che vengono allegati per estratto) dai quali si evincerebbe, viceversa, che le espressioni utilizzate comportavano un giudizio di certezza da parte del perito;
- quanto, infine, al mancato superamento dei valori fissati nei vari protocolli antidoping, trattandosi di affermazione ininfluente, essendo scientificamente provato che la somministrazione dell'EPO non porta necessariamente al superamento delle soglie fissate nei vari protocolli.
Ritiene, viceversa, questo collegio che la Corte territoriale, lungi dallo "sconfessare le conclusioni del perito di ufficio senza ritenere neppure necessario ricorrere a nuova perizia", ha operato una attenta e approfondita analisi degli accertamenti istruttori e dei contenuti della perizia di ufficio e ha ritenuto, con giudizio insindacabile in questa sede perchè privo di vizi logici, di non condividere le conclusioni riportate nell'elaborato peritale.
In particolare, la Corte ha preso in considerazione e specificamente analizzato tutte le argomentazioni della perizia di ufficio, affermando:
- che negli anni dal 1994 al 1998 non era stato accertato alcun caso di positività a sostanze dopanti da parte di giocatori della soc. Juventus;
- che da nessun atto del processo emergeva l'acquisto di eritropoietina o la sua somministrazione agli atleti della società;
- che lo stesso perito di ufficio aveva individuato la possibilità di una somministrazione di eritropoietina in termini lontani dalla sicura evidenza ("molto probabile" e in due casi "praticamente certa"): e che pertanto, il giudizio di probabilità e non di certezza, non permetteva urta affermazione di responsabilità.
Inoltre, a riscontro delle conclusioni assunte, la Corte territoriale rilevava che non erano stati riscontrati valori superiori ai limiti fissati nei vari protocolli antidoping e che la situazione dei giocatori della Juventus, sia con riferimento ai valori ematologici medi, sia in relazione a quelli del bilancio marziale, non si discostava dalle medie della popolazione nazionale.
Di conseguenza, ricordava la Corte, i valori utilizzati dal perito nell'ambito del criterio della "differenza critica", rientravano nei limiti della media generale, cosicchè tutte le modificazioni individuate nella perizia rappresentavano sostanzialmente dei casi di asserita anormalità circoscritti in un contesto di normalità.
Infine, la Corte esaminava specificamente le posizioni di alcuni giocatori ( Pe., Co., Ta.) sottolineando gli aspetti di sopravvalutazione dei risultati della perizia ("...il calo di emoglobina, superiore alla differenza critica, rende lecito il dubbio della possibile sospensione di una pregressa stimolazione esogena...") e rilevando che in più di una occasione elementi di sospetto erano divenuti, in sentenza, sintomi univoci di utilizzo certo della sostanza vietata.
Tutte le conclusioni citate ricevevano il supporto di una analitica e puntuale motivazione.
Ancora, con specifico riferimento alle posizioni dei giocatori Co. e Ta., la Corte territoriale ha approfonditamente analizzato gli episodi presi in considerazione dal primo giudice, allorchè i valori ematologici avevano registrato una significativa riduzione dell'emoglobina priva di giustificazione nella documentazione clinica, osservando che si era in presenza di semplici sospetti di somministrazione di eritropoietina che, in mancanza di obiettivi e validi riscontri, non consentivano una affermazione di responsabilità degli imputati.
Un insieme argomentativo, quello sinteticamente esposto, complesso e variegato, che, condivisibile o meno, non può certo essere censurato in questa sede sotto il profilo della mancanza o contraddittorietà della motivazione ove si consideri che, per consolidata giurisprudenza, non è compito del giudice di legittimità quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, o quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a base della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata ai giudici di merito: ma solo quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato correttamente tutti gli elementi a loro disposizione fornendo degli stessi una plausibile interpretazione e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato una determinata scelta in luogo di altre.
E nella specie, la Corte ha dato conto delle scelte operate con argomentazioni corrette sul piano della logica, senza operare, come sostiene il Procuratore generale, una sconfessione acritica dei risultati della perizia, ma argomentando congruamente sulle scelte operate.
Alla luce di quanto sopra non può neppure affermarsi che la Corte territoriale abbia ritenuto che solo la prova diretta può condurre a una affermazione di responsabilità: viceversa, il giudice di appello ha fatto corretto uso della motivazione nell'ambito del principio del libero convincimento.
E la riprova di tali affermazioni si coglie nelle stesse censure del ricorrente che, nella sostanza, non si lamenta di omissioni o di carenze motivazionali della sentenza di appello ma fornisce una chiave di lettura dei fatti alternativa a quella della Corte territoriale.
Il ricorso, in parte qua, va, pertanto, dichiarato inammissibile.
