La responsabilità degli amministratori senza delega
Cass. pen. Sez. V, (ud. 04-05-2007) 19-06-2007, n. 23838
Avv. Antonella Pedone
di Guidonia Montecelio, RM
Letto 5507 volte dal 18/06/2009
La Cassazione si è pronunciata sul tema della responsabilità degli amministratori senza delega per i reati commessi nella società. Affinchè l’amministratore non esecutivo possa essere ritenuto responsabile dei reati commessi nell’ambito della società è necessario lo stesso abbia avuto rappresentazione del fatto pregiudizievole non impedito. Soltanto la reale conoscenza del fatto pregiudizievole determina il dovere per l’amministr
La Cassazione si è pronunciata sul tema della responsabilità degli amministratori senza delega per i reati commessi nella società.
Affinchè l’amministratore non esecutivo possa essere ritenuto responsabile dei reati commessi nell’ambito della società è necessario lo stesso abbia avuto rappresentazione del fatto pregiudizievole non impedito. Soltanto la reale conoscenza del fatto pregiudizievole determina il dovere per l’amministratore di impedire l’evento. In assenza di tale effettiva conoscenza non sorge l’obbligo di impedimento e non vi è dolo in capo all’amministratore.
La Corte precisa che non può assumersi che l`unico canale di conoscenza dell`amministratore, rilevante ai fini della responsabilità penale, si riduca all`informazione resa in seno al consiglio d`amministrazione o al solo ambito societario.
Ai fini del dolo, pur nella forma del dolo eventuale, non può esservi equiparazione tra conoscenza e conoscibilità, attenendo quest`ultima all`area della colpa.
Per la prova del dolo, occorre per l`accusa la dimostrazione della presenza di segnali perspicui e peculiari in relazione all`evento illecito, nonché l`accertamento del loro grado di anormalità.
Non costituiscono prova del dolo, in capo all`amministratore non operativo, l`abituale approvazione di ogni iniziativa della dirigenza, sostanziose rettifiche apportate poco dopo l`approvazione dei bilanci incriminati, il riconoscimento di stock options, la stretta relazione di amicizia con l`autore degli illeciti, la facile rilevabilità di certe situazioni.
Si riporta il testo della sentenza.Cass. pen. Sez. V, (ud. 04-05-2007) 19-06-2007, n. 23838
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. COLONNESE Andrea - Presidente Dott. OLDI Paolo - Consigliere Dott. SCALERA Vito - Consigliere Dott. SANDRELLI Giangiacomo - Consigliere Dott. DUBOLINO Pietro - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA/ORDINANZA sul ricorso proposto da: PUBBLICO MINISTERO PRESSO GIUDICE UDIENZA PRELIMINARE di BRESCIA; nei confronti di:1) A.A., N. IL (OMISSIS) 2) A.S., N. IL (OMISSIS) 3) A.M., N. IL (OMISSIS) 4) B.G., N. IL (OMISSIS) 5) B.F., N. IL (OMISSIS) 6) B.S.U., N. IL (OMISSIS) 7) C.G., N. IL (OMISSIS) 8) C.G.M., N. IL (OMISSIS) 9) C.P., N. IL (OMISSIS)10) C.G., N. IL (OMISSIS) 11) C.M., N. IL (OMISSIS) 12) C.R., N. IL (OMISSIS) 13) F.L., N. IL (OMISSIS) 14) FE.LU., N. IL (OMISSIS) 15) F.G., N. IL (OMISSIS) 16) H.L., N. IL (OMISSIS) 17) L.L., N. IL (OMISSIS) 18) M.A., N. IL (OMISSIS) 19) M.V., N. IL (OMISSIS) 20) P.M., N. IL (OMISSIS) 21) R.A.M., N. IL (OMISSIS) 22) S.S., N. IL (OMISSIS) 23) S.R., N. IL (OMISSIS) 24) S.B., N. IL (OMISSIS) 25) S.A., N. IL (OMISSIS) 26) S.M., N. IL (OMISSIS) 27) S.P.L., N. IL (OMISSIS) 28) ST.AR., N. IL (OMISSIS)29) T.R., N. IL (OMISSIS) 30) V.P., N. IL (OMISSIS) 31) RESPONSABILE CIVILE;
avverso SENTENZA del 31/05/2005 GIUDICE UDIENZA PRELIMINARE di BRESCIA;
sentita la Relazione svolta dal Cons. Dott. Gian Giacomo Sandrelli;
sentita la Requisitoria del Procuratore Generale nella persona del Cons. Dott. Mario Fraticelli ha concluso per l'annullamento con rinvio limitatamente alle ipotesi di falso in bilancio e rigetto nel resto.
