False comunicazioni sociali: la rilevanza delle soglie di punibilità nella fase dell’esecuzione della pena
Corte di Cassazione, sezione v penale, sentenza n. 38110 del 7 ottobre 2003
Avv. Antonella Pedone
di Guidonia Montecelio, RM
Letto 2873 volte dal 18/06/2009
La Corte di Cassazione, in un caso riguardante il reato di false comunicazioni sociali, ha statuito che nel caso di abrogazione di una norma incriminatrice non è consentito al giudice dell'esecuzione la completa rivisitazione del giudizio di merito, nè l'esecuzione di accertamenti ulteriori, al fine di stabilire se il fatto per il quale era stata pronunciata condanna costituisca o meno reato, ma deve limitarsi ad interpretare il giudicato e, quindi, ad accertare se nella conte
La Corte di Cassazione, in un caso riguardante il reato di false comunicazioni sociali, ha statuito che nel caso di abrogazione di una norma incriminatrice non è consentito al giudice dell'esecuzione la completa rivisitazione del giudizio di merito, nè l'esecuzione di accertamenti ulteriori, al fine di stabilire se il fatto per il quale era stata pronunciata condanna costituisca o meno reato, ma deve limitarsi ad interpretare il giudicato e, quindi, ad accertare se nella contestazione fatta all'imputato risultino anche tutti gli elementi costituenti la nuova categoria dell'illecito.
Si riporta il testo integrale della sentenza.Corte di Cassazione, sezione v penale
sentenza n. 38110 del 7 ottobre 2003 RITENUTO IN FATTOIl tribunale di Ravenna, con decreto del 25/5/2002, in parziale accoglimento delle istanze avanzate nell'incidente di esecuzione promosso nell'interesse di S. C. e G. G. M., ai sensi degli artt. 673 e 669 cpp., a seguito dell'entrata in vigore del d.lg. n. 61 del 2002, disponeva la revoca delle sentenze di condanna riguardanti i capi 1) del processo Enimont per entrambi i condannati, 48) del processo Montedison, per entrambi i condannati, 33 b), c), d) e); 52 b), c), e); 76 b), d), e), f); 83), 84) e 85), ascritti ad entrambi gli imputati, nonché il capo 89), ascritto al solo S. del processo Ferruzzi.
Pertanto rideterminava la pena residua per S. C. in anni due, mesi nove e giorni 18 di reclusione e lire 24.166.000 di multa e per G. G. M., in anni due, mesi nove e giorni 19 di reclusione e lire 20.666.000 di multa.
Ricorre per cassazione il P.M. presso il tribunale di Ravenna, prospettando l'erronea applicazione dell'art 673 cpp.
Precisava il ricorrente che il tribunale aveva provveduto alla revoca parziale delle sentenze indicate, relativamente a tutti i capi ove era contestato il reato di falso in bilancio di cui all'art. 2621 c.c., nel testo originario.
Correttamente il tribunale aveva riconosciuto continuità normativa tra la vecchia e nuova normativa che, all'unica fattispecie di cui all'art. 2621, aveva ora sostituito le due ipotesi di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c.; aveva richiamato le soglie di punibilità introdotte dalla nuova normativa.
Tuttavia, secondo il ricorrente, il tribunale aveva errato nell'utilizzare i poteri di cui all'art. 673 cpp., ritenendo che il collegio aveva solo il potere di esaminare la contestazione elevata prescindendo dall'esame degli atti processuali, per cui, non essendo state contestate le soglie di punibilità, che quindi non risultavano accertate nella loro effettiva sussistenza, non avrebbe potuto disporre la revoca delle sentenze di condanna sul punto.
Secondo il P.M. ricorrente, infatti, il tribunale nell'applicazione dell'articolo 673, che disciplina la revoca della sentenza per l'abolizione dei reato (richiamando quanto avvenuto a seguito dell'abrogazione del reato di uso personale di sostanze stupefacenti) deve esaminare la sentenza e la sua motivazione, per cui, ove gli elementi di fatto esaminati siano inidonei a delineare la condotta lecita o illecita a confronto del parametro normativo abolito, il giudice deve procedere all'esame degli atti processuali per accertare la consistenza della condotta, fatto salvo ogni apprezzamento di merito con il precedente giudicato.
