La Legge n. 40 del 2004 parla della finalità della procreazione assistita agli artt. 1 e 2.

Art 1. Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito.

Art 2. Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è consentito qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità.

La procreazione medicalmente assistita e l’attività di ricerca hanno, dunque, molteplici implicazioni con una serie di valori quali la vita umana, la libertà di autodeterminazione nelle scelte procreative, la famiglia,la libertà, la salute e la promozione della ricerca scientifica. L’arduo compito del legislatore è proprio quello di comporre questi diversi valori in gioco, assicurando un livello minimo di tutela legislativa. In tal senso si è espressa la Corte Costituzionale (Corte cost. 26 settembre 1998, n.347) e anche recentemente la Corte cost. 31 gennaio 2005, n. 45 che ha qualificato la legge sulla fecondazione assistita come una legge “costituzionalmente necessaria”.

Ciò detto, data la complessità del quadro dei valori di riferimento e la impossibilità di stabilire in termini assoluti una gerarchia tra di essi, non è affatto semplice desumere quali siano le scelte legislative di volta in volta intraprese in tale materia che siano conformi alla Costituzione .E’ pur vero, però, che, proprio perché non esiste in termini assoluti una gerarchia dei valori costituzionali, si deve far ricorso alla c.d. “tecnica di bilanciamento”, quale criterio di composizione che consente di stabilire, con riferimento a determinate fattispecie, se un certo valore sia prevalente o recessivo rispetto ad un altro valore.

Ragionando in termini tecnici, non vi è dubbio che il principio enunciato trent’anni fa dalla stessa Corte Costituzionale in materia di aborto secondo cui “ non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute propria di chi è già persona, come la madre,e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare” (sent. n.27/1975, qualificata “basilare” nella successiva sent. n.35/1997) costituisce punto fermo non discutibile su come operare il bilanciamento, anche in materia di procreazione assistita.

 

Così, infatti, affermò la Corte ( sentenza. n. 27 del 1975):

  • che ha fondamento costituzionale la tutela del concepito, la cui situazione giuridica si colloca, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, tra i diritti inviolabili dell'uomo riconosciuti e garantiti dall'articolo 2 della Costituzione, denominando tale diritto come diritto alla vita, oggetto di specifica salvaguardia costituzionale;
  • che del pari ha fondamento costituzionale la protezione della maternità (art. 31, secondo comma, della Costituzione);
  • che sono diritti fondamentali anche quelli relativi alla vita e alla salute della donna gestante;
  • che il bilanciamento tra detti diritti fondamentali, quando siano entrambi esposti a pericolo, si trova nella salvaguardia della vita e della salute della madre, dovendosi peraltro operare in modo che sia salvata, quando ciò sia possibile, la vita del feto;
  • che al fine di realizzare in modo legittimo questo bilanciamento, è "obbligo del legislatore predisporre le cautele necessarie per impedire che l'aborto venga praticato senza seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire nella gestazione" e che "perciò la liceità dell'aborto deve essere ancorata ad una previa valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarla".

Uno dei problemi, inoltre, più discussi è quello dell’impianto degli embrioni

L’art 14 comma 2 della legge in esame dispone che “Le tecniche di produzione degli embrioni non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre.” Si è osservato che, questa limitazione al numero degli embrioni producibili comporta una percentuale di successo dell’impianto che varia sensibilmente a seconda dell’età della donna e che quindi causa una disparità di trattamento confliggendo con l’art 3 della Costituzione. Il suddetto art 14 al comma 3 consente la crioconservazione solo in caso di grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna, imponendo di impiantare gli embrioni crioconservati il prima possibile.

L’obbligo di impianto simultaneo di tutti gli embrioni espone la donna alla probabilità di gravidanze plurime (non solo trigeminari), con seri rischi sia per i nascituri che per la madre.