Capi h) ed i) della rubrica.
L'art. 445 c.p. punisce la condotta di chi esercitando, anche abusivamente, il commercio di sostanze medicinali, le somministra in specie, quantità o qualità non corrispondente alle ordinazioni mediche o diversa da quella dichiarata o pattuita: si tratta pertanto, di un reato proprio che può essere commesso solo dal commerciante, anche abusivo, di medicinali in concorso eventuale, secondo le regole generali, anche con persone che non esercitano tale attività: è pacifico, pertanto, che il reato può essere commesso solo da chi esercita il commercio e non già da chi somministra medicinali per un titolo diverso.
Oggetto giuridico della tutela penale è il bene della pubblica incolumità e, segnatamente, quello della salute pubblica che si deve garantire contro le condotte di somministrazione di sostanze, pur non adulterate o contraffatte, in specie, quantità o qualità non corrispondente alle ordinazioni mediche o diversa da quella dichiarata o pattuita: per l'effetto, come è stato posto in rilievo dalla dottrina, il pericolo per la salute deve essere concreto, sia a seguito della somministrazione di una quantità maggiore del medicinale, per il possibile nocumento, sia per la somministrazione di una quantità minore, per la eventuale inefficacia del medicinale.
La Corte di appello, contrariamente a quanto aveva ritenuto il giudice di primo grado, ha affermato che il R., fornitore delle sostanze di cui al capo h) della rubrica (al quale è stata applicata la pena su richiesta, anche per questo reato), e il fornitore di creatina (capo i), fossero rimasti estranei alla somministrazione dei medicinali, successivamente posta in essere dall' A. nei confronti dei giocatori: la loro condotta, in altri termini, costituirebbe un antecedente non punibile neppure a titolo di concorso, non essendo stati gli stessi a conoscenza dell'uso che sarebbe stato fatto delle sostanze medicinali compravendute: e, in particolare, che l' A. avrebbe somministrato tali prodotti con modalità tali (in specie, qualità o quantità non corrispondente...) da poter integrare la fattispecie in esame.
Il ricorrente Procuratore generale contesta tale affermazione sostenendo, in sintesi, che la mera fornitura alla soc. Juventus delle sostanze medicinali di cui all'imputazione costituisce somministrazione al fruitore finale, tramite il suo medico e la soc. Juventus: e che la prova della consapevolezza di tale destinazione finale dei farmaci, presente agli atti, sarebbe stata del tutto pretermessa dalla Corte territoriale.
Ciò premesso, osserva questo collegio che l'istituto del concorso di persone esige che il soggetto attivo del reato abbia posto in essere l'elemento oggettivo della fattispecie incriminatrice e che gli altri (eventuali correi) abbiano fornito un contributo causale alla verificazione del fatto, con la volontà di cooperare alla sua commissione: almeno uno dei soggetti deve, pertanto, aver (integralmente) realizzato il fatto materiale descritto dalla norma incriminatrice e cioè, nel caso di specie, la somministrazione, nell'ambito di una attività, abituale o professionale del commercio, autorizzata o meno, di sostanze medicinali in specie, qualità o quantità non corrispondenti alle ordinazioni mediche o diversa da quella dichiarata o pattuita.
Non c'è dubbio, pertanto che, nel caso sottoposto all'attenzione di questa Corte, gli unici soggetti (qualificati) che avrebbero potuto porre in essere la fattispecie in esame sono il
farmacista R., con riferimento ai prodotti di cui al capo b) della rubrica, e il fornitore di creatina, con riferimento ai prodotti di cui al capo i):
entrambi, infatti, e solo loro, rivestivano la speciale qualità (esercizio, anche abusivo del commercio) richiesta dalla norma incriminatrice.
E' vero, infatti, che il reato in esame può essere commesso non solo da farmacisti o commercianti autorizzati di medicinali, come pacificamente emerge dall'inciso "anche abusivamente", utilizzato dal legislatore, ma è altresì vero che la condotta di somministrazione deve essere posta in essere da chi esercita il commercio, condizione che si ha solo in chi esercita professionalmente una impresa commerciale.
Questa Corte ha, infatti, costantemente affermato che il termine "commercio" si traduce in una sorta di intermediazione nella circolazione dei beni svolta con continuità ed avvalendosi di una "sia pur rudimentale" organizzazione di mezzi (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 6^, 11 aprile 2003, n. 17322, Frisinghelli).
Deve inoltre trattarsi di attività rivolta a una cerchia indeterminata di soggetti utilizzatoti diretti o a loro volta intermediari per la successiva distribuzione: ne consegue che in assenza del carattere della professionalità o continuità nello svolgimento dell'attività di commercio, non può ritenersi integrata la condotta richiesta dalla norma incriminatrice.
