Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 23199/2012 accogliendo il ricorso della moglie. Va riconosciuto il danno del coniuge se l’altro vende un appartamento in comunione, dichiarando che è un bene personale, anche se poi acquista un altro immobile, in ipotesi di valore superiore, che cade anch’esso in comunione. In primo grado il tribunale di Roma le aveva riconosciuto 54mila euro a titolo di restituzione del prezzo ricevuto dalla vendita e 180mila per il risarcimento dei danni costituiti dal maggior valore dell’immobile rispetto al prezzo di vendita e dal danno morale. Di tutt’altro avviso la Corte di appello secondo cui ricadendo comunque il nuovo bene in comunione andava respinta sia la domanda diretta ad ottenere la metà del valore dell’appartamento sia il risarcimento del danno. Per la Cassazione però la Corte distrettuale sbaglia avendo dato “rilievo dirimente ad un fatto (l’acquisto del diverso appartamento) di per sé del tutto estraneo alla fattispecie sottoposta a giudizio”. Infatti, “l’indagine - si legge nella sentenza - non poteva che arrestarsi all’accertamento dell’illegittimità della condotta posta in essere dal convenuto”: e cioè la vendita senza il consenso dell’altra parte. Né vale l’affermazione per cui l’acquisto sarebbe avvenuto con i soldi della vendita integrando così “una mera sostituzione dei beni cadenti in comunione”. Perché un simile modo di ragionare “comporta invero una inammissibile sovrapposizione e prevalenza del giudizio economico sul bene giuridico, avendo il giudice operato una sorta di compensatio lucri cum danno che non solo appare del tutto disancorata ai presupposti di legge, ma soprattutto è avulsa rispetto al giudizio di illiceità del comportamento del convenuto che era chiamato a svolgere”. Accolto il ricorso, dunque, e rinviato il giudizio per la decisione ad altra Sezione della Corte d’appello di Roma.