Il passaggio di risorse infragruppo ed il reato di bancarotta fraudolenta
Cassazione penale - Sezione quinta, Sentenza 15 luglio - 22 ottobre 2008, n. 39546
Avv. Antonella Pedone
di Guidonia Montecelio, RM
Letto 4751 volte dal 18/06/2009
In materia di reati fallimentari la Cassazione ha affermato con la sentenza n. 39546/08 che il trasferimento di risorse infragruppo integra il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione. In tal modo la suprema Corte ha respinto la teoria dei vantaggi compensativi, precisando che il passaggio di risorse da una società in difficoltà a un’altra che versa in cattive acque non sfugge alla condanna per bancarotta, neppure quando le due società appartengono allo st
In materia di reati fallimentari la Cassazione ha affermato con la sentenza n. 39546/08 che il trasferimento di risorse infragruppo integra il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione.
In tal modo la suprema Corte ha respinto la teoria dei vantaggi compensativi, precisando che il passaggio di risorse da una società in difficoltà a un’altra che versa in cattive acque non sfugge alla condanna per bancarotta, neppure quando le due società appartengono allo stesso gruppo. Secondo la suprema Corte anche dopo la riforma del diritto societario il passaggio di risorse infragruppo, soprattutto se effettuato a vantaggio di una impresa in crisi, non è mai consentito: si tratterebbe di bancarotta patrimoniale perché le società sono persone giuridiche diverse.
Si riporta il testo della sentenza.Cassazione penale - Sezione quinta
sentenza 15 luglio - 22 ottobre 2008, n. 39546
Presidente Marasca - Relatore Savani
Svolgimento del processo
S.L. e B.G. sono stati imputati del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale aggravata nella loro rispettiva qualità di titolare e di amministratore di fatto della ditta individuale S., dichiarata fallita dal Tribunale di Padova il 12.5.1997, per avere, nel 1993, distratto dalla ditta fallita la somma di lire 3 miliardi utilizzata per l'aumento di capitale della s.p.a. I. di cui la S. era socia ed il B.amministratore.
Il Tribunale di Padova ha dichiarato gli imputati colpevoli del delitto loro ascritto e con attenuanti generiche ritenute prevalenti sull'aggravante li ha condannati alle pene ritenute di giustizia.
La Corte d'Appello di Venezia ha riformato la sentenza del primo giudice solo in relazione alla misura della pena inflitta al B., confermando nel resto la decisione del primo giudice.
Ricorre il B. per cassazione chiedendo l'annullamento della sentenza di merito e deduce con unico articolato motivo violazione di legge ed in particolare degli artt. 216 e 223 L. Fall., in relazione all'art. 606 1° comma lett. b) C.P.P..
Sostiene il ricorrente che l'operazione secondo la quale nel 1993 la ditta individuale successivamente fallita aveva ceduto ad una società di leasing per un corrispettivo di oltre lire tre miliardi tutti i suoi beni, poi locati alla I. per la sua attività produttiva, e che aveva determinato la S., a finanziare un aumento di capitale della s.p.a. già in difficoltà con la somma di lire tre miliardi, non era stata attuata, nelle intenzioni del ricorrente, come attività di spoliazione e di sacrificio della ditta individuale a vantaggio della società, ma al contrario come autofinanziamento della stessa attraverso il versamento dei canoni di leasing per il riacquisto dei beni ceduti dalla ditta individuale, tenuto conto che il fallimento era intervenuto poi 4 anni dopo l'operazione.
Alternativamente l'operazione potrebbe essere vista come grave imprudenza per ritardare il fallimento rilevante ex art. 217 L. Fall..
Osserva poi il ricorrente che in tema di bancarotta infragruppo rileverebbe il nuovo disposto dell'art. 223 L. Fall., in relazione all'art. 2634 c.c. così che chiave di volta del sistema diventerebbe l'interesse del gruppo di società per individuare quel corrispettivo delle operazioni infragruppo che toglierebbe dall'area della bancarotta fraudolenta la concreta operazione posta in essere. Così se l'operazione di cui si tratta fosse stata compensata da vantaggi conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo non si potrebbe ritenere integrato il delitto per cui s'è proceduto.
Motivi della decisione
Il ricorso non è fondato e deve essere respinto.
L'operazione oggetto del capo di imputazione ricostruita dalle sentenze di merito era consistita nella cessione della maggioranza dei propri beni strumentali per un corrispettivo di oltre lire 3 miliardi da parte della ditta S. ad una società di leasing la quale aveva a sua volta ceduto tali beni alla I. con contratto di locazione finanziaria.
Nel capo di imputazione è stata poi contestata l'operazione di investimento della somma di lire 3.000.000.000 da parte della S. nella partecipazione all'aumento di capitale della I., nel tentativo di risollevare le condizioni di quella società, che si trovava in difficoltà economica.
