La Suprema Corte è recentemente tornata a pronunciarsi in tema di responsabilità medica. La sentenza trae spunto dalla vicenda di un intervento chirurgico che aveva determinato, quale esito infausto, la cecità di un paziente; in particolare, un bambino di 1 anno veniva sottoposto nel 1985 ad un delicato intervento al cranio. A seguito dell’operazione, tuttavia, ne era derivata la completa cecità del minore. Il danneggiato, nel 2004, conveniva in giudizio sia il medico che la struttura sanitaria ove era avvenuta l’operazione chiedendo il risarcimento dei danni permanenti riportati dallo stesso, in seguito all’intervento de quo, sostenendo che il medico avesse eseguito un intervento più invasivo, pericoloso e non necessario di quello che era stato stabilito sia con i di lui familiari, all’epoca esercenti la potestà genitoriale, sia con il pediatra che lo aveva in cura. In pratica, il medico aveva operato oltre quanto concordato e approvato dai genitori, oggetto del contratto professionale concluso; c.d. consenso informato. Premesso, dunque, che l’intervento praticato era difforme da quello consentito dal paziente (in questo caso, dai genitori dello stesso) l’attore ravvisava il delitto di lesioni volontarie in capo al chirurgo. In entrambi i gradi di giudizio di merito veniva rigettata la domanda dell’istante in accoglimento della preliminare eccezione di prescrizione sollevata dai convenuti, atteso che il primo atto interruttivo della prescrizione, a mezzo raccomandata, era del 1998 (quindi 13 anni dopo l’evento lesivo). Il Tribunale e la Corte d’Appello aditi avevano escluso che potesse ravvisarsi il reato di lesioni volontarie gravissime (soggetto all’epoca alla prescrizione di anni 15) e che quindi era decorsa sia la prescrizione quinquennale che decennale dall’intervento contestato. Il danneggiato proponeva ricorso in Cassazione sostenendo che in assenza di consenso l’attività chirurgica era da ritenere contra legem. In particolare, sosteneva (in generale) che il sanitario debba rispondere di lesioni colpose ogni qual volta quest’ultimo ritenga per errore esistente il consenso, dolose in caso di consapevolezza di tale mancanza. Nel caso di specie, quindi, secondo il ricorrente, essendo il medico consapevole della mancanza totale di un espresso consenso ad un’operazione più rischiosa ed invasiva, ricorrevano i presupposti per il reato di cui all’art. 583 c.p., con conseguente applicazione della prescrizione per questo prevista. La Suprema Corte, per potersi pronunciare sull’avvenuta prescrizione o meno del reato, sulla scia dei precedenti giurisprudenziali, si è soffermata sulla possibile ravvisabilità in capo al sanitario del reato di lesioni volontarie. In effetti, il reato di lesioni sarebbe stato l’unico, stante la previsione sanzionatoria ex art. 583 co. 2 n. 2) c.p., a determinare l’innalzamento della relativa prescrizione fino a 15 anni, in tal modo rendendo astrattamente possibile che l’azione civile proposta fosse da ritenere non ancora prescritta. La materia, come è noto, è stata al centro di un lungo e travagliato dibattito da parte della giurisprudenza penale della Corte di Cassazione (cfr. 5639/1992; 26446/2002; 11335/2008; 34521/2010; S.U. 2437/2008) Si tratta di pronunce molto complesse, che hanno affrontato casi di notevole gravità, connotati dalla formulazione, a carico dei sanitari incriminati, di gravissimi reati. I giudici di legittimità, chiamati a pronunciarsi in casi analoghi, sono partiti dal presupposto che ogni intervento chirurgico è, di per sé, un atto lesivo dell’integrità fisica e che per poter ravvisare “la sussistenza di un nesso causale tra lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente e lesione della salute per le conseguenze negative dell’intervento, deve potersi affermare che il paziente avrebbe rifiutato l’intervento ove fosse stato compiutamente informato.” (Cass. n. 2847/2010). Con l’intervento delle S.U. nel 2008, veniva affermato il principio secondo cui “non integra il reato di leisone personale, né quello di violenza privata la condotta del medico che sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, nel caso in cui l’intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, essendo da esso derivato un miglioramento delle condizioni di salute del paziente”. Nulla quaestio, dunque, per le Sezioni Unite nel caso in cui l’intervento avesse avuto un esito positivo, migliorativo delle condizioni del paziente anche se quest’ultimo non avesse in realtà espresso un consenso in proposito. Quindi, ove l’operato dei medici abbia finalità terapeutiche è da ritenersi legittimo, non essendo possibile rinvenire il reato di lesioni in capo a questi ultimi. Rimaneva aperto, invece, il dubbio circa la rilevanza penale del comportamento del medico nel caso in cui l’intervento chirurgico non voluto, o comunque non concordato, avesse avuto, come nel caso di specie, esito infausto. Una successiva sentenza alle S.U., la n. 34521/2010, aveva escluso la configurabilità del reato di omicidio preterintenzionale anche nel caso in cui il sanitario aveva sottoposto un paziente ad un trattamento non consentito (anche con esito infausto e in violazione delle regole d’arte medica) se “sia rinvenibile nella sua condotta una finalità terapeutica o comunque la terapia sia inquadrabile nella categoria degli atti medici”. Veniva statuito infatti che “ove venga violata una regola cautelare il sanitario risponderà, al più, di omicidio colposo, mentre, per il reato più grave di omicidio preterintenzionale potrà risponderne solo in mancanza di alcuna finalità terapeutica, per fini estranei del tutto estranei alla tutela della salute del paziente.” Orbene, nel caso in esame, il ricorrente non aveva mai sollevato questioni in ordine all’ipotesi errore commesso dal chirurgo nell’esecuzione dell’intervento e meno che meno di un errore commesso intenzionalmente, ma basava la sua difesa sul fatto che l’intervento era stato eseguito in assenza di qualsivoglia consenso. Alla luce della precedente e copiosa produzione giurisprudenziale, sopra citata e in parte riportata, la Suprema Corte non ha ravvisato, nel caso di specie, un animus nocendi in capo al chirurgo, che ha operato esclusivamente con finalità terapeutica, rientrando quindi il suo operato nei cc.dd. atti medici. Ha osservato infatti la Corte che l’unica ipotesi di reato che si poteva ipotizzare era quello di lesioni colpose, la cui prescrizione era però trascorsa ormai da tempo. In conclusione, la Corte di Cassazione enunciava il seguente principio di diritto: "In tema di responsabilità civile da trattamento sanitario ed ai fini dell'individuazione del termine prescrizionale per l'esercizio dell'azione risarcitoria, non è ipotizzabile il delitto di lesioni volontarie gravi o gravissime nei confronti del medico che sottoponga il paziente ad un trattamento da questo non consentito (anche se abbia esito infausto e anche se l'intervento venga effettuato in violazione delle regole dell'arte medica), se comunque sia rinvenibile nella sua condotta professionale una finalità terapeutica o comunque la terapia sia inquadrabile nella categoria degli atti medici. In questi casi, infatti, la condotta non è diretta a ledere e, se l'agente cagiona lesioni al paziente, è al più ipotizzabile il delitto di lesioni colpose se l'evento è da ricondurre alla violazione di una regola cautelare". Pertanto, la Corte rigettava il ricorso condannando il ricorrente alla spese di giudizio.