ASL: crediti pignorabili senza ricognizione di debiti e piano di rientro
Tribunale Napoli, sez. Pozzuoli, sentenza 11.07.2011
Avv. Angelo Forte
di Modugno, BA
Letto 1345 volte dal 25/05/2012
I crediti di una ASL sono pignorabili se non c'è ricognizione dei debiti e piano di rientro. Il rimedio della sospensione dell’azione esecutiva, infatti, meramente processuale e non incidente sul rapporto obbligatorio, risulta difficilmente ragionevole se non contenuto in tempi ristrettissimi e se non assistito da una rigorosa ricognizione dei debiti con contestuale previsione di un piano razionale di pagamento. (*) Riferimenti normativi: art. 1, co. 51, L. n. 220/2010.
Tribunale di Napoli
Sezione distaccata di Pozzuoli
Sentenza 11 luglio 2011
(Giudice Unico Antonio Lepre)
Il fatto
Gli odierni opponenti, in forza di titolo esecutivo in atti, hanno notificato pignoramento presso il terzo San Paolo Banco Napoli in quanto tesoriere dell’ASL NA 2 NORD.
Il Giudice della esecuzione ha sospeso il pignoramento in virtù dell’art. 1, comma 51, l. 13.12.2010, n. 220 secondo cui “al fine di assicurare il regolare svolgimento dei pagamenti dei debiti oggetto della ricognizione di cui all'articolo 11, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, per le regioni già sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari, sottoscritti ai sensi dell'articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e successive modificazioni, e già commissariate alla data di entrata in vigore della presente legge, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, fino al 31 dicembre 2011. I pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle regioni di cui al presente comma alle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, effettuati prima della data di entrata in vigore del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, non producono effetti dalla suddetta data fino al 31 dicembre 2011 e non vincolano gli enti del servizio sanitario regionale e i tesorieri, i quali possono disporre, per le finalità istituzionali dei predetti enti, delle somme agli stessi trasferite durante il suddetto periodo”
Avverso l’ordinanza del G.E. sono state proposte le odierne riunite opposizioni fondate, per un verso, sulla non operatività della disposizione alla fattispecie concreta, per altro verso e subordinatamente, sul contrasto con il diritto comunitario della normativa prefata di cui si chiede la disapplicazione a questo Tribunale; per altro verso ancora, chiedendo rimettersi gli atti alla Corte Costituzionale della disposizione citata.
La decisione
Le riunite opposizioni sono fondate, atteso che l’ASL NA 2 NORD non ha dimostrato la sussistenza di tutti i requisiti richiesti dall’art. 1, comma 51, l. n. 220/2010 per la operatività della sospensione dell’azione esecutiva; in particolare, non risulta la conclusione della procedura di ricognizione dei debiti relativi ai piani di rientro sanitari con contestuale predisposizione di un piano di individuazione delle modalità e tempi pagamento.
L’art. 1, comma 51, l. n. 220/2010, infatti, sospende le azioni esecutive esplicitamente “al fine di assicurare il regolare svolgimento dei pagamenti dei debiti oggetto della ricognizione di cui all’art. 11, comma 2, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.7.2010, n. 122”: tale disposizione prevede che i Commissari ad acta, entro 15 giorni dalla sua entrata in vigore, procedano alla “conclusione della procedura di ricognizione di tali debiti, predisponendo un piano che individui modalità e tempi di pagamento”.
Di tale ricognizione dei debiti corredata dal piano sulla tempistica e modalità di pagamento non vi è prova in atti : l’ASL opposta, infatti, non si è costituita in giudizio, optando per la contumacia.
