Comunione dei beni - Condannato il coniuge che vende il bene comune anche se ne acquista un altro che vale di più.
Corte di cassazione - Sezione Ii civile – Sentenza 17 dicembre 2012 n. 23199.
Avv. Fabio Cornacchia
di Roma, RM
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Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 23199/2012 accogliendo il ricorso della moglie. Va riconosciuto il danno del coniuge se l’altro vende un appartamento in comunione, dichiarando che è un bene personale, anche se poi acquista un altro immobile, in ipotesi di valore superiore, che cade anch’esso in comunione. In primo grado il tribunale di Roma le aveva riconosciuto 54mila euro a titolo di restituzione del prezzo ricevuto dalla vendita e 180mila per il risarcimento dei danni costituiti dal maggior valore dell’immobile rispetto al prezzo di vendita e dal danno morale. Di tutt’altro avviso la Corte di appello secondo cui ricadendo comunque il nuovo bene in comunione andava respinta sia la domanda diretta ad ottenere la metà del valore dell’appartamento sia il risarcimento del danno. Per la Cassazione però la Corte distrettuale sbaglia avendo dato “rilievo dirimente ad un fatto (l’acquisto del diverso appartamento) di per sé del tutto estraneo alla fattispecie sottoposta a giudizio”. Infatti, “l’indagine - si legge nella sentenza - non poteva che arrestarsi all’accertamento dell’illegittimità della condotta posta in essere dal convenuto”: e cioè la vendita senza il consenso dell’altra parte. Né vale l’affermazione per cui l’acquisto sarebbe avvenuto con i soldi della vendita integrando così “una mera sostituzione dei beni cadenti in comunione”. Perché un simile modo di ragionare “comporta invero una inammissibile sovrapposizione e prevalenza del giudizio economico sul bene giuridico, avendo il giudice operato una sorta di compensatio lucri cum danno che non solo appare del tutto disancorata ai presupposti di legge, ma soprattutto è avulsa rispetto al giudizio di illiceità del comportamento del convenuto che era chiamato a svolgere”. Accolto il ricorso, dunque, e rinviato il giudizio per la decisione ad altra Sezione della Corte d’appello di Roma.
La pronuncia risolve numerose problematiche, tra cui molte simili a quella oggetto: l'assunzione di un candidato vincitore in un ruolo differente, nella specie, una posizione di grado ed inquadramento inferiore rispetto a quella prevista dal bando di concorso, a causa della soppressione dell'Ufficio Amministrativo, avvenuto in pendenza di concorso, presso il quale lo stesso avrebbe dovuto prestare servizio.
Spiega la Cassazione Civile come il bando di concorso, essendo preordinato alla conclusione di un contratto con determinati requisiti, costituisce offerta al pubblico ai sensi dell'art. 1336 del Codice Civile.
Secondo questa specifica disciplina l'offerta diviene irrevocabile dal momento dell'accettazione espressa da parte degli interessati a cui è rivolta.
Così, anche in questo caso, l'offerta "modificata" a causa di esigenze strutturali sorte all'interno della Pubblica Amministrazione è divenuta irrevocabile nel momento in cui il candidato vincitore ha accettato di prestare servizio per un ruolo differente rispetto a quello prospettato inizialmente. E' utile ricordare come i poteri di supremazia tipici del diritto amministrativo decadano nel momento in cui la Pubblica Amministrazione operi nell'ambito del pubblico impiego privatizzato - ipotesi del caso corrente.
Essa, in qualità di datore di lavoro privato, risulta così soggetta alla medesima disciplina privatistica generalmente applicata nei rapporti di lavoro paritario.
Sulla base di questo ragionamento la Corte di Cassazione ha ritenuta legittima l'assunzione del candidato vincitore inquadrato in un ruolo diverso rispetto a quello previsto dal bando poiché, in tale contesto normativo, il diritto dello stesso all'assunzione al livello previsto resta subordinato alle esigenze di organizzazione interna dell'ente pubblico.
L'intervenuta modifica dell'assetto organizzativo interno causato da esigenze di economicità, funzionalità ed efficacia della Pubblica Amministrazione libera quest'ultima dagli obblighi previsti nell'originale bando di concorso.
La valutazione effettuata dalla Corte esula così dai principi di buona fede e correttezza, i quali principi operano soltanto vincolati ai limiti della previsione contrattuale, e non indipendentemente dal contesto in cui l'accordo di perfeziona.
Inoltre, essendo il datore di lavoro una Pubblica Amministrazione, i Giudici della Corte Superiore hanno ritenuto la propria interpretazione conforme ai canoni ex art. 97 della Costituzione enunciante il generale principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione, la quale, nell'organizzare i propri Uffici, è tenuta ad osservare criteri di imparzialità, legalità e soprattutto efficacia ed efficienza di operato.
L'azione del datore di lavoro - Pubblica Amministrazione ha, quindi, in questo caso, radici costituzionali: esso ha anzi il potere - dovere di intervenire in situazioni in cui si palesi illegittimità di inquadramento o irregolarità di assunzione in genere proprio al fine di ristabilire il corretto funzionamento dell'intero apparato.
Tale obbligo non sussiste, tuttavia, per il caso in oggetto in quanto il comportamento dell'ente pubblico è stato ritenuto pienamente idoneo ed in linea con il dettato civile e costituzionale.
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