Sono presenti gli avv.:FRIGO Giuseppe, del Foro di Brescia per A.A., A.S., C.G., F.G., M.A., S.S., S. C., ZACCONE, del Foro di Torino per C.P. Nerio DIODA' del Foro di Milano per C.M. Carlenrico PALIERO del Foro di Pavia per H. Alfonso STILE del Foro di Napoli per R.A.M.Carlo TREMOLADA del Foro di Milano per S.B. Antonio SODA del Foro di Reggio Emilia per T.R. Romano CORSI del Foro di Reggio Emilia per S.R. Giangaleazzo LASAGNI del Foro di Reggio Emilia per L. L.L. Roberto SUTICH del Foro di Reggio Emilia per S.A. Bruno GUGLIELMETTI in sost. avv. Franco MAZZA del Foro di Reggio Emilia Luca PASTORELLI in sost. avv. Massimo JASONNI del Foro di Modena, che deposita nomina a sostituto processuale e consulenza tecnica di parte in udienza per C.R..
Gli avvocati predetti si riportano ai motivi di ricorso depositati instando per i rigetto o la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.
Per l'odierna udienza sono pervenute memorie difensive dell'avv. Zaccone (dep. il 14.42007, dell'avv. Paliero, dell'avv. Stile, dell'avv. Diodà (dep. 18.4.2007) e Consulenza Tecnica depositata oggi dall'avv. Jasonni; n. 2 memorie dell'avv. Lasagni (dep. 26.4.2007); dell'avv. Mazza (dep. 27.4.2007).
Svolgimento del processoIl GUP presso il Tribunale di Brescia ha pronunciato in data 31.5.2005 sentenza di non luogo a procedere nei confronti di A. A. ed altri numerosi imputati, coinvolti nelle indagini sulla gestione del gruppo bancario BIPOP-CARIRE, inchiesta promossa dalla Procura della Repubblica di Brescia. Accanto a detta decisione il GUP disponeva rinvio a giudizio per altri imputati e trasmetteva, per competenza territoriale, gli atti all'AG. di Milano quanto all'addebito di violazione dell'art. 416 cod. pen. (il Tribunale di Brescia, a sua volta, inviava anche questo troncone processuale all'A.G. milanese, per ragione di connessione).
La vicenda, come si apprende dal provvedimento impugnato, sorge dalla relazione ispettiva di Banca di Italia, datata 2002 che segnalava,fra l'altro, come nelle comunicazioni sociali era stata indebitamente omessa la contabilizzazione delle gestioni di patrimoni, assistite da anomale garanzie, assai rischiose per l'azienda di credito (es. rendimento minimo garantito con contestuale garanzia del capitale), le quali avevano cagionato elevatissime perdite per l'istituto bancario ed avevano portato BIPOP-CARIRE in uno stato di crisi.
Sulla premessa che soltanto alcuni degli amministratori e dei sindaci fossero stati messi a parte del fenomeno della infedele esposizione della situazione patrimoniale della società, il GUP escluse illecita consapevolezza in capo agli altri esponenti societari ed emise per essi la decisione di non luogo a procedere.
Avverso la sentenza liberatoria del GUP ha interposto ricorso per Cassazione il P.M. di Brescia per le sole posizioni di A. S., B.F., B.S., C.G.M., C. G., C.R., F.L., FE.Lu., H., L.L., M.V., S.R., S.A., S.M., S., T.R., V.P. relativamente ai capi 2, 3, 4 (art. 110 c.p., art. 2621 c.c., art. 2622 c.c., commi 1 e 3, con riguardo ai bilanci d'esercizio e consolidato 31.12.1999, 31.12.2000, relazione semestrale al bilancio consolidato e d'esercizio 30.6.2001), 5 e 6 (violazione artt. 110 e 81 cpv. c.p., art. 2638 c.c., ostacolo alle funzioni di vigilanza a Banca d'Italia e a CONSOB).
Inoltre, ha avanzato impugnazione per la decisione liberatoria assunta per le posizioni di A.A., A.S., A.M., B.G., B.F., B.S., C.G., C. G.M. e P., C.M., C.R., F.L., FE.Lu., F.G., H.L., L.L., M. A., M.V., P.M., R.A.M., S.S., S. R., S.B., S.A., S., T.R., V.P. con riguardo alla sola violazione (capo 29) dell'art. 2637 c.c. (aggiotaggio).
Il Pubblico Ministero ha eccepito:- l'illegittimità costituzionale dell'art. 593 c.p.p., comma 2 come sostituito dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 1 e dell'art. 10 della medesima legge, nella parte in cui limitano il potere di impugnazione del PM. avverso la sentenza di proscioglimento, così come la "legge Pecorella" ha sancito con la modifica dell'art. 593cod. proc. pen.;
- l'inosservanza della legge processuale penale con riguardo all'art. 192 cod. proc. pen., attesa la mancanza di motivazione su punti rilevanti della decisione;
in particolare dolendosi:a) dell'erroneo convincimento di assenza di responsabilità per gli amministratori senza delega e per i sindaci per reati societari, in base all'assenza di sicura prova della conoscenza dei fatti pregiudizievoli scaturiti dalla loro condotta omissiva, trascurando la censurabile omessa loro iniziativa che ha consentito di portare a compimento i fatti illeciti;
b) dell'errata la lettura dell'art. 40 c.p., comma 2 circa la permanenza del dovere penalmente sanzionato, anche a fronte del mutare della disciplina civilistica e, comunque, l'erroneo convincimento che la riforma societaria (soprattutto artt. 2392 e 2381 c.c.) abbia inciso sull'imputazione della penale responsabilità degli amministratori senza delega nel caso di omesso impedimento dei reati materialmente commessi dagli amministratori operativi;
c) dell'erronea ricostruzione della vicenda sottesa all'imputazione di aggiotaggio, afferente alla acquisizione di azioni ENTRIUM (e, dunque, dell'azienda di credito tedesca) sfalsando il quadro cognitivo presente al momento della sottoscrizione dell'aumento di capitale;
d) dell'erronea lettura della norma di cui all'art. 2637 cod. civ. intesa quale norma priva di capacità punitiva, nel caso in cui l'aumento del corso dei titoli non si sia verificato.