A tal proposito deve dirsi che nel fascicolo della procedura n. 910/2011 parte opponente ha prodotto una delibera del Commissario ad acta della Regione Campania, delibera che tuttavia di certo non può considerarsi integrare la ricognizione dei debiti e la pianificazione dei pagamenti, per queste manifeste ragioni:
a) il documento non contiene la voce analitica dei debiti e dei creditori, ma procede, per così dire, per macroaree: ricognizione, ictu oculi, sta a significare individuazione specifica non già della massa debitoria nell’ambito di un determina materia, bensì la corretta contabilizzazione e individuazione delle singole voci debitorie, della loro entità, dei creditori corrispondenti, della data di insorgenza del debito, della fonte dello stesso e infine della sua entità;
b) non vi è alcun piano di rientro dei pagamenti: la delibera si limita ad affermare di dover “definire accordi con le Associazioni dei creditori e/o con singoli creditori di maggiore rilievo”; affermazione, invero, singolare atteso che non si specifica quali debbano essere considerati i debiti più importanti e rilevanti, posto che un credito di 20mila € in ipotesi può determinare il fallimento del piccolo imprenditore, laddove un credito insoddisfatto di un milione di € potrebbe invece ben essere sopportato da una azienda solida economicamente. E’ chiaro che una pianificazione dei pagamenti deve,
evidentemente, rispondere a criteri oggettivi, analitici, specifici e che consentano una programmazione e tempistica degli adempimenti;
c) la stessa delibera, del resto, conferma la sua natura ibrida quando, si oserebbe dire senza troppa convinzione, nel dispositivo recita “di dare atto che il presente decreto costituisce – tra l’altro – adempimento del piano dei pagamenti richiesto dall’art. 11, comma 2, decreto legge 31 maggio 2010 n. 78, convertito in legge 30 luglio 2010, n. 11”. Tale affermazione ovviamente non è idonea a trasformare una delibera in una cosa diversa da quello che effettivamente è; quanto rilevato non solo tende a chiarire l’impossibilità di operare alcuna “metamorfosi” in senso conservativo dell’atto regionale, ma soprattutto conferma che la delibera è, in realtà, cosa diversa dall’adempimento della rigorosa disposizione citata;
d) la delibera del Commissario ad acta avrebbe, peraltro, forse, potuto essere integrata da una autonoma ricognizione dei debiti e pianificazione dei pagamenti da parte della stessa ASL NA NORD 2, ricognizione/pianificazione che dovrebbe rientrare nella ordinarietà della gestione dell’azienda sanitaria e che spiegherebbe la genericità della delibera regionale, che in qualche misura sembra presupporre una specificazione dei debiti da parte delle singole aziende: la contumacia dell’opposta rende, tuttavia, processualmente certa l’assenza di siffatta ulteriore attività amministrativa;
e) infine la delibera prodotta non è firmata ne è sottoscritta dal Commissario ad acta: e se è vero che la produzione della stessa da parte dell’opponente rende credibile la correttezza e anche apprezzabile il suo comportamento processuale, è altresì verso che ciò non è sufficiente ad attestare la autenticità di quanto prodotto.
La operatività della sospensiva della esecuzione, quindi, presuppone l’approvazione della predetta ricognizione e pianificazione dei debiti e dei pagamenti.
Tale conclusione deriva, in primo luogo dalla interpretazione letterale della norma: in assenza di tale ricognizione di debiti, infatti, stando al testo della normativa, manca la finalità per cui è prevista la sospensiva, che, in tanto opera, in quanto sia funzionale ad assicurare il regolare svolgimento dei debiti oggetto della predetta procedura di accertamento. In secondo luogo, la necessità di una effettiva ricognizione dei debiti e di un piano di rientro nei pagamenti è del tutto coerente con la ratio dell’art. 1, comma 51, L. n. 220/2011.
La suddetta normativa, infatti, non ha lo scopo di consentire alle ASL di non pagare atteso che di certo non cancella nè estingue i crediti costituenti oramai diritti quesiti; la sospensione delle azioni esecutive ha, invece, lo scopo opposto di agevolare gli adempimenti, consentendo alle aziende sanitarie di riorganizzarsi a fronte delle numerose azioni giudiziarie intraprese nei loro confronti in questi anni, riorganizzazione funzionale evidentemente proprio al pagamento dei debiti residui. A tal fine, del resto, la disposizione specifica che i pignoramenti “non vincolano gli enti del servizio sanitario regionale e i tesorieri, i quali possono disporre, per le finalità` istituzionali dei predetti enti, delle somme agli stessi trasferite”: ciò si spiega, del resto, col fatto che - pendente la sospensione delle azioni esecutive - in tutta evidenza le aziende devono poter utilizzare le varie rimesse finanziarie per il raggiungimento delle finalità istituzionali, tra cui rientra certamente e prioritariamente il pagamento dei debiti. Ecco, quindi, che si spiega definitivamente la previsione della necessità della ricognizione e pianificazione dei debiti e dei relativi pagamenti.
La predetta opzione ermeneutica, infine, viene imposta dalla circostanza che senza dubbio, nell’ambito delle varie ipotesi interpretative, ci si deve certamente ispirare a una metodologia restrittiva, attesa la assoluta peculiarità della normativa in questione che, per una serie di motivi da qui in seguito espressi, si pone in forte attrito con principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e comunitario, contrasto che, in qualche misura, il legislatore tende ad attenuare e a rendere giuridicamente tollerabile nella misura in cui appunto impone al debitore di porre in essere una pianificazione dei debiti e tempi di pagamento che servano a ristabilire quanto meno certezza sul conseguimento del credito e razionalità nell’ordine degli adempimenti.
La difficile convivenza della predetta normativa coi principi menzionati emerge in tutta evidenza appena si inquadri la previsione legislativa nell'ambito del contesto normativo che regola il c.d. quasi-mercato sanitario e i principi comunitari della libera concorrenza, giusto processo e di uguaglianza anche sub specie di ragionevolezza della normativa.
a) Rapporti tra l’art. 1, comma 51 l. n. 220/2010 e l’attuale configurazione del servizio sanitario nazionale/regionale come configurato dal decreto legislativo n. 502/1992 e successive modificazioni alla luce dei principi comunitari di libera concorrenza.