I giudici del merito hanno evidenziato come anche la ditta S. all'epoca non si trovasse in condizioni economiche tali da giustificare un'operazione del tutto al di fuori dell'attività produttiva dell'impresa che, privatala dei suoi beni strumentali, l'aveva anche depauperata sotto il profilo finanziario, per l'investimento effettuato con il concorso nell'aumento del capitale dell'altra società.
Tutto il complesso dell'operazione viene attribuito anche al B., a cagione della sua non contestata posizione di amministratore di fatto della impresa individuale, intestata all'allora sua moglie S.; il ricorrente, in linea di fatto, evidenzia che l'operazione complessiva sarebbe stata da inquadrare in quei trasferimenti di risorse all'interno di un gruppo di imprese che, alla luce del nuovo testo dell'art. 2634 c.c., non comporterebbero l'ingiustizia del profitto quando si fossero verificati dei ritorni di utilità o degli interessi compensativi a favore del soggetto economico apparentemente depauperato. Peraltro non è dato riscontrare, da quanto emerge dai provvedimenti di merito, e non è dato comprenderlo neppure dalle affermazioni del ricorrente, quali potessero essere stati i ritorni di utilità o gli interessi compensativi per l'impresa individuale di S..
Sostiene il ricorrente che l'art. 2634 c.c. circoscrive la sanzione penale solo a quegli atti di infedeltà posti in essere in una situazione di conflitto di interessi ed a seguito dei quali non si determinino a vantaggio della società asseritamente depauperata dei ritorni di utilità o interessi compensativi che ne escludano la illegittimità.
La giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto, sia in epoca precedente alla riforma del diritto societario sia successivamente all'introduzione delle nuove norme, che il trasferimento di risorse infragruppo, ovvero tra società appartenenti allo stesso gruppo imprenditoriale, specialmente quando venga effettuato a vantaggio di una società già in difficoltà economiche, non è consentito e deve essere qualificato come vera e propria distrazione ai sensi e per gli effetti previsti dalla L. Fall., art. 216., sul rilievo che le società, pur appartenendo allo stesso gruppo, sono persone giuridiche diverse e, pertanto, i creditori della società depauperata mai potrebbero rivalersi dei loro crediti inseguendo i beni ceduti da una società ad una altra dotata, ovviamente, di una autonoma personalità giuridica, posto che la garanzia dei creditori è data proprio dal patrimonio sociale, che viene depauperato allorché vengano effettuati trasferimenti di beni ad altra società, con conseguente diminuzione della garanzia.
È stato rilevato che l'introduzione nel nostro ordinamento della norma di cui all'art. 2634, co. 3, c.c., non permette di affermare che la presenza di un gruppo societario legittimi per ciò solo qualsiasi condotta di asservimento di una società all'interesse delle altre società del gruppo. Anche dopo la riforma, infatti, l'autonomia soggettiva e patrimoniale che contraddistingue ogni singola società impone all'amministratore di perseguire prioritariamente l'interesse della specifica società a cui egli è preposto, non essendogli consentito di sacrificare l'interesse in nome di un diverso interesse anche se riconducibile a quello di chi è collocato al vertice del gruppo e che non procurerebbe riflesso alcuno a favore dei terzi creditori dell'organismo impoverito (vedi Cass. Civ., Sez. 1ª, 24 agosto 2004 n. 16707; Cass., Sez. 5ª, penale 22 febbraio 2007 - 15 marzo 2007, n. 11019, ).
Sono del resto diversi gli interessi tutelati rispettivamente dalla L. Fall., art. 216, destinato a tutelare i creditori sociali, e dall'art. 2634 c.c., destinato a tutelare il patrimonio sociale; e questa diversità di oggetti giuridici spiega anche perché la seconda fattispecie sia punibile a titolo di bancarotta solo quando abbia determinato il dissesto, che finisce per incidere sulle ragioni dei creditori.
È stato ritenuto dalla giurisprudenza della Corte (Sez. 5ª, sent. n. 6140 del 16/01/2007 ; Sez. 5ª, sent. n. 13110 del 2008 05/03/2008 ) che la condotta di bancarotta patrimoniale per distrazione, prevista dalla L. Fall., art. 216, che esige una finalità di danno per i creditori, è in rapporto di specialità reciproca con quella di infedeltà patrimoniale, prevista dall'art. 2634 c.c. che presuppone un conflitto di interessi cui consegua un danno per la società ed esige una finalità di ingiusto profitto per l'agente o di vantaggio per i terzi (Cass., sez. 2, 26 ottobre 2005, Francis, m. 232525, con riferimento al rapporto tra infedeltà patrimoniale e appropriazione indebita). In realtà è possibile non solo un'attività distratti va che non integri l'infedeltà patrimoniale, per mancanza di conflitto di interessi, ma anche un'infedeltà patrimoniale che non integri distrazione, come ad esempio la stipulazione, in situazione di conflitto di interessi, di un appalto di servizi oneroso. La L. Fall., art. 223, d'altro canto, prevede innanzitutto, al comma 1, che gli amministratori di società dichiarate fallite rispondano dei fatti di bancarotta previsti dalla L. Fall., art. 216, inclusa la distrazione; e aggiunge poi, al comma 2, che rispondono a titolo di bancarotta anche gli amministratori che abbiano cagionato il dissesto della società commettendo alcuni fatti, tra i quali quello previsto dall'art. 2634 c.c.. Il ricorrente mette in risalto la situazione della ditta individuale e tende a proporla come una sorta di reparto società di capitali per evidenziare come l'interesse che veniva perseguito nell'operazione di cui si tratta fosse quello generale dell'impresa gestita dal B. ed osserva come al momento dell'operazione, precedente di alcuni anni il fallimento, vi fosse una fondata previsione di risultato favorevole della stessa per le sorti della I. e che quindi non si trattasse di operazione da ricollegare al successivo dissesto e da potersi ascrivere al prevenuto a titolo di bancarotta.