Nel caso di specie, non vi era traccia nelle sentenze né nelle motivazioni delle soglie di punibilità relative ai fatti contestati, trattandosi di elementi non contenuti nella precedente norma del 2621 c.c., essendo le sentenze passate in giudicato prima dell'entrata in vigore del decreto n. 61/2002, per cui, per stabilire se le soglie di punibilità ora previste erano state superate, occorreva procedere all'esame degli atti (bilanci).
Concludeva per l'annullamento con rinvio.
Con distinti atti, di identico contenuto sostanziale, ricorrono i difensori di S. e G..
Si afferma, con riguardo al ricorso dei P.M., che era stato censurato esclusivamente il concreto esercizio dei poteri istruttori del tribunale con riguardo alle soglie di rilevanza delle false comunicazioni, in quanto non erano stati effettuati accertamenti ex novo, mai compiuti nei procedimenti di merito, sulle soglie di rilevanza.
Avendo il tribunale applicato l'art 2 comma 2 c.p., esso non aveva, in sede esecutiva, alcun potere di compiere accertamenti relativi a fatti mai contestati e attinenti ai profili qualificanti le nuove fattispecie. Infatti applicando l'art. 673 si afferma che vi è stata una abolitio criminis, per cui trova applicazione la giurisprudenza delle Sezioni Unite, secondo le quali, in tal caso, non è consentito al giudice dell'esecuzione, modificare l'originaria imputazione ovvero di accertare il fatto in modo difforme da quanto ritenuto nella sentenza passata in giudicato.
Quindi, poiché nella specie, si é ammessa !a contemporanea applicazione degli artt 2 comma 2 c.p. e 673 cpp. di una ipotesi di abolitio criminis (anche se con motivazione erronea) e, poiché, non v'è alcuna impugnazione sul punto, ne consegue che é cosa giudicata l'annullamento delle sentenze che non abbiano accertato il superamento delle soglie di punibilità oggi rilevanti.
Sul fatto che tutte le sentenze revocate dal tribunale di Ravenna non contenessero quegli accertamenti non é stata sollevata alcuna questione.
Nel merito, i ricorrenti prospettano vari motivi di annullamento.
Con il primo motivo, deducano l'erronea applicazione della disciplina della continuazione in sede esecutiva, con riguardo all'individuazione del reato più grave, conseguente al provvedimento ex art. 673 cpp., di revoca della sentenza per abolizione di reato.
Il tribunale,dopo avere revocato le sentenze di condanna relative all'art. 2621 c.c., previgente, ha provveduto a rideterminare la pena. Tutte le condanne nei tre processi, Enimont, Montedison e Ferruzzi e i gruppi di reati tra loro, erano stati ritenuti legati dalla continuazione.
Il reato più grave era stato ritenuto il delitto di false comunicazioni sociali (capo 1 Enimont), per cui revocato il relativo capo, occorreva procedere alla rideterminazione della pena, previa una nuova individuazione del reato ritenuto più grave.
Erroneamente e in modo apodittico, il tribunale ha ritenuto ora reato più grave una condanna relativa alla violazione dell'art. 2621, n. 2 c.c. (illegale ripartizione di utili) e di cui all'imputazione 33 F) del processo Ferruzzi, per il quale era stata applicata la pena, in continuazione e in sede di patteggiamento, di gg. 3 di reclusione e lire 190.000 di multa, pur in presenza di altri reati per i quali era stata irrogata una pena più grave.
A tale reato meno grave è stata applicata, poi, la stessa pena che era stata applicata al reato più grave, la cui condanna era stata revocata.
In tal modo, si è violato l'art. 187 disp. att. cpp. secondo il quale, in caso di applicazione del reato continuato da parte del giudice dell'esecuzione, si considera violazione più grave, quella per la quale è stata applicata la pena più grave, precludendo in tal modo che il giudice dell'esecuzione abbia alcuna discrezionalità nell'individuare il reato più grave.