E’ pacifico che con il decreto legislativo n. 502/1992 è stato introdotto un sistema con tratti fortemente concorrenziali tra pubblico e privato, da intendersi, quest’ultimo, sia come privato accreditato che come privato, per così dire, “puro”.
Tale aspetto trova la sua fonte nella trasformazione delle vecchie USL in ASL configurate dall’art. 3, comma 1-bis, d.lgs n. 502/1992 come aziende con “personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale”, che, ai sensi del successivo comma 3-ter, agiscono con strumenti di diritto privato. Tali aziende sanitarie non a caso sono dirette dal direttore sanitario, che, quanto meno sulla carta, è concepito come sostanzialmente un manager di aziende private, con incarico a tempo e con l’obbligo di evitare gravi disavanzi di bilancio. Infine, sempre sulle grandi linee, sono previsti regimi di incompatibilità per il personale sanitario, nonché è stata introdotta con l’art. 77 comma 11, l. n. 44/1998 l’attività libero professionale intramuraria esplicitamente volta a determinare lucro imprenditoriale (ancorché con vincoli di destinazioni legalmente prefissati e non coincidenti con la distribuzione di utili se non in parte come voce aggiuntiva dello stipendio del sanitario prescelto in intramoenia) e porsi in concorrenza, non solo in termini di qualità, ma anche di tempistica delle prestazioni, rispetto all’imprenditoria sanitaria privata.
E’ chiaro che, in questo contesto, si evidenzia come assolutamente peculiare una normativa che sottrae alcuni dei competitori alle procedure esecutive.
A ciò si aggiunge che l’ASL, peraltro, non può neppure fallire stando il chiaro disposto dell’art. 1, comma 1 regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (come modificato dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e successivamente dal D.Lgs. 12 Settembre 2007, n. 169) secondo cui “sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici”.
In definitiva, stando all’attuale configurazione normativa, si ha un imprenditore sanitario che non può fallire per espressa previsione normativa e che - ancorché temporaneamente - gode dell’invero rilevante beneficio di non poter essere aggredito esecutivamente dai propri creditori, beneficio che, a ben vedere, rasenta il privilegio processuale: ed, infatti, è pacifico che lo strumento procedurale deve essere espressione di un dato di diritto sostanziale di cui è il completamento, sicché negare la tutela di un diritto riconosciuto a livello sostanziale attraverso meccanismi processuali si risolve fatalmente in quello che, appunto, la dottrina tende a qualificare in termini di “privilegio processuale”, locuzione, peraltro, sostanzialmente sorta proprio con riferimento a disposizioni legislative e orientamenti giurisprudenziali in materia di responsabilità della pubblica amministrazione.
Il quadro così tracciato, quindi, già entra in forte tensione con i principi della libera concorrenza che permeano l'intero ordinamento comunitario (cfr. art. 3, comma 3 TUE, il Preambolo del Trattato sul Funzionamento dell’Unione, l’art. 3 TFUE (che ricomprende la concorrenza nelle materie di competenza esclusiva della Unione); articolo 16 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (c.d. Carta di Nizza, richiamata dall’art. 6 TUE secondo cui “L'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati>>) rubricato “Libertà d'impresa” secondo cui “è riconosciuta la libertà d'impresa, conformemente al diritto dell'Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”).
La esposta criticità, infine, si rafforza ulteriormente ove si ponga mente alla circostanza del tutto peculiare per cui la ASL ha il duplice ruolo di soggetto detentore di fondi (c.d. provider) e soggetto erogatore del sevizio sanitario (c.d. producer), e che, quindi, nel contempo, si ritrova a vendere ed acquistare il servizio; configurazione, questa, che già appare anomala, atteso che secondo una logica concorrenziale più limpida, l’ente detentore dei fondi dovrebbe, appunto, limitarsi ad erogare i fondi ai vari fornitori del servizio (così come era in realtà nelle ambizioni originarie del decreto legislativo 502/1992), erogazioni dei fondi da gestire secondo le regole del mercato tradizionali. A tal fine l'Autorità Garante della Concorrenza del resto ha sottolineato come già in una situazione fisiologica tale opzione legislativa risulti meritevole di correzioni e aggiustamenti (parere Antitrust del 25.6.1998, bollettino n. 25). Distorsioni e potenziali conflitti di interessi attualmente quanto mai evidenti, laddove in piena patologia, determinata dal forte disavanzo dovuta alla stessa negligenza delle aziende sanitarie, la legge evita che l’ASL di fatto paghi i suoi concorrenti, contribuendo, così, potenzialmente a determinare crisi e difficoltà economiche ai propri diretti competitori.