Omette peraltro di rammentare il ricorrente che, quale che fosse l'assetto operativo della produzione aziendale, era stata fatta la scelta, per ragioni di convenienza che vengono ben sottolineate dai giudici del merito, di operare per mezzo di due soggetti giuridici distinti a cui facevano capo per quel che interessa differenti sistemi di rapporti di credito e debito che ciascuno dei due soggetti doveva garantire con il proprio patrimonio.
Anche la considerazione della possibilità di formulare, al momento, nonostante la suddivisione dei soggetti economici, una prognosi fausta dell'operazione - nel senso che ne avrebbero potuto trarre benefici entrambe le imprese, con conseguente beneficio anche per i rispettivi creditori - e che in tale situazione non si sarebbero potuti ravvisare, alla luce del nuovo diritto societario, gli estremi per considerare quell'operazione come distrattiva, cede di fronte al rilievo che quando si tratta di trasferimento di beni da una società già in difficoltà economica ad altra società che versi in analoghe difficoltà l'operazione di trasferimento di risorse non può che essere considerata distrattiva, in quanto, come ritiene la giurisprudenza di questa Corte, non sarebbe fondatamente ipotizzabile alcuna prognosi positiva. Come sopra osservato, dalle decisioni dei giudici del merito emerge che entrambe le imprese si trovavano in difficoltà all'epoca per una negativa congiuntura commerciale, così che non ha alcuna rilevanza per escludere la fattispecie distrattiva la considerazione dell'auspicato esito positivo dell'intera operazione.
Neppure rileva che la stessa si sia verificata a distanza di tempo dalla dichiarazione di fallimento dell'impresa individuale S., se si considera che (cfr. Sez. 5, sent. n. 13110 del 5/3/2008,) la giurisprudenza di questa Corte, formatasi sulla base di un'attenta interpretazione della norma incriminatrice, si è da tempo orientata, ed in maniera sempre più costante (Sez. 5, 22 aprile 1998,; Sez. 5, 22 giugno 1990; Sez. 5, 14 aprile 1987,), nell'affermare che nel reato di bancarotta fraudolenta (L. Fall., art. 216) i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualunque tempo essi siano stati commessi, e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l'impresa non versava in condizioni di insolvenza. Tutte le ipotesi alternative previste dalla norma si realizzano mediante condotte che determinano una diminuzione del patrimonio, diminuzione pregiudizievole per i creditori: per nessuna di queste ipotesi la legge richiede un nesso causale o psichico tra la condotta dell'autore e il dissesto dell'impresa, sicché né la previsione dell'insolvenza come effetto necessario, possibile o probabile, dell'atto dispositivo, né la percezione della sua preesistenza nel momento del compimento dell'atto, possono essere condizioni essenziali ai fini dell'antigiuridicità penale della condotta. E del resto, quando il legislatore ha ritenuto necessaria l'esistenza di un tal nesso lo ha previsto espressamente nell'ambito della L. Fall., art. 223, distinguendo le condotte previste dalla L. Fall., art. 216 (L. Fall., art. 223, comma 1) da quelle specificamente volte a cagionare il dissesto economico della società (L. Fall., art. 223, comma 2), per modo che solo in tali ultime fattispecie delittuose è previsto un nesso causale o psichico tra condotta ed evento.
Resta da osservare, con riferimento alla qualificazione del fatto come operazione imprudente per evitare il fallimento proposta dal ricorrente, che ha ritenuto il ricorrere al più di un'ipotesi di bancarotta semplice estinta per intervenuta prescrizione, che oggetto del procedimento è l'operazione riferibile all'impresa individuale S., e non alla società di capitali I., per evitare il fallimento della quale nella prospettazione del ricorrente sarebbe stata realizzata l'operazione da lui giudicata imprudente, che è stata invece addebitata, con l'imputazione di bancarotta fraudolenta, alla titolare ed all'amministratore di fatto della impresa individuale fallita per aver portato al suo depauperamento, non essendo stata compiuta imprudentemente, per evitare il fallimento della medesima, ma nell'esclusivo interesse della società di capitali.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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