Non scatta la responsabilità, ed il relativo risarcimento, da parte del ministero della Salute per una caso di trasfusione di sangue, operato in via di urgenza, che ha portato alla contrazione da parte del paziente del virus dell’epatite C, perché al momento del ricovero, nel 1989, non esisteva un metodo capace di escludere la presenza del virus con relativa certezza. Lo ha stabilito il tribunale di Bologna con la sentenza 8 giugno 2011 n. 1566. Secondo il giudice infatti “la non indefettibilità del test delle transaminasi Alt ovvero di un trattamento antivirucidico (in quanto anche così operando è possibile l’utilizzazione di sangue o di suoi derivati infetti) comporta che la loro effettuazione può mutare solo l’incidenza statistica di tale fenomeno, il quale, però, continua ad esistere”. Ragione per cui “non esistono condotte omissive addebitabili al ministero della Salute che possano considerarsi un antecedente logico-fattuale qualificabile come condizione necessaria dell’evento dannoso”. Infatti, “anche sostituendo la azione doverosa – e cioè l’effettuazione dei test delle transaminasi sui donatori o i trattamenti di inattivazione virale – al mancato compimento della stessa, l’evento si sarebbe comunque potuto verificare in una non irrisoria percentuale di casi”. E secondo quanto stabilito dalla Cassazione “il concetto di certezza probabilistica non può essere interpretato nel senso che “il più probabile che non” corrisponde al 51%; poiché le Sezioni unite hanno pur sempre fatto riferimento al concetto di certezza (seppure “probabilistica” anziché “al di fuori di ogni ragionevole dubbio”), non resta che fare riferimento ad una percentuale di probabilità sufficientemente alta da consentire un giudizio di certezza (meglio: di quasi certezza) del nesso causale”. Il che non è