La minaccia costituisce una figura di delitto a carattere sussidiario, in quanto ricorre come figura autonoma solo quando il fatto non sia specificamente previsto come elemento costituitivo o circostanza aggravante di altro reato (si pensi alla minaccia rivolta ad un Corpo politico, configurante il diverso delitto di cui all’art. 338 c.p. ).

L’elemento oggettivo del reato di minaccia consiste nel prospettare ad un individuo un male ingiusto, cioè contra jus, alla persona o al patrimonio, il cui verificarsi, in un futuro più o meno prossimo, dipende dalla volontà dell’agente, anche se non proveniente da lui in modo diretto. Essa, quindi, va tenuta distinta da quei fatti che, pur configurandosi in forma di minaccia, consistono, invece, in imprecazioni o insulti.

Perché sia configurabile la minaccia è necessario che la prospettazione del male minacciato sia ricollegabile ad un soggetto identificabile.

Sono irrilevanti sia le forme che i mezzi attraverso cui la minaccia viene portata e, dunque, il fatto può essere commesso con parole, con scritti o gesti, in modo espresso o tacito, in maniera diretta o indiretta, come anche con comportamenti univocamente idonei ad ingenerare timore.

Ai fini della sussistenza del reato di minaccia non è necessaria la presenza del soggetto passivo, quando questi ne sia comunque venuto a conoscenza, oltre a poter essere rivolta anche a parenti, amici, colleghi, quando il colpevole abbia la certezza che della minaccia sarà reso edotto il destinatario.

Non rileva, nella configurabilità del reato, il fatto che la minaccia sia scaturita in conseguenza di un precedente comportamento minaccioso o provocatorio della vittima.

Oggetto della minaccia deve necessariamente essere un male ingiusto.

Per danno si deve intendere qualsiasi lesione o violazione di un bene o interesse facente capo all’individuo.

Il danno deve essere ingiusto: tale è ogni lesione di un interesse giuridicamente rilevante che sia contraria alla Legge. Non costituisce, invece, danno ingiusto la minaccia di far valere un proprio diritto, come anche quella costituente il mezzo necessario per evitare la lesione di un interesse, materiale o morale, posto in pericolo della persona minacciata.

Quanto al momento consumativo del reato di minaccia, esso si individua nella mera percezione del male prospettato da parte della vittima. Infatti non è necessario il prodursi dell’evento intimidatorio, connesso alla minaccia.
Ad esempio, la frase minacciosa “ti sparo in bocca, a te e a tutta la tua famiglia”, poiché è da ritenersi grave – in quanto minaccia di morte – è punita con la pena della reclusione, piuttosto che con una più modesta pena pecuniaria.
La detta frase minacciosa – seppur realmente pronunciata, peraltro anche alla presenza di testimoni – potrebbe dar luogo ad una assoluzione del soggetto-reo.

Infatti, al concetto di gravità della minaccia va attribuito un carattere relativo, che tenga conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive che accompagnano il fatto e che potrebbero far escludere la sussistenza stessa della minaccia.
Sul punto, infatti, è intervenuta la Corte di Cassazione riconoscendo che “La gravità della minaccia va accertata avendo riguardo a tutte le modalità della condotta, ed in particolare, al tenore delle eventuali espressioni verbali ed al contesto nel quale esse si collocano, onde verificare se, ed in quale grado, essa abbia ingenerato timore o turbamento nella persona offesa” (Cass. Sez. V penale, n.43380 del 20 Novembre 2008). La Suprema Corte, infatti, riconosce che la frase asseritamente minatoria deve essere collocata all’interno del contesto in cui fu pronunciata: le fattispecie incriminatrici per loro stessa natura, implicano una valutazione umana e sociale, culturalmente condizionata, dei comportamenti presi in considerazione (Cass. Pen n.19808/06).
Anche i Tribunali e i Giudici di Pace penale tengono ormai conto di un fatto: è facile minacciare qualcuno – ed è purtroppo un fatto sempre più diffuso – ma sempre più spesso accade che la persona offesa ritenga che la minaccia abbia una vera valenza intimidatoria.
Il Tribunale di Palermo, infatti, ha recentemente riconosciuto che “.. in tali momenti di stress emotivo, in cui si sfogano le tensioni accumulate da una situazione belligerante, … il delitto di minaccia non sussiste perché i fatti contestati sono avvenuti durante uno stato di concitazione d’animo delle odierne imputate...., pertanto, … manca la prova di un’effettiva portata minacciosa delle frasi scriminate, decisiva ai fini della configurabilità del delitto in esame (Cass. 26079/2005), oltre che, la prova dell’elemento psicologico …" (Trib. Palermo, sez. IV pen., Sentenza n.3246 del 05/1/07) ed il Tribunale di Bologna ha ritenuto cheNon può essere considerata minaccia grave l’espressione “vieni qua che ti dobbiamo dare mazzate”, ove pronunciata senza avvalersi dell’uso delle armi, riferendosi la gravità della minaccia non solo all’entità del male minacciato (nella specie lesioni), ma altresì all’insieme delle modalità dell’azione…” (Trib.le Bari Sez. 1 Penale, Sent. del 15/4/09, n. 584).
Ormai diffusamente la Giurisprudenza dei Giudici di Pace, competenti per il caso di minaccia “lieve” è, altresì, concorde nel rilevare che “...Ai fini della configurabilità del reato di minaccia è necessario provare che la condotta posta in essere dal responsabile sia stata volta a restringere la libertà fisica del minacciato o sia comunque stata idonea ad instillare nel medesimo un intendimento serio di per se idoneo a turbarne la psiche ed a incutere timore...” (Giudice di Pace Milano Penale Sentenza del 6/3/09, n. 74); ed ancora “..In tema di reato di minaccia, ai fini della configurabilità, il Giudice deve verificare che le espressioni utilizzate, nel contesto in cui sono state pronunciate anche in riferimento agli altri elementi emersi in istruttoria siano state comunque tali da ingenerare nel soggetto passivo potenziale timore o paura…” (Giudice di Pace Milano Penale Sentenza del 4/3/09, n. 59). 
In un caso, il Tribunale di Bologna inizia la parte motivata della Sentenza di assoluzione del soggetto imputato del reato di minaccia asserendo “Può uno sproposito buttato là in un brevissimo litigio coniugale da un marito ferito dal recente abbandono della moglie, impensierire seriamente costei che lo conosce da sedici anni, mite, lavoratore, mai aggressivo, convincendola ch’egli non solo ha la pistola, ma che davvero l’alzerà contro di lei? La risposta a questa domanda, ch’è l’essenza della causa, è più no che sì, ...”. (Trib. Bologna Sentenza n° 1306 del 23/04/2008).