Con il secondo motivo, si contesta che, una volta considerato come reato più grave un reato meno grave, come ritenuto dai precedenti giudicati, si è applicata a quest'ultimo la medesima pena del reato ritenuta originariamente (e revocata) più grave, di anni uno e mesi quattro di reclusione e lire 10.666.000 di multa.
In tal modo, non solo non ha applicato una pena che avrebbe dovuto essere congruamente diminuita, ma l'ha fatto senza alcuna motivazione e senza tener conto che il reato di cui al capo 33 F) Ferruzzi è oggi un reato contravvenzionale ed è punito dall'art. 2627 c.c. (illegale ripartizione degli utili), con la pena dell'arresto fino ad un anno.
Va anche ricordato che gli imputati, per il capo 33 F), avevano patteggiato la pena, mentre gli altri imputati che non avevano scelto tale rito erano stati assolti perché il fatto non sussiste (V. capo 44 C).
Lamentano ancora i ricorrenti la violazione del divieto di reformatio in pejus (art. 671.2 cpp.), al reato erroneamente ritenuto più grave (capo 33 F), una pena base di anni uno e mesi quattro di reclusione e lire 10.666.000 di multa, superando di oltre un anno e due mesi di reclusione la pena complessiva irrogata con la sentenza ex art. 444 cpp., dei tribunale di Ravenna 27/1/2001, che conteneva per tale reato la pena di giorni tre di reclusione e lire 190.000 di multa e complessivamente la pena di mesi due di reclusione e lire 1.000.000 di multa.
In tal modo, è stato violato l'art. 671 comma 2 cpp., secondo il quale, il giudice, nell'applicare in esecuzione la pena per il reato continuato la deve determinare in misura non superiore alla somma delle pene inflitte con ciascuna sentenza.
Infatti, ha applicato ad un solo reato (capo 33 F), una pena superiore di anni uno e mesi due di reclusione alla pena complessiva che era stata fissata con sentenza passata in giudicato (27/1/2001), che aveva irrogato per venti reati in continuazione, compreso quello di cui al capo 33 F, la pena complessiva di mesi due e giorni 7 di reclusione e lire 5.000.000 di multa.
In ogni caso, il giudice dell'esecuzione, nell'applicare la pena per il reato continuato, deve determinarla in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza (art. 671 comma 2 cpp.).
Con il quarto motivo, si deduce la violazione di legge (artt. 2 comma 2 c.p. e 673 cpp), con riguardo all'omessa revoca delle sentenze relative alla condanna per appropriazione indebita (art. 646 c.p.), riguardanti fatti commessi in vista di un profitto non "ingiusto", in quanto "compensato da vantaggi conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo" (art. 2634 comma 3 c.c., novellato) e illogicità sul punto della motivazione.
Infine con l'ultimo motivo si deduce l'inosservanza degli artt. 649 e 669 cpp , per l'omesso accertamento dell'avvenuta violazione del ne bis in idem processuale, con riferimento alle sentenze di cui ai capi 49 ) del processo Montedison (duplicazione limitatamente alla appropriazione della somma di lire 8.000.000 con la condotta di cui al n. 26 dei processo Enimont) e 77) e 100) del processo Ferruzzi (che riproducono le imputazioni di cui ai nn. 52 e 53 del processo Montedison), nonché illogicità della motivazione sul punto.
Con atto del 18/6/2003, il difensore degli imputati, munito di procura speciale, rinunciava al 1°, 2° e 3° motivo di ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il P.M. presso il tribunale di Ravenna lamenta l'erronea applicazione dell'art. 673 cpp., in quanto il predetto tribunale in funzione di giudice dell'esecuzione, con decreto in data 15/5/2002, aveva parzialmente revocato le sentenze di condanna della Corte di Appello di Milano n. 2482 del giugno 1997, di applicazione pena del tribunale di Milano n. 757/01 (per S.) e n. 761/01 (per G.) del 23/1/2001 e di applicazione pena del tribunale di Ravenna del 26/1/\2001, n. 65/01, riguardanti tutti i capi di imputazione in cui era contestato l'originario reato di cui all'art. 2621 c.c., non risultando le soglie di punibilità, rideterminando la pena.