Infine, non può sottacersi che l’attuale configurazione normativa (in sostanza già prevista con l’art. 2, comma 89, l. n. 191/2009, confermata dall’art. 111, d.l. n. 78/2010 conv. in l. n. 122/2010 e ulteriormente ribadito - ancorché con alcune modifiche - dall’art. 1, comma 51, l. n. 220/2010) - ove fosse confermata andrebbe, probabilmente, in contrasto con la direttiva, approvata dal Parlamento europeo il 20 ottobre 2010, e dal Consiglio dell'Unione Europea nella seduta del 24 gennaio 2011, che abroga e sostituisce la "vecchia" Direttiva 2000/35/CE ((la nuova disciplina, infatti, è stata introdotta dalla direttiva 2011/7/UE e, quindi, in epoca successiva all’art. 1, comma 51 L. n. 220/010). Se, infatti, fermo restando il principio di irretroattività, gli Stati membri dovranno adeguare di conseguenza la propria normativa interna entro il 16 marzo 2013, è, altresì, vero che, in base ai principi comunitari, nelle more gli Stati membri non possono adottare atti e/o provvedimenti che vadano contro la ratio della direttiva: in pratica, Gli Stati membri, pur non dovendo subito modificare la normativa interna, non possono neppure andare contro i principi delle nuova disciplina con nuovi provvedimenti (cfr., infatti, art. 4, par 3, del TUE secondo cui gli “In virtù del principio di leale cooperazione, l'Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell'adempimento dei compiti derivanti dai trattati. Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione. Gli Stati membri facilitano all'Unione l'adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell'Unione”).
Infine, deve anche rilevarsi che a tale ricostruzione nel senso della operatività dei principi della libera concorrenza non osta l’art. 168, par. 7, TFUE, secondo cui l’Unione “rispetta le responsabilità degli Stati membri per la definizione della politica sanitaria e l’organizzazione e la fornitura di servizi sanitari e di assistenza medica”, atteso che:
1) la disposizione riguarda la gestione della politica sanitaria e le scelte, quindi, di fondo della stessa, laddove l’art. 1, comma 51, l. n. 220/2010 ha ad oggetto tutt’altra materia vale a dire la sospensione dell’azione esecutiva e, quindi, si occupa delle modalità processuali di tutela dei crediti, non incidendo sulla politica sanitaria cioè sull’organizzazione di fondo delle prestazioni di servizi sanitari;
2) in ogni caso, l’art. 168, par. 7 TUEF si limita a non imporre un modello di assistenza sanitaria tra i tanti configurabili, ben consapevole che gli Stati membri optano, in materia, per politiche molto differenti tra loro: l’Italia, quindi, al pari di ogni Stato membro, può decidere autonomamente se adottare o meno un sistema sanitario su base pubblica di tipo tradizionalmente continentale oppure indirizzarsi verso un modello squisitamente privatistico-assicurativo di tipo statunitense oppure verso un modello fortemente competitivo tra pubblico e privato come quello inglese oppure ancora verso un modello di concorrenza temperata come quello innanzi delineato su grandi linee;
3) l’adozione di un modello sanitario di questo o quel tipo deve essere in ogni caso tale da rispettare i principi fondamentali del diritto dell’Unione, ivi compresa la libertà di impresa e la concorrenza: non potendo, certo, intendersi l’art. 168, par. 7 come norma che rende legittima una politica sanitaria tendente a pregiudicare la libertà di impresa nel settore sanitario o come clausola di esonero dal rispetto dei principi fondamentali del diritto comunitario;
4) il modello sanitario italiano, come visto, è fondato sulla tendenziale concorrenza tra pubblico e privato, che compartecipa - con finalità di lucro - alla erogazione delle prestazioni sanitarie contribuendo a fornire ai cittadini il servizio di assistenza nel suo complesso: tale rilievo, a ben vedere, assorbe ogni altro profilo, perché è chiaro che l’adozione di un modello concorrenziale - ancorché con le specificità proprie di ogni quasi-mercato - implica automaticamente il rispetto dei principi di libertà di impresa e concorrenza
5) il rispetto dei principi comunitari della libertà di impresa e di concorrenza anche nell’organizzazione e predisposizione della politica sanitaria non determina, infine, alcun rischio di pregiudicare la salute dei cittadini oppure la salute pubblica in senso ampio: la salute, infatti, è, per un verso, un bene fondamentale per lo stesso ordinamento comunitario (art. 152, 1° comma Trattato CE, art. 3 e 35 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione richiamata dall’art. 6 TUE come modificato dal trattato di Lisbona); per altro verso, soccorre la c.d. teoria dei controlimiti, in virtù del quale il giudice costituzionale si riserva comunque il potere di giudicare la compatibilità di qualunque norma del Trattato nel caso in cui essa sembri entrare in contrasto con i fondamentali principi della costituzione o i diritti inviolabili della persona umana come tutelati dall’art. 2 Cost e, per quanto qui interessa, specificamente dall’art. 32 Cost (cfr. per il richiamo alla menzionata teoria Corte Cost. 13.4.1989, n. 232, Corte Cost. 23.3.1994, n. 117). Sicché è chiaro che la concorrenza nel settore sanitario deve pur sempre essere concepita in modo tale da assicurare la realizzazione del diritto alla salute;
6) tutela della salute, predisposizione di un sistema sanitario adeguato e libera concorrenza, infine, non vanno necessariamente in contrasto, potendo, anzi, non di rado i principi della libera concorrenza favorire la creazione di un sistema più efficiente di tutela sanitaria, così come confermano anche casi giurisprudenziali (cfr. CGE Causa C-563/08, parte dispositiva: “l'art. 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che, in linea di principio, non osta ad una normativa nazionale, come quella oggetto della causa principale, che impone limiti al rilascio di licenze per nuove farmacie disponendo che:
- in ogni zona farmaceutica può essere creata un'unica farmacia, in linea di massima, per tranche di 2800 abitanti;
- può essere creata una farmacia supplementare solo quando tale soglia è oltrepassata. Tale farmacia è creata per la frazione superiore a 2 000 abitanti e, - ogni farmacia deve rispettare una distanza minima rispetto alle farmacie già esistenti. In linea di massima tale distanza è pari a 250 metri.