Pervenivano alla Corte, in vista dell'odierna udienza, parecchie memorie difensive di imputati protese al rigetto del ricorso.
All'odierna udienza la difesa dell'imputato B.G. eccepiva l'omessa notifica dell'udienza nei confronti del (co)difensore avv. Enrico Maria De Castiglione (per il quale risulta annotazione "non trovato", non corrispondendo il nominativo indicato nell'epigrafe della sentenza impugnata con l'elenco dei difensori del foro di Milano). Sulla conforme richiesta del Procuratore Generale, essendosi rimessi al riguardo i difensori, la Corte dispone la separazione del procedimento nei confronti di B.G. che viene rinviato a nuovo ruolo.
Motivi della decisione1) Preliminare alla trattazione del ricorso è la disamina della questione di legittimità costituzionale.
L'eccezione sollevata dal Pubblico Ministero, nella sua generale ampiezza è, per così dire, sorpassata dagli eventi avendo la Corte Costituzionale annullato sia l'art. 593 cod. proc. pen. sia l'art. 10 che regolava la disciplina transitoria (sent. 24.1.2007 (6.2.2007) n. 26. Peraltro, pur non essendo stato oggetto di espressa eccezione, il Collegio ritiene necessario valutare il possibile rilievo di incostituzionalità compreso nell'eccezione a portata generale formulata dal ricorrente. Invero, la questione, tuttavia, mantiene il suo interesse per il caso qui dedotto poichè la pronuncia del giudice delle leggi non ha interessato l'intera area dell'impugnazione del Pubblico Ministero, limitandosi alla disposizione menzionata ed alla indicata disciplina transitoria.
Lasciando, cioè, immune dallo scrutinio di costituzionalità - tra le altre - anche la previsione che qualifica inammissibile l'appello proposto avverso la sentenza pronunciata all'esito dell'udienza preliminare.
Ritiene il Collegio che l'omessa pronuncia sul punto, essendo nella facoltà della Corte Costituzionale di esaminare situazioni limitrofe a quella denunciata come illegittima, stia a significare una valutazione reiettiva ed, in ogni caso che, in assenza di una positiva affermazione di patologia, non possa estendersi il dictum costituzionale oltre i suoi confini.
Assunto che viene maturato nella convinzione che l'attuale inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere non sia omogenea alla situazione esaminata dalla Consulta, trattandosi di un epilogo di fase processuale con connotazioni e risultati grandemente difformi. Infatti, questo tipo di sentenza non segna in guisa irrevocabile la definizione della vicenda processuale (nè dispiega effetti preclusivi nè pregiudizialmente vincolanti verso la parte privata) e consente, nei termini indicati dall'art. 434 c.p.p. e ss., la sua revoca. Siffatta decisione è esclusivamente finalizzata a paralizzare l'iniziativa della pubblica accusa nel prosieguo del processo quando il fondamento dell'accusa non sia idonea a confermare la sua validità nel giudizio. In tal senso può considerarsi decisione ad effetto meramente "processuale", volta ad assicurare profili di economia all'interno della vicenda processuale ed emessa, pertanto, allo stato degli atti. Quindi, una decisione intrinsecamente difforme dal caso valutato dalla Corte Costituzionale. Per la sua connotazione peculiare, non appare in sé irragionevole un trattamento normativo diverso rispetto alle sentenze rese in giudizio, secondo il discrezionale orientamento del legislatore, senza varchi di illegittimità costituzionale.
Nè - come già stabilito dalla Corte delle leggi - la disparità dei mezzi di gravame consentiti ai protagonisti del processo lede in sè il principio costituzionale di parità delle parti quando è rinvenibile un'adeguata ragione che giustifichi il diverso trattamento configurato. Per il vero, a prescindere dagli inesistenti profili di irragionevolezza, non è dato riscontrare disparità alcuna nella fattispecie processuale. Invero, nè P.M. nè imputato - con la riforma della legge "Pecorella" - sono, con pari trattamento, legittimati all'appello, residuando alle parti soltanto il potere di ricorrere in Cassazione (e, per il vero, con una restrizione tipologica per ciò che trae alla sola posizione dell'imputato). Al contempo (come anche osservato dalla difesa R.A.M.) il provvedimento correlato alla decisione disciplinata dall'art. 428 cod. proc. pen. non è una sentenza di condanna, bensì il decreto di rinvio a giudizio (art. 429 cod. proc. pen.) avverso il quale nessuna delle parti ha legittimazione ad impugnazione di sorta.