Per quanto riguarda l’aspetto giuridico, il problema si ripropone nei soliti termini di bilanciamento tra i contrapposti valori in gioco. Da un lato il valore della vita umana prenatale, tutelato limitando la “produzione” di embrioni “superflui”, destinati alla crioconservazione o all’eliminazione e, dall’altro lato, il diritto alla salute della donna, sacrificato dai rischi e disagi legati all’iperstimolazione ovarica, al prelievo degli ovociti ed alle gravidanze multiple (con rischi in tal caso, anche per i nascituri), e la libertà di procreazione, compromessa dalla produzione di un numero di embrioni limitato e, spesso, non sufficiente a portare a termine con successo la fecondazione artificiale.

 Non essendo consentita la crioconservazione degli embrioni, la donna è costretta in caso di insuccesso, a ripetere nuovamente la stimolazione ovarica aumentando cosi i rischi per la propria  salute. Si evince, quindi ,una violazione dell’art 32 della nostra Costituzione nella parte in cui “La repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.

I problemi suscitati dall’applicazione delle disposizioni del 2° comma dell’art.14 non sarebbero facilmente superabili neanche facendo ricorso alle opportunità offerte da altre disposizioni della legge 40.

 

Per quanto attiene al limite della produzione fino ad un massimo di tre embrioni, il comma 8° del medesimo art.14, che consente espressamente la crioconservazione dei gameti maschili e femminili, sembrerebbe ammettere, infatti, implicitamente, la liceità del prelievo di tutti gli ovociti risultanti da un trattamento di stimolazione ormonale, sicché, una volta conservato, il “materiale genetico” potrebbe essere utilizzato gradualmente, senza dover ricorrere a ripetuti trattamenti sulla donna. Resta da superare, però, l’ostacolo, rappresentato sul piano tecnico dal fatto che la crioconservazione dei gameti, soprattutto dei gameti femminili, diversamente da quella degli embrioni, si trova ancora in una fase sperimentale.

Sul punto della gravidanza plurigemellare, cui la donna potrebbe andare incontro, qualora decida di sottoporsi all’unico e contemporaneo impianto di tre embrioni, il comma 4° dell’art.14, enuncia astrattamente il principio del divieto di riduzione embrionale di gravidanze plurime, ma subito dopo, per ridare una sua razionalità alla norma, fa salva l’applicazione della L.194/78, accettando in conclusione una “riduzione fetale” nelle ipotesi in cui sarebbe consentita la interruzione della gravidanza.

Senza dubbio, una volta iniziata una gravidanza multipla, qualora si presentino seri rischi per la salute della madre e, o, dei nascituri, la riduzione fetale sembra essere la soluzione più ragionevole, poiché garantisce una (prosecuzione della) gravidanza sicura sia per la madre che per il feto o i feti che si vuole o si vogliono salvare. Ma tale soluzione tradisce l’incoerenza delle scelte del legislatore che, per evitare lo “spreco” di vite umane, “impone” il rischio di una gravidanza plurima che può condurre ancora una volta al ricorso all’aborto.

 

Un altro degli argomenti discussi è, poi, l’abrogazione del complesso delle disposizioni attraverso cui viene vietata la fecondazione eterologa ossia quella effettuata con seme di donatore esterno alla coppia  Si fa riferimanto, più precisamente a parti degli artt. 4, 9 e 12 della legge 40.

Viene vietato, infatti, il ricorso alla fecondazione eterologa, sanzionando, sul piano amministrativo, il tecnico che la pratichi (medico, biologo), ma non la coppia che vi ricorre.

Consapevole della possibilità per la coppia di ricorrere a centri all’estero che utilizzano tecniche eterologhe, la legge, pur vietando tale pratica, ne ha compiutamente disciplinato le conseguenze: da un lato, precludendo al coniuge o convivente, il cui consenso è ricavabile da atti concludenti, di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall’art.235, comma 1, nn.1 e 2 del codice civile o l’azione di impugnazione per difetto di veridicità di cui all’art. 263 c.c.(art.9, comma 1), e dall’altro, stabilendo che il “donatore di gameti” (da non confondersi con il c.d. padre naturale) non acquisisce alcuna relazione parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto, né essere titolare di obblighi. (art.9, comma 3).