Ciò posto, non può condividersi l'affermazione del primo giudice che, pur interpretando correttamente la condotta di somministrazione, sostiene che nella specie tale attività sarebbe stata perfezionata con la consegna del medicinale al consumatore finale, tramite l' A. che avrebbe agito non solo come medico acquirente dei farmaci ma anche come somministratore degli stessi ai giocatori:
analisi che, all'evidenza, sconta un errore di fondo perchè analizza, ai fini della configurabilità del fatto, la condotta dell' A. (giungendo a ipotizzare che lo stesso "ha scavalcato persino la farmacia, procurandosi anticipatamente i medicinali" e comportandosi "oltre che come medico anche da farmacista, prelevando e fornendo direttamente i farmaci nell'ambito della somministrazione di cui si tratta...") e non, come sarebbe stato doveroso, quella del soggetto attivo (qualificato) del reato che, nella specie non si identifica certo nell' A. ma nel farmacista R. (oltre che nel somministratore della creatina).
Peraltro, la tesi, pur teoricamente ipotizzabile, che individua nell' A. il soggetto attivo del reato, e che trova labili spunti in alcune affermazioni delle parti ("l' A. aveva costituito una farmacia...", et similia) non è stata coltivata durante i giudizi di merito, di talchè, allo stato degli atti, la confusione dei ruoli ha impedito una corretta valutazione giuridica della norma incriminatrice.
Ne consegue che, una volta accertato in fatto, e incontestabilmente, che il percorso sia dei farmaci che dei prodotti a base di creatina dai soggetti qualificati al medico sociale e da quest'ultimo agli atleti, si è sviluppato in due fasi nettamente distinte (la prima di acquisto dei farmaci dai soggetti qualificati alla soc. Juventus e la seconda da quest'ultima, tramite l' A., ai giocatori), il problema va posto, per una corretta soluzione, ricorrendo, puramente e semplicemente, all'istituto del concorso di persone nel reato, per verificare la consapevolezza, da parte del R., al momento della vendita, della destinazione finale dei farmaci, e cioè della loro somministrazione ai giocatori di calcio in specie, qualità o quantità non corrispondenti alle ordinazioni mediche o diverse da quelle dichiarate o pattuite.
Sul punto la Corte territoriale si limita ad affermare che "il dottor R. e i fornitori di creatina non presero parte a tale condotta nè sotto il profilo materiale, nè sotto quello psicologico o morale, in quanto si trattò di un rapporto che si svolse in via esclusiva tra i dirigenti della società e i giocatori. Tanto è vero che i predetti soggetti qualificati non sono stati incriminati per il delitto di frode sportiva, come avrebbe dovuto avvenire nel caso di un loro
coinvolgimento nell'attività di somministrazione delle sostanze agli atleti o comunque, nell'ipotesi di una partecipazione al progetto nel suo complesso".
La Corte conclude sul punto sostenendo di non condividere affatto neppure la tesi che trae spunto dalla sentenza di patteggiamento del R. per ritenere fondata in parte qua la tesi della pubblica accusa: sostiene, infatti, la Corte territoriale che l'affermazione secondo cui il giudicante sarebbe vincolato, nella valutazione della posizione di un imputato, dall'esistenza di un precedente giudicato nei confronti di altro soggetto ritenuto concorrente nello stesso reato, sarebbe erronea e non sostenibile come costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità.
Orbene, premesso che a nulla rileva, ovviamente, la circostanza, sostenuta dalla Corte territoriale sia pur ad adiuvandum, della mancata incriminazione del R. per il delitto di frode sportiva, osserva questo collegio che la motivazione complessivamente offerta dalla Corte territoriale appare carente e, quindi, censurabile.
La stessa, infatti, pur ribaltando le conclusioni del giudice di primo grado, non ha preso in considerazione tutti gli elementi di fatto sui quali si fondava la decisione e, segnatamente:
- l'avvenuta contraffazione, da parte del R., di alcune prescrizioni mediche provenienti dalla casa di cura (OMISSIS), per ottenere dalle case produttrici alcune specialità medicinali, poi trasferite alla soc. Juventus;
- la richiesta da parte della soc. Juventus al farmacista R. di meri ordinativi commerciali per richiedere farmaci sottoposti all'obbligo della prescrizione medica;
- la richiesta di farmaci autorizzati dal Ministero della sanità per indicazioni terapeutiche incompatibili con lo stato di salute di atleti in piena attività agonistica;
- le dichiarazioni rese dai giocatori della soc. juventus;
- la sentenza di patteggiamento relativa alla posizione del R..