La questione di illegittimità costituzionale è - dunque - manifestamente infondata e la norma può trovare attuale applicazione, poichè essa non è stata caducata dalla dichiarazione di incostituzionalità, pronuncia che si raccorda soltanto ala fattispecie dell'art. 593 c.p.p..
2) Se, dunque, la sentenza della Consulta non riguarda l'art. 428 c.p.p., l'impugnazione qui esaminata deve riguardarsi - nel variare delle norme - secondo il consueto criterio processuale del tempus regit actum, sicchè la valutazione del suo perfezionamento e della sua efficacia debbono ancorarsi alla normativa vigente nel momento in cui lo stesso venne avanzato. Le modifiche normative intervenute posteriormente non possono, conseguentemente, influire sul relativo giudizio, in mancanza di una disposizione che espressamente, contraddicendo la regola generale, assegni efficacia retroattiva alla riforma.
Diversa questione è se la decisione della Corte Costituzionale abbia travolto anche la L. n. 46 del 2006, art. 10, norma che impartisce disciplina transitoria (e, quindi, ove ritenuta applicabile al caso in esame, avrebbe effetto retroattivo) per tutti i casi di "sentenze di proscioglimento" avverso le quali sia stato, prima dell'entrata in vigore della legge (che ha reso inammissibile siffatta impugnazione),proposto appello. Poichè a questa disciplina si era richiamato il P.M. e di essa aveva dato applicazione la Corte d'Appello, investita del gravame (dichiarando l'inammissibilità del gravame), potrebbe sostenersi che l'attuale ricorso non risulta tempestivo secondo la generale regola dettata dall'art. 585 c.p.p., ove esso fosse stato messo nel nulla dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Il dies a quo, infatti, avrebbe dovuto fissarsi secondo le regole generali previgenti al momento in cui sopravvenne la riforma che disciplinò ex novo l'impugnazione del PM. (data di entrata in vigore della L. n. 46 del 2006: 9.3.2006), a prescindere dalla disposizione della L. n. 46 del 2006, art. 10 che non riguardava l'impugnazione delle decisioni liberatorie del G.U.P.. E' questa la posizione assunta dalla memoria delle difese B.F., F.L., M.V.: per essa il testo letterale della norma non riguarda la sentenza "di non luogo a procedere" bensì quella "di proscioglimento", con la conseguenza che la sua applicazione, all'avvio della impugnazione e prima dell'attuale ricorso, non rinviene giustificazione.
L'opinione (che porterebbe alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso) non ha pregio.
Essa pecca di eccessivo formalismo: la nozione di "sentenza di proscioglimento" allude ad una categoria di decisioni aventi carattere liberatorio per l'imputato. In seno a questo ambito è dato annoverare - quale sottospecie - la sentenza resa all'esito dell'udienza preliminare, decisione che - ciononostante - è dotata di una sua specifica autonomia strutturale. Che quest'ultimo provvedimento possa qualificarsi, con generica indicazione, quale "sentenza di proscioglimento" lo si deduce in via immediata dall'effetto che da esso consegue.
L'esame attento della normativa processuale assevera l'assunto: lo conferma la lettura della direttiva 25 della legge/delega al codice di rito; degli artt. 131 bis e 154 bis disp. att. cod. proc. pen. la cui rubrica - preposta a disposizione che disciplina gli effetti della sentenza ex art. 425 c.p.p. - testualmente allude all'"imputato prosciolto"; oppure, del contesto relativo all'art. 129 c.p.p. che, pur applicato alla fase precedente al processo, concreta un "proscioglimento" (cfr. es. art. 425 c.p.p., comma 3); o, ancora, delle decisioni della Corte Cost. (es. n. 180, 423 del 1992), oppure,infine, di questa stessa Corte (Cass. Sez. Un., 25.1.2005, PG. in proc. De Rosa, CED Cass. 230529; Ord. Sez. 2, 21.10.2005, PG in proc. Di Michele, CED Cass. 233142; Sez. 1, 17.11.2004, Narducci ed altro, CED Cass. 231184; Cass. Sez. 6, 16.11.2001, Berlusconi, n. 45275, ecc.). Osservazione che, non trascurando la differenza lessicale utilizzata dal legislatore, da essa non fa discendere una radicale incompatibilità di connotazione processuale.
Nè a questo approdo interpretativo può obiettarsi che - comunque - la dichiarazione di illegittimità costituzionale, vertendo sulle regola generali delle facoltà di appello, necessariamente coinvolse anche la L. n. 46 del 2006, art. 10 che riguardava questa materia, trascinando con sè anche la disciplina transitoria afferente alla sentenza di cui agli artt. 425 e 428 c.p.p.. Invero, è di evidenza logica che la decisione della Consulta, focalizzando il giudizio di illegittimità sul novellato art. 593 c.p.p. e correlando, quale automatica conseguenza, lo stesso giudizio alla corrispondente disciplina transitoria, non abbia indiscriminatamente travolto il dettato dell'art. 10 della citata legge, ma soltanto la disposizione nella sua correlazione con la norma invalida per incostituzionalità, lasciando in vigore (nel silenzio di detta pronuncia) ogni altra parte logicamente e giuridicamente autonoma e da quest'ultima logicamente indipendente. Non essendo stata affermata l'illegittimità della norma processuale principale, non si ravvisa ragione alcuna per inferire, in assenza di atto ablativo espresso, la cessata vigenza dell'art. 10 legge cit., con interpretazione abrogatrice del tutto arbitraria.