Tuttavia, l'art. 49 TFUE osta a siffatta normativa nazionale nei limiti in cui le norme di base dei 2 800 abitanti o dei 250 metri impediscono, nelle zone geografiche aventi caratteristiche demografiche particolari, la creazione di un numero sufficiente di farmacie in grado di garantire un servizio farmaceutico adeguato, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”).
I rilievi appena svolti rendono evidente come, oltre ad essere pregiudicato il principio della libera concorrenza per gli imprenditori sanitari privati rispetto a quello pubblico, in altra prospettiva vi sono ragionevoli dubbi circa la piena compatibilità della sospensione delle azioni esecutive con due dei principali corollari che presidiano la concreta attuazione della concorrenza: il principio della libera circolazione dei capitali e quello della libertà di stabilimento, principi la cui effettività è anche strettamente connessa alla sussistenza di una giurisdizione equa e realmente idonea ad assicurare tutela effettiva alle posizioni creditorie e, in generale, al conseguimento del bene della vita perseguito con la tutela giurisdizionale.
b) Rapporti tra l’art. 1, comma 51 l. n. 220/2010 e l’art. 6 CEDU, art. 47 Carta di Nizza, art. 111 Cost., art., 49, 63 TFUE
Non vi può essere dubbio che non può dirsi equo nè giusto un processo che non sia funzionale alla soddisfazione concreta della pretesa fatta valere in giudizio; anzi, può dirsi che l’essenza stessa della giurisdizione è proprio quella di approntare un sistema statuale idoneo a consentire al cittadino la realizzazione e conseguimento del bene della vita a cui aspira e di cui ha chiesto la tutela.
Riconoscere un diritto in sede di mera cognizione e non consentirne l’attuazione concreta è la negazione della ratio essendi della stessa giurisdizione e della ragione stessa della sua previsione ordinamentale.
In tal senso, del resto si è espressa esplicitamente la CEDU, 16 dicembre 2006, Murevic c. Croazia; 15 febbraio 2004, Romoslrov c. Ucraina, significativamente richiamata da Cass. sez. un. 28.1.2011, n. 2065 che ha riconosciuto applicabile il rimedio dell’ottemperanza anche alla decisione emessa in sede di ricorso straordinario proprio argomentando proprio sul rilievo che "secondo la giurisprudenza della CEDU, da un lato sono intangibili le decisioni finali di giustizia rese da un'autorità che non fa parte dell'ordine giudiziario, ma che siano equiparate a una decisione del giudice, e dall'altro in
ogni ordinamento nazionale si deve ammettere l'azione di esecuzione in relazione a una decisione di giustizia, quale indefettibile seconda fase della lite definita (cfr. CEDU, 16 dicembre 2006, Murevic c. Croazia; 15 febbraio 2004, Romoslrov c. Ucraina).
Allo stesso principio risponde infine l’art. 47 della Carta di Nizza (Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale: “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo”; “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale”).
In definitiva, l’art. 6 CEDU, l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, l’art. 111 Cost. esprimono il medesimo valore fondamentale, vale a dire il diritto del singolo non tanto e non solo ad avere una pronunzia giurisdizionale in tempi ragionevoli e secondo modalità e contenuti equi, ma anche e soprattutto il diritto a poter ottenere una tutela giurisdizionale che sia effettivamente rivolta e idonea a realizzare il bene della vita di cui si è chiesta la tutela giurisdizionale.
In questa prospettiva deve, altresì, essere interpretata anche la disposizione dell’art. 63 TUFE che assicura la libertà di circolazione dei capitali e dei pagamenti.