Si tratta di due regole molto importanti. La prima regola, posta a tutela dello status ndel nato, era già stata fissata a livello giurisprudenziale dalla Corte di Cassazione ed è espressione ella prevalenza del consenso del coniuge ( la cui libera scelta di affidarsi alla procreazione assistita eterologa non può non comportare responsabilità nei confronti del nato), rispetto al principio della verità e della necessaria corrispondenza fra “genitorialità biologica” e “genitorialità giuridica”. La seconda è, allo stesso modo, espressione di quel principio di consapevolezza per cui, dovendosi escludere che voglia un figlio, il donatore non assume nessuna responsabilità nei suoi confronti.

La legge 40 non prende in considerazione, invece, l’ipotesi che, in violazione della legge, sia stato fatto ricorso alla donazione di ovociti per realizzare la fecondazione eterologa. In questo caso, in termini giuridici, il problema dell’attribuzione della maternità, però, non presenta difficoltà particolari in quanto si applica il principio, espresso nell’art. 269 c.c., secondo cui è madre colei che partorisce (c.d. madre uterina).

 

Un’altra novità in tale campo è stata la sentenza 11.259/2009 della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione che ha dato il via libera alla procreazione assistita per i detenuti che hanno contratto malattie virali con elevato rischio di trasmissione al partner o al feto. La decisione è che, dopo aver dato l'ok ai figli in provetta per i Boss in regime di “carcere duro”, ha ora riconosciuto la possibilità di avere figli grazie alla fecondazione assistita anche ai detenuti con malattie virali. Per la Corte Suprema (Cass. sentenza n. 7791/2008): "Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona" specialmente se si considera che ''risulta medicalmente accertata la patologia giustificativa del trattamento invocato della quale risulta affetta la moglie'' del recluso.

La Corte ha preso in considerazione il caso di un detenuto di 44 anni affetto da epatopatia HCV.

Inizialmente il magistrato di Sorveglianza aveva negato il consenso ad accedere alla fecondazione assistita sulla base del fatto che ne' il detenuto ne' la moglie avevano problemi di sterilità o comunque una patologia che potesse intrinsecamente impedire il concepimento o la gestazione. Secondo il magistrato di sorveglianza non si potevano applicare le 'Linee Guida' del decreto del ministero della Salute dell'aprile 2008 quale condizione che, per l'elevato rischio di trasmissione al partner e al feto induce oggettivamente situazione di infertilità. Diversa l'opinione della Corte che ha accolto, invece, il ricorso del detenuto ricordando che la legge 40 del 2004 parla di sterilità o infertilità, ma non indica le specifiche patologie che producano sterilità o infertilità in modo dettagliato e nominativo.

 

Inoltre i Giudici della Corte hanno accolto il ricorso sottolineando che ''il principio da applicare in simile fattispecie non può che essere quello di contemperare interesse personale e detenzione (lo scopo della detenzione) e il giudizio relativo non può che ispirarsi al criterio della proporzione tra le esigenze di sicurezza sociale e penitenziaria ed interesse della singola persona''.

Da ciò consegue che il sacrificio imposto al singolo non deve ecceder quello minimo necessario, e non deve ledere posizioni non sacrificabili in assoluto.

Tale principio, ripetutamente affermato in sede di giurisdizione internazionale dalla Corte Europea dei diritti dell’ Uomo, corrisponde al principio di proporzionalità dell’azione amministrativa.

In definitiva: devono assumersi come tutelabili tutte le situazioni giuridiche soggettive espressamente riconosciute dalle norme penitenziarie, nonché tutte quelle riconoscibili ad un soggetto libero, in relazione alle quali occorre sempre applicare il principio di proporzionalità.

 

Nella motivazione della Sentenza, la Corte sottolinea, infatti, che ''non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette di rispetto della dignità e dell'umanità della persona o, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari''.

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi.

Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.

 

Avv. Massimo Colangelo con il contributo della Dott.ssa Angela Aragosa

 

BARBARA MASTROPIETRO, La procreazione assistita.

 P. ZATTI, La tutela della vita prenatale

Articolo di C.FLAMINI su L’Unità del 6 Marzo 2005

Commento AVV. CATALDI