3) Venendo al merito della decisione del G.U.P. di Brescia, è d'uopo osservare che - quanto ai capi 2, 3, 4, 5, 6 - l'impugnazione non si richiama agli elementi raccolti per ogni singola posizione, ma muove la doglianza indistintamente sui temi coinvolgenti tutte le posizioni individuali, presenti nella categoria degli amministratori deleganti, a prescindere dalla specifica condotta tenuta in concreto da ciascuno di essi. Il ricorso, cioè, rivolge le sue censure in ragione della qualifica soggettiva dell'organo gestorio e del corredo di doveri su di esso incombenti, obblighi che - contrariamente all'assunto del G.U.P. di Brescia - il ricorrente ritiene violati con consequenziale responsabilità penale. Siffatta impostazione, censurata dalla memoria difensiva di H. e, con minor dettaglio, dalla memoria F.L./ M.V., non può per ciò solo ritenersi aspecifica, ma può significare soltanto che il ricorso si riflette esclusivamente sul profilo astratto di interpretazione della norma giuridica, rimanendo la considerazione su un piano generale e comune a tutti i prevenuti (del resto, neppure il decidente nella sua sentenza ha ripartito la valutazione di singoli casi, preferendo affrontare la motivazione con richiamo ai principi generali comuni a tutti gli imputati che ha prosciolto): dunque, non si terrà conto dei rilievi mossi da alcuni difensori nelle memorie ex adverso depositate alla Corte, afferenti a peculiari profili soggettivi, non risultando, in questo senso, di specifico interesse nel vaglio dell'impugnazione.
Al contempo, il ricorso non si sofferma neppure su possibili specificità proprie delle diverse imputazioni sottese ai capi per cui è formulata impugnazione (segnalate per es. dalla memoria B.F.): per es. sulla attuale vigenza delle "nuove" fattispecie di false comunicazioni sociali, le cui condotte sono riferite ad epoca anteriore all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 61 del 2002 (per es. manca nei capi di accusa una puntuale correlazione proporzionale tra le poste mendaci ed il risultato di esercizio o il netto patrimoniale; ovvero l'eccedenza del 10% circa quelle valutative). Non essendovi sollecitazione alcuna del ricorso e devoluzione del quesito, il punto non verrà più considerato.
4) E' indefettibile premessa da cui prendere le mosse per valutare il fondamento dell'impugnazione, l'annotazione del GUP a pag. 11 della sentenza di non luogo a procedere:
"è del tutto pacifico che solo l'amministratore delegato S. B. e pochi altri imputati avevano preso parte all'illecito o, comunque, erano al corrente dell'iniziativa e degli artifizi contabili era stata occultata" (la contabilizzazione delle perdite conseguenti alle garanzie su perdite nelle gestioni dei fondi patrimoniali, nde.).
Questa premessa ha da ritenersi - come vuole il G.U.P. - "pacifica":
essa, d'altra parte, non è stata contestata dal Pubblico Ministero ed essendo allineata a fatto, non potrebbe qui essere ulteriormente rivalutata.
Osservazione che prescinde, invece, dalla evidenza di "segnali di allerta" relativi ad operazioni dannose per la società, sottolineati, come si dirà oltre, dal ricorrente.
Su questa premessa si svolgono le osservazioni che seguono.
Il G.U.P. ha affermato che, per ascrivere, ai sensi dell'art. 40 cpv. c.p., la responsabilità dell'illecito evento ad amministratori privi di delega ed ai sindaci, occorre il riscontro di una diretta conoscenza, nella sua portata illecita, dell'evento verificatosi a seguito della colpevole omissione. Ed ha negato che l'attuale formula legislativa dell'art. 2381 c.c. (configurata dalla riforma di cui al D.Lgs. n. 6 del 2003, a modifica della precedente versione dettata dall'art. 2392 c.c.), possa fungere da valido referente dell'obbligo impeditivo per fatti occorsi prima dell'intervento novellatore.
Il Pubblico Ministero ricorrente, invece, ha ritenuto che - pur nella mutata disciplina relativa agli amministratori privi di delega - resti invariata, nella sostanza, la posizione di garanzia. Sia perchè essa attiene alla posizione effettiva e sostanziale assunta da costoro nei confronti di soci ed interessati alla gestione della società, con conseguente ininfluenza del cambiamento dei termini normativi portato da modifica posteriore all'acquisizione della responsabilità, sia perchè l'attenta lettura degli articoli di legge in discorso palesa un immutato dovere, gravante sui singoli, dicompiuta informazione circa le operazioni societarie.
Il motivo avanzato dal ricorrente è infondato, ma - in parte - anche l'argomentazione della decisione risulta sfocata.