Secondo il P.M. ricorrente, invece, il giudice dell'esecuzione ex art. 673 cpp., avrebbe dovuto procedere all'esame degli atti processuali per accertare l'effettiva consistenza delle condotte imputate, stabilendo se le soglie di punibilità fossero state o meno superate, attraverso l'esame degli atti e, in particolare, dei bilanci.
Il ricorso non merita accoglimento e va rigettato.
Come già ritenuto, nella specie, si verte in una ipotesi di abrogazione parziale dell'art. 2621 c.c., per cui una condanna per un fatto precedentemente commesso, può essere pronunciata ricorrendo tutti gli elementi richiesti dalla nuova normativa e sempre che abbiano formato oggetto di un accertamento rispetto al quale l'interessato abbia potuto difendersi.
Secondo le Sezioni Unite di questa Corte (sent. 25887/03, Giordano), occorre tener conto del momento di giudizio in cui interviene la successione di norme, per cui la diversità del momento processuale può portare ad applicazioni diverse. Infatti, poiché nel caso di abolizione parziale di una norma la nuova fattispecie risulta confermativa della precedente nei limiti in cui tra le due sussiste coincidenza, occorre procedere ad un accertamento al fine di stabilire se l'originaria condotta contestata contenga o meno tutti gli elementi nuovi richiesti.
Ai sensi dell'art. 673 comma 1 c.p.p. al giudice dell'esecuzione, nel caso di abrogazione (nella specie solo parziale) di una norma incriminatrice, non è consentita la completa rivisitazione del giudizio di merito o meglio ancora l'esecuzione di accertamenti ulteriori, al fine di stabilire se il fatto per il quale era stata pronunciata condanna costituisca o meno reato, ma deve limitarsi ad interpretare il giudicato e, quindi, ad accertare se nella contestazione fatta all'imputato risultano anche tutti gli elementi costituenti la nuova categoria dell'illecito. Un diverso procedere comporterebbe quasi che si tratti di un giudizio di impugnazione il riesame del giudizio di merito, consentendo al giudice dell'esecuzione di modificare l'originaria imputazione o di accertare il fatto reato, difformemente da quanto ritenuto dalla sentenza passata in giudicato.
A seguito dell'intervenuta rinuncia, i motivi nn. 1 °, 2° e 3° del ricorso di S. C. e G. G. M., vanno dichiarati inammissibili.
Il motivo di ricorso con il quale i ricorrenti imputati instavano, anche, per la revoca delle sentenze di condanna per il delitto di appropriazione indebita a loro addebitata nella veste di amministratori, in quanto le somme delle quali si riteneva l'appropriazione, erano state destinate o trattenute in vista di vantaggi economici dello stesso gruppo, così come disposto dalla nuova disciplina dell'art. 2634 comma 3 c.c., come novellato dal d.lg.. n.61/2002, estensibile anche ai fatti di appropriazione indebita commessa da amministratori di società, è infondato.
Infatti non può, certamente, affermarsi che sia intervenuta una depenalizzazione dei fatti appropriativi (coperti, peraltro, da giudicato) a seguito della nuova previsione di cui all'art. 2634 c.c., che al terzo comma qualifica come "non ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato con vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo".
L'articolo 2634 c.c. (infedeltà patrimoniale), regolamenta ora sia situazioni di conflitto di interessi (di cui all'abrogato 2631 c.c.) sia condotte non tipizzate di abuso di gestione.
Quindi, l'introduzione della figura dell'infedeltà patrimoniale costituisce una norma speciale rispetto all'appropriazione indebita ordinaria di cui all'art. 646 c.p., che proprio per la sua natura generica è inidonea a tutelare di per sé il patrimonio societario, dagli abusi degli amministratori (ed ora anche dei direttori generali e liquidatori).