In particolare, con specifico riferimento alle dichiarazioni dei giocatori circa la consapevolezza delle sostanze loro illecitamente somministrate, va osservato, pur nel rigoroso rispetto dei limiti del giudizio di legittimità, che la Corte territoriale, nel ribaltare, ancora una volta, le affermazioni del primo giudice, non ha operato una censura rigorosa delle argomentazioni del Tribunale ("quasi tutti i giocatori, fatta eccezione per i farmaci dichiarati all'antidoping, concordemente hanno affermato essersi trattato di vitamine e persino Bi. che in un primo momento aveva sostenuto che non sempre egli era stato messo a conoscenza della specialità farmaceutica che gli veniva iniettata per flebo, ha poi modificato tale versione assumendo di aver sempre saputo che cosa gli veniva somministrato" e affermando che, in ogni caso, gli veniva somministrato un prodotto disintossicante o un complesso vitaminico), limitandosi ad affermare, del tutto genericamente, che "non mancano nelle dichiarazioni rese dai giocatori della Juventus, indicazioni che fanno ritenere come gli stessi atleti fruissero di una informazione tutto sommato sufficiente in merito alle sostanze somministrate...".
Analoghe considerazioni devono porsi con riferimento alla valutazione della sentenza di patteggiamento: pur corretto il presupposto logico- argomentativo (il giudicante non può certo ritenersi vincolato, nella valutazione della posizione di un imputato, dall'esistenza di un precedente giudicato nei confronti di altro soggetto, concorrente nello stesso reato), la sentenza di applicazione della pena non può, come è stato fatto dalla Corte territoriale, essere tenuta in non cale dopo la valutazione sul punto operata dal primo giudice, dovendo comunque essere esaminata, nel rispetto del principio del libero convincimento, ai sensi dell'art. 238 bis c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3,: la ratio di tali previsioni normative, di non dispersione degli elementi conoscitivi contenuti in provvedimenti che hanno, comunque, acquistato l'autorità di cosa giudicata, tra i quali rientra senza meno anche la sentenza di patteggiamento, riguarda non solo il fatto accertato ma anche gli altri elementi desumibili dalla
motivazione della sentenza e, quindi, sicuramente, tra l'altro, anche la realizzazione, da parte del R. della condotta di cui all'art. 445 c.p..
Ben può il giudice di secondo grado discostarsi dalle conclusioni del giudice di prime cure giungendo a un risultato affatto diverso ma quando, come nella specie, la difformità riguarda l'esclusione della responsabilità (o, viceversa, l'affermazione della responsabilità), le diverse argomentazioni devono tener conto in modo analitico ed esaustivo di tutte le argomentazioni prese in considerazione dal giudice di primo grado, per giungere a un opposto verdetto.
La necessità di una approfondita valutazione in merito appariva tanto più necessaria in quanto la Corte territoriale è entrata in rotta di collisione con un giudicato affermando che il R. "oltre a non aver posto in essere materialmente la condotta incriminata (ossia quella di somministrazione off label delle sostanze medicinali) non vi prese parte neppure sotto il profilo del concorso morale..".
La motivazione della Corte territoriale sul punto specifico è, quindi, carente e va, conseguentemente, annullata in parte qua.
Valgono, anche con riferimento a tali capi di imputazione, le stesse considerazioni già prospettate con riferimento al capo g) della rubrica: l'annullamento va disposto senza rinvio perchè i reati sono estinti per intervenuta prescrizione.
Ed invero, la condotta del reato di cui all'art. 445 c.p. (Somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica. “Chiunque, esercitando anche abusivamente, il commercio di sostanze medicinali, le somministra in specie, qualità o quantità non corrispondente alle ordinazioni mediche, o diversa da quella dichiarata o pattuita, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da lire duecentomila a due milioni.”), risulta commessa, in esecuzione del medesimo disegno criminoso, dal luglio del 1994 al settembre del 1998: ne consegue che il termine massimo di prescrizione (anni sette e mesi sei), calcolato secondo le disposizioni della disciplina previgente, e ritenute le sospensioni già indicate, è maturato in data 12 febbraio 2007.
P.Q.M.
P.Q.M.
annulla senza rinvio la sentenza impugnata in ordine al reato di cui al capo a);
annulla senza rinvio la sentenza impugnata in ordine al reato di cui al capo g), limitatamente alle sostanze vietate diverse dalla "eritropoietina umana ricombinante" nonchè alle sostanze non vietate di cui all'imputazione, perchè il reato è estinto per prescrizione;
annulla senza rinvio la sentenza impugnata in ordine ai reati di cui ai capi b) e i) perchè estinti per prescrizione;
dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore generale in ordine al reato di cui al capo g), limitatamente alla "eritropoietina umana ricombinante".
Così deciso in Roma, il 29 marzo 2007.
Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2007
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