La riforma della disciplina delle società, portata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, ha certamente modificato il quadro normativo dei doveri di chi è preposto alla gestione della società ed ha compiutamente regolamentato la responsabilità dell'amministratore destinatario di delega. E, così, ha delineato, da un lato, il criterio direttivo dell'"agire informato", che sostiene il mandato gestorio (art. 2381 c.c., comma 5) e, correlativamente, l'obbligo di ragguaglio informativo sia a carico del presidente del consiglio di amministrazione (art. 2381 c.c., comma 1: "provvede affinchè adeguate informazioni sulle materie iscritte all'ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri") sia in capo agli amministratori delegati, i quali, con prestabilita periodicità, devono fornire adeguata notizia "sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione, nonchè sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società o dalle sue controllate" (art. 2381 c.c., comma 5). In tal modo la riforma ha indubbiamente - con più puntuale disposizione letterale - alleggerito gli oneri e le responsabilità degli amministratori privi di deleghe, poichè l'art. 2392 c.c., comma 1 che sono responsabili verso la società nei limiti delle attribuzioni proprie, quali stabilite dalla disciplina normativa. E' stato, dunque, rimosso il generale "obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione" (già contemplato dall'art. 2392 c.c., comma 2), sostituendolo con l'onere di "agire informato", atteso il potere (ma, che si qualifica come doveroso nell'ottica dell'indicazione normativa sulla modalità di gestione informata) di richiedere informazioni (senza che ciò assegni anche un autonomo potestà di indagine).
Modifica dell'art. 2392 c.c. che è stata introdotta nell'ordinamento con immediata vigenza, attesa la disposizione di cui all'art. 209 disp. trans. c.c..
Per ciò che interessa il versante penale, questa premessa riconfigura (o meglio giunge a conferma di approdi interpretativi già acquisiti dalla dottrina) la "posizione di garanzia" del consigliere non operativo, posto chè l'obbligo di impedire l'evento,disciplinato quale tramite giuridico causale, dall'art. 40 c.p., comma 2, si parametra su una fonte normativa (nei termini assai lati assunti dalla giurisprudenza) che costituisce il dovere di intervento. Non è revocabile in dubbio, conseguentemente, che anche il ruolo penale dell'amministratore privo di delega risulti modificato. Il quesito affacciato nella presenta vicenda (per osservazioni contenute in parecchie memorie difensive) è se ed in quali termini possa invocarsi la disciplina dettata dall'art. 2 c.p., in seno al combinato disposto delle norme penal/societarie e dell'art. 40 c.p., comma 2, attesa la obiettiva restrizione della responsabilità apportata nel contesto del codice civile e la obiettiva situazione più favorevole per gli amministratori privi di delega.
A chiarimento del discorso occorre decisivamente segnare il limite operativo dell'art. 40 c.p., comma 2 quando sia correlato ad incriminazioni connotate da volontarietà, onde evitare di sovrapporlo o, peggio, sostituirlo con responsabilità di natura colposa, incompatibile con la lettera delle fattispecie incriminatici, che configurando comportamenti modulati su consapevolezza dolosa, non consentono di addebitare all'autore di volontaria omissione, con argomentazione propria della colpa (e cioè con rimprovero di imperizia, o di negligenza, o di imprudenza), l'evento che egli ha l'obbligo giuridico di impedire. La stessa riforma ha operato in questa direzione, poichè la relazione accompagnatrice del testo legislativo accenna alla necessità di evitare ingiustificate letture estensive della responsabilità degli amministratori.
L'analisi del profilo della responsabilità discendente dall'art. 40 c.p., comma 2 per condotte connotate da volontarietà e la configurazione della "posizione di garanzia" che qualifica il ruolo dell'amministratore evidenzia due momenti, tra loro complementari, ma idealmente distinti ed entrambi essenziali. Il primo postula la rappresentazione dell'evento, nella sua portata illecita, il secondo - discendente da obbligo giuridico - l'omissione consapevole nell'impedirlo.
Entrambe queste due condizioni debbono ricorrere nel meccanismo tratteggiato dal nesso di causalità giuridico di cui si discute. Non è, quindi, responsabile chi non abbia avuto rappresentazione del fatto pregiudizievole (sì che l'omissione dell'azione impeditiva non risulti connotata da consapevolezza).
Ovviamente, l'evento può essere oggetto di rappresentazione anche eventuale, pertanto chi consapevolmente si sia sottratto nell'esercitare i poteri-doveri di controllo attribuiti dalla legge, accettando il rischio, presente nella sua rappresentazione, di eventi illeciti discendenti dalla sua inerzia, può rispondere di essi ai sensi dell'art. 40 c.p., comma 2. Ma - pur in questa dilatazione consentita dalla forma eventuale del dolo -non può esservi equiparazione tra "conoscenza" e "conoscibilità" dell'evento che si deve impedire, attenendo la prima all'area della fattispecie volontaria e la seconda, quale violazione ai doveri di diligenza, all'area della colpa.
