La responsabilità per l’esercizio di attività pericolose

Ai sensi dell’art. 2050 c.c., “chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno”. Con questa norma l’ordinamento ha introdotto una forma di responsabilità a carico di coloro che nello svolgimento di attività pericolose cagionino ad altri un danno ingiusto.
Orbene, la mancata tipizzazione da parte del legislatore delle attività pericolose, lascia al giudice il compito di determinare caso per caso la sussistenza o meno di detta qualità. All’uopo la giurisprudenza di legittimità si è più volte pronunciata sul punto stabilendo che si debbono ritenere attività pericolose ai sensi dell’art. 2050 c.c. non solo quelle qualificate tali dalla legge di pubblica sicurezza e da altre leggi speciali, ma anche le attività che, per loro stessa natura o per caratteristiche dei mezzi adoperate, comportano una rilevante possibilità del verificarsi di una danno per la loro spiccata potenzialità offensiva (Cass. 05/06/07, n. 8148). Detta pericolosità va poi, nello specifico, valutata in relazione alla probabilità delle conseguenze dannose che possono derivarne e non anche in riferimento alla diffusione delle modalità con le quali viene comunemente esercitata.
Ai fini dell’applicazione della responsabilità ex art. 2050 c.c., l’attività deve, quindi, essere tale da rendere non semplicemente possibile il verificarsi di un evento dannoso, ma altresì probabile in relazione alla natura ed ai mezzi impiegati.
Per tale ragione, la S.C. ha ritenuto, ad esempio, di dover escludere che l’uso di una piscina di per sé potesse costituire un’attività pericolosa, gravando così il danneggiato dell’onere di fornire prova della pericolosità dell’attività sulla base delle circostanze di fatto esistenti al momento dell’evento (Cass. n. 20334 del 15/10/04; Cass. n. 10227 del 12/05/05) .
L’applicazione o meno alla fattispecie concreta della previsione di cui all’ art. 2050 c.c., pone, quindi, il danneggiato in una posizione più o meno sfavorevole.
La norma in questione prevede, infatti, a carico dell’esercente l’attività una presunzione di responsabilità che può essere vinta solo con una prova particolarmente rigorosa, ossia con la dimostrazione di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Ciò significa che non basta la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza, ma occorre quella positiva di aver impiegato ogni cura e misura atta ad impedire l’evento dannoso, di guisa che anche il fatto del danneggiato o del terzo può produrre effetti liberatori solo se per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere, in modo certo, il nesso causale tra attività pericolosa ed evento e non già quando costituisce elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia reso possibile l’insorgenza a causa dell’inidoneità delle misure preventive adottate. (Cass. 29/04/91, n. 4710).
Ne consegue che nell’ipotesi in cui il danneggiato agisca per il risarcimento del danno subito ex art. 2050, graverà su di lui il solo onere della prova dell’esistenza del nesso eziologico tra l’attività in oggetto e l’evento dannoso.

La responsabilità dell’organizzatore di gare sportive amatoriali
Accade di sovente che durante le lezioni pratiche d'educazione fisica, vengano organizzate dagli stessi studenti delle partite di calcio, che coinvolgono l’ insegnante, ingaggiato quale arbitro. E’ usuale che nel corso di queste gare, uno degli alunni si infortuni.
Fattispecie di questo genere sono oggetto di numerose vicende giudiziarie, che a volte approdano fino in Cassazione. E’ il caso della vicenda oggetto della sentenza n. 1197 del 19 gennaio 2007, con la quale la S.C. si è pronunciata sulla richiesta di condanna della scuole e dell’insegnante al risarcimento danni sollevata, ex artt. 2043 e 2050, dai genitori dello studente.
Orbene, in detta pronuncia, il giudice di legittimità, confermando l’orientamento già consolidato in materia (ex multis: sentenza n. 8095/2006), ha escluso che l'attività sportiva scolastica riferita al gioco del calcio abbia carattere di pericolosità intrinseca, trattandosi di una disciplina in cui prevale l'aspetto ludico, non configurabile come attività pericolosa ai sensi del codice civile (art. 2050). Secondo la S.C., infatti., è irrilevante, ai fini della responsabilità diretta della scuola ed indiretta degli insegnanti, ogni indagine volta a verificare se la medesima attività faccia, o no, parte dei programmi ministeriali.
Secondo la Corte, quindi, lo scopo intrinsecamente ricreativo di una partita a pallone disputata a scuola, durante l'ora d'educazione fisica, non può far assurgere la medesima ad attività pericolosa, che altrimenti costringerebbe gli organizzatori (nella fattispecie: scuola, alunni e docenti) l'obbligo di predisporre una serie obiettivamente idonea di mezzi organizzativi, tesi ad impedire il verificarsi del danno, per superare la presunzione di colpevolezza a carico del danneggiante. Del resto la stessa come affermato dalla Corte di Appello di Napoli con sentenza del 21.2.2005, nessuno penserebbe di chiamare il medico o l'infermiere o l'ambulanza o di portare con sé cerotti e medicamenti vari per giocare a pallone su di un prato o per disputare un incontro di calcio fra scapoli e ammogliati. E' quindi affatto superfluo soffermarsi sulla pericolosità intrinseca del gioco del calcio, quando il pericolo d'infortunio è connesso a qualsiasi attività ludica normalmente esercita.


Dott.ssa Federica Malagesi