La libertà di circolazione dei capitali osta a qualsiasi disposizione nazionale che “anche se non crea una disparità di trattamento, può (...) dissuadere gli investitori di altri Stati membri dall’investire nel capitale di (...) società” (cfr. cause riunite C-163/94, C-165/94, C-250/94 sentenze 14.12.1995): è evidente che la privazione della tutela esecutiva per un periodo di due anni - cioè, in definitiva, per quanto detto, della stessa giurisdizione in quanto valore concreto e non meramente astratto - è un deterrente di sicura potenza ad investire nelle società che agiscono nel settore sanitario quanto meno nelle Regioni italiane beneficiarie della sospensione esecutiva.
La difficile compatibilità, inoltre, con la tutela dei pagamenti è ictu oculi in re ipsa, atteso che ciò di cui è privato il creditore è proprio la possibilità di ottenere il pagamento di quanto dovuto dal debitore.
L’esistenza di normative interne dissuasive all’investimento di capitali, inevitabilmente e specularmente, spiega effetto negativo anche nei confronti del principio della libertà di stabilimento ex art. 49 TUFE, che assicura ad ogni imprenditore la possibilità di insediarsi stabilmente in ciascun Stato membro senza subire limitazioni alla propria attività di impresa. Limitazioni che possono derivare, non solo, da differenziazioni di discipline tra imprenditore nazionale e comunitario, ma anche da normative interne che si applicano indistintamente a tutti gli imprenditori e che, per come concepite, siano idonee a spiegare effetto deterrente all’interesse di investire nel Paese membro non solo in capitali, ma anche insediando un proprio stabilimento (ex multis CGE Grande Sezione, 29.3.2011, C565/08: “Per quanto riguarda, poi, l’esistenza di restrizioni alla libertà di stabilimento nonché alla libera prestazione di servizi, di cui rispettivamente agli artt. 43 CE e 49 CE, da una giurisprudenza costante emerge che siffatte restrizioni sono costituite da misure che vietano, ostacolano o scoraggiano l’esercizio di tali libertà (v., in tal senso, sentenze 15 gennaio 2002, causa C439/99, Commissione/Italia, Racc. pag. I305, punto 22; 5 ottobre 2004, causa C442/02, CaixaBank France, Racc. pag. I 8961, punto 11; 30 marzo 2006, causa C451/03, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti, Racc. pag. I 2941, punto 31, e 4 dicembre 2008, causa C330/07, Jobra, Racc. pag. I 9099, punto 19)”. In particolare, la nozione di restrizione comprende le misure adottate da uno Stato membro che, per quanto indistintamente applicabili, pregiudichino l’accesso al mercato per gli operatori economici di altri Stati membri(v., in particolare, sentenze CaixaBank France, cit., punto 12, e 28 aprile 2009, causa C 518/06, Commissione/Italia, Racc. pag. I 3491, punto 64) ). Pare difficile, a questo punto, negare come la sospensione delle procedure esecutive nella Regione Campania (ma anche nelle altre Regioni a cui si applica la medesima disciplina) sia potenzialmente un elemento ostativo per le imprese sanitarie comunitarie ad insediare stabilimenti produttivi nella menzionata area geografica.
c) Rapporti tra l’art. 1, comma 51 l. n. 220/2010 e l’art. 3 Cost. sub specie del principio di ragionevolezza che impone tempi ristretti della sospensione e la predisposizione di un razionale piano di pagamenti
Deve, infine, osservarsi come problematico sia anche il profilo relativo alla stessa razionalità dell’art. 1, comma 51, l. n. 220/2010 ai sensi del giudizio di ragionevolezza da porre in essere ai sensi dell’art. 3 Cost.
Infatti, si deve ribadire che la norma non autorizza affatto le ASL a non pagare: l’inadempimento resta l’illecito sanzionato dall’art. 1218, c.c.
La norma si limita a privare - per un periodo determinato - il creditore dell’azione esecutiva, ma ciò di certo non vale a rendere lecito ciò che resta un illecito a tutti gli effetti, vale a dire la perdurante violazione del rapporto obbligatorio. L’inadempimento dell’obbligazione pecuniaria determina l’obbligo risarcitorio nella misura dell’interesse legale ai sensi dell’art. 1224, 1°comma, salva la prova del maggior danno riconosciuta dal secondo comma della disposizione codicistica. Per le c.d. transazioni commerciali, invece, scatta la disciplina più rigorosa del decreto legislativo n. 231/2002.
Chiarito tale punto, risulta evidente che il rimedio della sospensione dell’azione esecutiva, appunto perché meramente processuale e non incidente sul rapporto obbligatorio, risulta difficilmente ragionevole se non contenuto in tempi ristrettissimi e se non assistito da una rigorosa ricognizione dei debiti con contestuale previsione di un piano razionale di pagamento.