Riportando questo assunto nel contesto della responsabilità dell'amministratore non operativo, può rilevarsi - allora - che l'effettiva rilevanza portata dalla disciplina di cui all'art. 2 c.p. riesce assai contenuta. La penale responsabilità, invero, prescinde dalla modalità e tipologia del canale conoscitivo, mentre postula la dimostrazione di un effettiva ed efficace ragguaglio circa l'evento oggetto del doveroso impedimento: non può ragionevolmente assumersi che l'unico canale di conoscenza dell'amministratore, rilevante ex art. 40 cpv. c.p., si riduca all'informazione resa in seno all'ambito del consiglio di amministratore o al solo ambito societario. Una volta dimostrata la conoscenza del probabile evento pregiudizievole, connesso alla situazione offerta all'attenzione del soggetto garante, si prova l'esistenza del suo dovere di scongiurare lo stesso, non essendo stati ridotti gli obblighi e le responsabilità dell'amministratore (verso la società ed i creditori) volti a prevenire pregiudizi da condotta illecita. Tanto è dato riscontrare nel contesto dell'art. 2392 c.c., comma 2 (che al proposito, sia pure nei limiti della disciplina del nuovo art. 2381 cod. civ., risulta immutato) che sancisce la responsabilità verso la società per quanti, "essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli", non si siano attivati per impedire il compimento dell'evento pregiudizievole, norma che non precisa la modalità dell'acquisizione dell'informazione sul fatto illecito o ingiustamente pregiudizievole.
L'amministratore (ed è indifferente che egli sia o meno dotato di delega) è penalmente responsabile (art. 40 c.p., comma 2) per la commissione dell'evento che ebbe a conoscere (anche se al di fuori dei prestabiliti mezzi informativi) e che, pur potendo, non scongiurò.
Altro discorso, ancora, attiene alla conoscibilità dell'evento e, quindi, per restare nell'area del fatto volontario, situazione desunta dalla percezione dei segnali di pericolo o di sintomi di patologia insiti nell'operazione coinvolgente la società, evincibili dagli atti sottoposti alla sua attenzione. Profilo che caratterizza il punto focale del ricorso del Pubblico Ministero, il quale rammenta segnali che possono (come nel caso in esame) trapelare anche dalle risposte rese dall'amministratore operativo alle istanze informative avanzate da quello privo di delega (non essendo stato introdotto dalla legge alcun un autonomo ed individuale potere ispettivo) ovvero dalle relazioni stilate dall'organo delegato. Invero, l'affidamento ad esse non può ammettere cieca rinuncia delle personali facoltà critiche o del corredo di competenza professionale. Situazioni che possono - pertanto - mantenere rilievo penale nella prospettiva del dolo (oltre che, evidentemente, per la colpa).
Ma - pur accogliendo in via astratta questa prospettazione - il Collegio osserva che, nella vicenda dedotta, occorre per l'accusa la dimostrazione della presenza di segnali perspicui e peculiari in relazione all'evento illecito, nonchè l'accertamento del grado di anormalità di questi sintomi, non in linea assoluta, ma per l'amministratore non operativo (oltre, per quanto dianzi detto, la prova della percezione degli stessi in capo agli imputati). L'onere in tal senso non è stato assolto dal ricorrente, sicchè, nel silenzio della decisione impugnata, la ricerca sul punto si risolve in una istanza di ricostruzione storica degli accadimenti, improponibile al giudice di legittimità: essa, in realtà, richiede una conoscenza di fatti e presupposti della volontà partecipativa nel reato, i cui dettagli non sono specificati nell'atto di impugnazione e che, comunque, attengono alla valutazione del fatto.
Del resto, l'addurre a sostegno della tesi d'accusa la "consapevole approvazione di ogni iniziativa della dirigenza" (pag. 15) è del tutto logicamente inconcludente: se consapevole fu il voto favorevole, tanto non dimostra che esso fu correttamente ed esaurientemente "informato" sulla effettiva sostanza della decisione, sì che discenda seria attestazione di una adesione volontaria all'opzione illecita o dannosa per la società. Nè il fatto che, poco tempo dopo la approvazione dei bilanci incriminati, vi siano state sostanziose rettifiche illumina sul reale stato conoscitivo dei prevenuti all'atto della lettura delle relazioni loro rimesse. Nè, ancora, la riduzione del consiglio di amministratore a "ratificatore" di decisioni altrove prese risulta peculiare e congruente rispetto alla esigenza di puntualità dimostrativa di cui si è detto.
Meramente assertive, poi, le affermazioni del ricorrente circa alcune pratiche di finanziamento, o sulla patologia connessa al riconoscimento di stock option (prassi - peraltro - assai diffusa e non ritenuta necessariamente delittuosa), che non consentono di intravedere nemmanco i sintomi dell'evento. Di lata presunzione, ben poco congruente a questi fini è la reciproca stretta relazione di amicizia tra alcuni protagonisti, indice assai generico di sospetto e "muto" di fronte alla effettiva informazione da parte dell'amico informato verso il collega non operativo. Analogamente, la considerazione che alcuni aspetti illeciti erano "palesemente rilevabili" o che siffatta situazione era ben conosciuta o conoscibile, o l'allusione all'"eclatante vicenda relativa al palazzo di (OMISSIS)", ecc. non sono passaggi idonei ad approdare a qualche congruente giustificazione argomentata e, nuovamente, richiamano la nuova considerazione di fatti e situazioni, operazione non consentita nel giudizio di legittimità.