Infatti, le fattispecie sono completamente diverse: mentre prima la condotta presa in considerazione puniva, in presenza di un interesse dell'amministratore in conflitto con quello della società, la mancata astensione alle delibere relative, l'art. 2634 c.c., pur recuperando la preesistente situazione di conflittualità, colpisce ora il compimento di atti di disposizione patrimoniale.
Anteriormente alla novella, la punibilità del delitto era legata alla sussistenza del mero conflitto di interessi, ora, ad esso deve aggiungersi il comportamento attivo costituito da atti di disposizione patrimoniale sui beni della società, ai quali deve altresì accompagnarsi, quale evento necessario, il danno agli stessi (nella vecchia disciplina esso costituiva un evento solo eventuale, al quale si accompagnava un aggravamento della pena).
Trattasi, quindi, di norma che si caratterizza per la sua specialità e che contiene elementi qualificanti rispetto all'ordinaria appropriazione indebita di cui all'art. 646 c. p..
Nella specie, poi, non risulta nemmeno contestato l'eventuale conflitto di interessi con le società amministrate dagli imputati, né risulta provata l'affermata inesistenza dell'ingiustizia del profitto e di cui al terzo comma dell'art. 2634 c.c..
Diversamente da quanto affermato dai ricorrenti, non è sufficiente che il profitto avuto di mira, non possa ritenersi ingiusto se astrattamente funzionale a prevedibili vantaggi del gruppo nel quale la società si inserisce: il fatto appropriativo (nella specie, illecito finanziamento ai partiti politici) non sarebbe configurabile come un reato contro il patrimonio sociale, in quanto collegato a vantaggi ricavabili dal gruppo.
Ora, a prescindere dalla circostanza che i processi Montedison e Ferruzzi si sono conclusi con il patteggiamento e che in quello Enimont, risulta escluso, in punto di fatto, che le somme delle quali gli imputati si sono appropriati siano state destinate ai politici: presupposto del reato, pacificamente, è il conflitto tra gli interessi del singolo e quelli della società, mentre le disposizioni patrimoniali effettuate in mancanza e non precedute da alcun atto deliberativo, individuano situazioni connotate da maggiore gravità; tuttavia, le appropriazioni avvenute in danno delle singole società, ma nell'interesse del gruppo complessivamente inteso, non scriminano certamente la posizione degli imputati.
La disposizione del terzo comma dell'articolo 2634 c.c., infatti, trova applicazione in presenza di concreti vantaggi compensativi dell'appropriazione e del conseguente danno provocato alle singole società, non essendo sufficiente la mera speranza, ma che i vantaggi corrispondenti, compensativi della ricchezza perduta siano "conseguiti" o "prevedibili" "fondatamente" e, cioè, basati su elementi sicuri, pressoché certi e non meramente aleatori o costituenti una semplice aspettativa: deve trattarsi, quindi, di una previsione di sostanziale certezza.
L'ultimo motivo di ricorso, con il quale si lamenta la violazione del ne bis in idem, con riguardo al capo 49 della sentenza relativa al processo Montedison e nn. 77 e 100 del processo Ferruzzi, non è specifico.
A fronte della motivazione del tribunale di Ravenna che aveva evidenziato come la lamentata duplicazione fosse generica, mentre vi era una complessa e dettagliata articolazione dei fatti imputati e come fosse stata contestata una somma ben maggiore (capo 49),mentre, tenuto conto dei fatti appropriativi così come contestati, non era possibile alcuna sovrapposizione, tenuto conto delle specifiche articolazioni delle imputazioni, i ricorrenti, a parte una generica affermazione , si riservavano di censurare la motivazione della sentenza con una successiva (non presentata) memoria difensiva.
PER QUESTI MOTIVI
Rigetta i ricorsi del P.M., nonché quelli di S. C. e di G. G. M., che condanna, in solido, al pagamento delle spese del procedimento.
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