Infatti, la sospensione delle esecuzioni e il perdurante inadempimento si risolvono in un autofinanziamento posto in essere dal debitore in danno dei creditori: il debitore, anziché rivolgersi al circuito finanziario attraverso la stipula di mutui, non adempie l'obbligazione pecuniaria riservandosi successivamente di pagare la sorta capitale insoluta più gli interessi.
Nel contempo, tuttavia, è evidente che, laddove le ASL debbano gli interessi europei (cioè, ogni qual volta vi è un contratto), tale autofinanziamento risulta addirittura potenzialmente dannoso per la solidità economica dell’azienda sanitaria: infatti, l’interesse ex artt. 4 e 5 dlgsl n. 231/02 ha proprio la funzione di scoraggiare tale forma di finanziamento a spese del creditore prevedendo un tasso di interesse superiore a quello praticato dal circuito bancario e finanziario. Non si vede, quindi, perché l’ASL non debba ricorrere a tale forma ordinaria di finanziamento che sarebbe certamente meno onerosa dell’“autofinanziamento” realizzato profittando della sospensione delle azioni esecutive.
Il discorso, a ben vedere, non cambia laddove il rapporto obbligatorio tra la ASL e il creditore insoddisfatto non nasca da contratto ma da provvedimento amministrativo oppure direttamente dalla legge con conseguente inoperatività - stando almeno alla opinione prevalente - del decreto legislativo 231/2002.
Infatti, nella normalità dei casi il creditore dovrà sopperire alla mancanza di fondi determinato dall’inadempimento dell’ASL, ricorrendo a quel finanziamento a cui invece non ha fatto ricorso l’azienda sanitaria. Tale finanziamento, ovviamente, ha di norma un costo superiore al tasso di interesse legale: ne consegue che il creditore insoddisfatto potrà chiedere alla ASL ex art. 1224, 2° comma c.c. quel maggiore costo sopportato per il finanziamento a titolo di danno tutte le volte in cui potrà provare il nesso causale (il che è manifestamente agevole), vale a dire che ciò è stato determinato dal perdurante inadempimento dell’azienda sanitaria debitrice. In questo caso, quindi, il debitore dovrà restituire non solo il capitale, ma anche il maggior costo eventualmente sopportato dal creditore che in ipotesi abbia dovuto far ricorso al finanziamento tradizionale.
In definitiva:
in presenza di contratto (id est, transazioni commerciali), la perdurante mora dell’ASL espone quest'ultima ad un pagamento di interessi maggiori di quelli che avrebbe ottenuto ricorrendo al finanziamento c.d. su piazza (non a caso, parte della dottrina, visto la natura deterrente dell’interesse ex dgls 231/2002 arriva anche ad ipotizzare che tale normativa abbia introdotto una vera e propria forma di interesse punitivo);
in assenza di contratto, l’ASL - nella migliore delle ipotesi - dovrà comunque restituire il capitale più gli interessi sopportati dal creditore come costo dei finanziamenti a cui presumibilmente avrà fatto ricorso per sopperire al mancato soddisfacimento del suo credito; nella peggiore delle ipotesi, l’ASL debitrice dovrà molto di più, ove il creditore (come accade sempre più sovente nel settore sanitario) abbia dovuto far ricorso a quelle operazioni di finanziamento parabancario quali il factoring e operazioni similari che notoriamente comportano costi notevoli e superiori rispetto ai tassi di interessi praticati su piazza.
Il sistema così descritto è manifestamente irragionevole ove non abbia durata fortemente contenuta e non sia assistita da un serio piano di rientro nel disavanzo mercé il pagamento dei creditori. Ed infatti la ratio della norma è - come detto - quella di consentire alle aziende sanitarie di riorganizzarsi per reagire alla impressionante mole di azioni esecutive di cui sono state oggetto, consentendo così un riordino della contabilità e della relativa documentazione.
Si comprende, quindi, la assoluta necessità, per sostenere la (peraltro, pur sempre dubbia) razionalità della disposizione in esame, che vi siano i prefati due presupposti: in primo luogo, che la sospensione delle esecuzioni abbia durata decisamente breve, traducendosi altrimenti il tutto in un autofinanziamento forzoso che determina solo maggiori costi per le ASL e danni enormi per il sistema imprenditoriale sanitario e per la stessa qualità dell’assistenza pubblica sanitaria; in secondo luogo, si presuppone, appunto, che le ASL pongano in essere un riordino dei conti attraverso la ricognizione dei debiti e la pianificazione dei pagamenti. In assenza, quindi, di quest’ultimo elemento la norma non può trovare applicazione per la semplice ragione che essa sarebbe del tutto inutile e dannosa e, quindi, irragionevole, sicché si impone ancora una volta un’interpretazione restrittiva della disposizione e che nel contempo sia costituzionalmente orientata.
d) La ricognizione e pianificazione dei debiti e pagamenti come elemento costitutivo della fattispecie sospensiva dell’esecuzione e i conseguenti limiti processuali del Giudice dell’esecuzione in sede di assegnazione delle somme.