Tutto ciò per tacere della difficile compatibilità (non logicamente impossibile, come vorrebbe la difesa di C.G.M., poichè è sempre ipotizzabile l'accettazione del rischio che altri agisca con il dolo qualificato) del dolo eventuale con fattispecie non soltanto marcatamente fraudolente (art. 2638 c.c., comma 1), ma anche contrassegnate da specificità del dolo, da espressa connotazione di consapevolezza (art. 2638 c.c., comma 2 propria delle condotte di omessa informazione) e, financo da intenzionalità di inganno (artt. 2621 e 2622 cod. civ.).
Non diversamente si deve concludere per la posizione dei sindaci la che non è stata nè dal GUP, in sentenza, nè dal Pubblico Ministero, in seno al ricorso, specificamente considerata.
Per essi la riforma non ha disposto mutamento quanto all'obbligo di vigilanza, essendo rimasto inalterato il paradigma della responsabilità dettato dall'art. 2407 c.c., comma 2. Tuttavia, l'espresso e diretto obbligo di vigilanza sulla gestione degli amministratori estende assai il grado di responsabilità. Il GUP. ha distinto le posizioni di alcuni ( C.G. e L.L., sia nel proscioglimento sia nell'adozione della formula di cui all'art. 129 c.p.p., comma 1) da quella del M.A., rinviato a giudizio e prosciolto dagli altri addebiti per prescrizione. Da quanto annotato circa la posizione del M.A. (Sent. pag. 17/18) il discrimine è stato ravvisato nel grado di conoscenza dell'atto antidoveroso degli amministratori, con ciò applicando alla figura del sindaco il medesimo vaglio giuridico sin qui svolto, ed addebitandogli - ai sensi dell'art. 40 c.c., comma 2 - la colpevole inerzia, censurabile in quanto pienamente conscia dell'evento da evitare. Non si dispone di elemento alcuno per censurare la scelta del giudicante, che è accompagnata da corretta motivazione, nè detta scelta è stata dedotta espressamente ed argomentatamene nelle censure dell'impugnazione.
5) Infondato è anche il secondo mezzo del ricorso.Anch'esso in gran parte si presenta ancorato alla richiesta di nuove valutazioni del fatto o alla ricostruzione dello stesso, indagine che è preclusa al giudice di legittimità. In ogni caso, la decisione appare coerente con la lettera della norma incriminatrice e risulta adeguatamente motivata.
Infatti la Corte osserva: 1) quanto all'imputazione sub 29, capo b):- l'erogazione di crediti finalizzati a consentire l'acquisto delle azioni è operazione che si colloca al di fuori dell'immediato rapporto causale con l'esito speculativo; essi non determinarono nè avrebbero potuto determinare - concretamente - la sensibile alterazione, evento seguito, invece, all'acquisto dei titoli, non all'erogazione del finanziamento, ancorchè esso fosse strumentalmente finalizzato al primo;
- la probabile irregolarità di questi mutui (secondo la disciplina interna all'azienda bancaria e per le regole dettate dall'organo di vigilanza agli istituti di credito) non equivale alla artificiosità a cui allude la norma, fondata su una sensibile discrasia tra apparenza e realtà (mentre nel caso in esame il denaro fu effettivamente corrisposto all'investitore);
- per la medesima ragione non pare potersi rilevare artificiosità nell'acquisto dei titoli medesimi, essendo detta operazione connotata da effettività, dal momento che i beni passarono effettivamente in capo agli acquirenti, tutto ciò per tacere della debolezza della critica del P.M. alla lineare ricostruzione della sentenza impugnata circa la predeterminazione del prezzo dei titoli alle operazioni incriminate (con la rigida fissazione del rapporto di concambio),argomento, peraltro, di stretto merito.
2) quanto all'imputazione sub 29 capo a):Esattamente la sentenza osserva che la modestia del movimento finanziario a cui diedero vita gli imputati, considerato l'arco di tempo in cui occorsero gli acquisti, non era certamente idonea alla sensibile alterazione (la cd. price sensivity), valutazione svolta con il criterio della prognosi ancorata ai dati CONSOB che indicano gli scambi giornalieri del titolo in ammontare anche superiore alle L. 200 miliardi, quando (nel lasso corrente tra aprile 2000 e dicembre 2001) le transazioni incriminate sommarono ad alcune decine di miliardi di L. (sent. pag. 20). La considerazione valutativa del giudice di merito è sorretta da giustificazione del tutto logica E COSTITUISCE un'argomentazione (non contraddetta dal ricorrente) capace di escludere in radice il primario e fondamentale requisito oggettivo della fattispecie contestata, connotata da pericolo concreto.
Per questi motivi non si ravvisa inosservanza della legge penale e corretta risulta la decisione di insussistenza del fatto.
P.Q.M. rigetta il ricorso. Così deciso in Roma, il 4 maggio 2006. Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2007CONDIVIDI
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