Una volta chiarito come la ricognizione dei debiti con contestuale previsione dei pagamenti sia atto assolutamente necessario per espressa previsione letterale della norma dell’art. 1, coma 51 L. n. 220/2010 e per coerenza con la ratio di quest’ultima, ne conseguono evidenti effetti processuali relativamente ai poteri del giudice della esecuzione in sede di assegnazione delle somme.
A ben vedere, infatti, il giudice dell'esecuzione in assenza di tale ricognizione non può sospendere la esecuzione. Ed è evidente che - stando agli ordinari principi dispostivi che regolano il processo esecutivo e quello civile in generale - il medesimo giudice non può d’ufficio acquisire alcunché, essendo onere del debitore esecutato opporsi all’esecuzione e comunque intervenire nella procedura esecutiva producendo la documentazione attestante la ricognizione e pianificazione dei debiti e dei crediti. Per le ragioni esposte, quindi, l’ordinanza di sospensione deve essere revocata, in quanto emanata in assenza del presupposto costitutivo della sospensione esecutiva.
e) Le spese processuali
L’assoluta peculiarità e novità delle questioni trattate, nonché lo svolgimento di sole due udienze e la redazione dei soli atti introduttivi, rendono conforme a giustizia la compensazione delle spese di lite.
f) La trasmissione degli atti alla Procura Regionale della Campania della Corte dei Conti (sulla trasmissione degli atti all’inquirente contabile da parte del giudice penale, civile e amministrativo, cfr., oltre all’art. 129 disp att. cpp: Cass. civ. Sez. I, 09-06-1992, n. 7078; Cons. Stato Sez. V, 23-01-2007, n. 188; Cons. Giust. Amm. Sic., 28-07-1988, n. 137; T.A.R. Sardegna, 18-07-1979, n. 246)
La trasmissione degli atti e della presente pronunzia alla Procura Regionale della Campania della Corte dei Conti discende dalle seguenti considerazioni:
1) le pendenti opposizioni e il notorio fatto della continua iscrizione di procedure monitorie, evidenziano che l’ASL NA 2 NORD perdura nella morosità, vanificando l’obiettivo di razionalizzazione e di contenimento della spesa perseguita dall’art. 1, comma 51, l. n. 220/2010, anzi andando contro la stessa ratio della disposizione, che non è quella - come detto - di autorizzare e legittimare l’inadempimento, ma, anzi, al contrario, è quella di favorire i pagamenti consentendo alle ASL di riorganizzarsi;
2) la perdurante morosità espone l’ASL NA 2 NORD al rischio quanto mai concreto di dover gli interessi di cui al decreto legislativo n. 231/2002 e di dover risarcire gli eventuali danni subiti e pretesi dai creditori insoddisfatti, rischi ancora maggiori ove si consideri che, come detto, rientra nel notorio il fatto che l’azienda sanitaria continua a non pagare anche gli altri creditori, come confermato dal continuo deposito di procedure monitorie presso la sezione distaccata di Pozzuoli del Tribunale di Napoli
3) non risulta processualmente che l’ASL NA 2 NORD abbia posto in essere alcun piano di ricognizione dei debiti e di pagamento dei crediti, riorganizzazione del debito doverosa ex art. 97 Cost. in quanto attività ordinaria di buona amministrazione e, quindi, a prescindere da quanto previsto in relazione al Commissario ad acta: anzi, a ben vedere, la generica delibera del Commissario ad acta avrebbe potuto trovare integrazione proprio con l'eventuale predisposizione e produzione in giudizio di una ricognizione e pianificazione dei debiti e pagamenti posta in essere dalla medesima ASL NA 2 NORD
4) la stessa contumacia della ASL NA 2 NORD indubbiamente è degna di rilievo, atteso che essa - pur costituendo in astratto una legittima e fisiologica scelta processuale - invero risulta degna di specifico approfondimento vista la peculiarità del contesto, ove l’azienda avrebbe avuto tutto l’interesse a produrre il piano di ricognizione e pianificazione dei debiti e crediti ove esistente o comunque svolgere le difese ritenute opportune.
P.Q.M.
Il Tribunale di Napoli, sez. civ. dist. di Pozzuoli, definitivamente pronunziando, così provvede:
a) accoglie le riunite opposizioni e, per l’effetto, revoca le ordinanze dell’14.3.2011 (proc. es. n. 659/2010) e del 4.4.2011 (proc. es. n. 552/2009) emesse dal Giudice dell’esecuzione
b) fissa per la riassunzione dei processi esecutivi n. 552/2009 e n. 659/2010 e fissa il termine di 90 giorni dal passaggio in giudicato della presente pronunzia
c) compensa le spese di giudizio tra le parti
d) dispone - a cura della Cancelleria - la immediata trasmissione alla Procura Regionale della Campania della Corte dei Conti di copia autentica della presente sentenza e del fascicolo d’ufficio.
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