Compie atti osceni sul bancone: per dimostrare il comportamento illecito è sufficiente la dichiarazione della persona offesa.
Corte dì Cassazione Sentenza n°39824/2012.
Avv. Antonietta Savino
di Montemilone, PZ
Letto 721 volte dal 25/10/2012
La testimonianza della persona offesa costituisce una vera e propria fonte di prova sulla quale può essere anche esclusivamente fondata l’affermazione di colpevolezza dell’imputato, a condizione che sia intrinsecamente attendibile, in particolare laddove la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, pertanto, portatrice di pretese economiche e che di ciò si dia adeguata motivazione, la valutazione effettuata dal giudice di merito in ordine a detta attendibilità, ove adeguatamente, appunto, motivata, resta quindi preclusa in sede di legittimità. Così la Cassazione con la Sentenza n. 39824/2012.
Il caso.
Un uomo compie sesso solitario sul balcone di casa. Una vicina lo vede.
La Corte di Appello di Reggio Calabria, confermando la pronuncia del Tribunale di Locri, condanna l’imputato alla pena di mesi otto di reclusione, basandosi sulle testimonianze della vicina, di sua sorella, del fidanzato e di un altro testimone.
L’imputato promuove ricorso per Cassazione, avverso la pronuncia di appello e contesta proprio il fatto che la pronuncia di colpevolezza si sia fondata sull’attendibilità della persona offesa, con cui, peraltro, non correvano rapporti di buon vicinato. In materia, la Corte di Cassazione ha già puntualizzato che la testimonianza della persona offesa costituisce una vera e propria fonte di prova sulla quale può essere esclusivamente fondata l’affermazione di colpevolezza dell’imputato, a condizione che sia intrinsecamente attendibile: in particolare, laddove la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese economiche e che di ciò si dia adeguata motivazione.
La valutazione effettuata dal Giudice di merito in ordine a detta attendibilità, ove adeguatamente, motivata, resta preclusa in sede di legittimità. Nella specie, a fronte delle censure del ricorrente, peraltro, costruite attraverso un’esasperata frammentazione degli elementi di prova, in contrasto con la necessità di una valutazione complessiva, e sostanzialmente ripropositive della linea difensiva già esaminata dal Giudice di prime cure, il Giudice di appello, anche richiamando il contenuto della Sentenza di primo grado, ha correttamente evocato la giurisprudenza di legittimità di cui si è detto ed ha rilevato, recependo anche l’opportunità, suggerita da detta giurisprudenza, di riscontri esterni laddove la persona offesa sia portatrice di pretese economiche, che l’impianto accusatorio emergente dalle dichiarazioni di parte offesa ha trovato puntuale conferma non solo nelle dichiarazioni rese dalla sorella e dal fidanzato della stessa, che si trovavano, assieme alla persona offesa, al momento dei fatti, nell’appartamento posto al piano superiore rispetto a quello dell’imputato, ma nella testimonianza resa da un altro vicino quale persona che si trovava nella propria abitazione, posta al terzo piano parallelo al piano di abitazione della persona offesa. La valorizzazione, in particolare, delle dichiarazioni di quest’ultimo soggetto del tutto disinteressato rispetto alla vicenda, rappresenta una implicita e allo stesso tempo logica risposta alle ragioni di non adeguata valutazione di attendibilità rappresentate, secondo il ricorrente, da motivi di attrito per cattivo vicinato intercorrenti tra imputato e persona offesa, dimoranti nel medesimo edificio condominiale.
Il Giudice di appello ha aggiunto, poi, che lo stesso sviluppo, anche cronologico, dei fatti raccontati dalla persona offesa, è significativamente confermato da un filmato, acquisito quale prova documentale. In definitiva la Sentenza impugnata risulta avere adeguatamente motivato, senza imperfezioni logiche, in ordine alla valutazione di idoneità degli elementi emersi dal giudizio a dimostrare la responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli.
Anche il terzo motivo, inteso a denunciare la mancata derubricazione del reato contestato in quello di cui all’art. 527, comma 3, c.p., penalizzato solo con l’ammenda, sul presupposto di un fraintendimento del gesto dell’imputato, è del tutto infondato. La Sentenza impugnata ha motivatamente affermato, attribuendo all’uso di uno specchietto rivolto verso l’alto un significato di evidente corroborazione della sussistenza dei fatti, sulla inconsistenza della tesi. Con riguardo all’ultimo motivo, la Corte d’Appello ha richiamato l’indirizzo espresso dalle Sezioni Unite, secondo cui con la Sentenza di condanna non può essere contestualmente applicato l’indulto e disposta la sospensione condizionale della pena, in quanto quest’ultimo beneficio prevale sul primo. Si è sottolineato che con l’applicazione del beneficio della sospensione prende le mosse un complesso iter generativo di diversi e non contestuali effetti, quello, immediato ed accessorio, della sospensione dell’esecuzione della pena e quello, principale, ma futuro e eventuale, della estinzione del reato, effetti tra loro strettamente collegati ed entrambi contemplati; il condono è, invece, applicabile solo e esclusivamente in relazione a pene suscettibili di esecuzione. E’ inconciliabile con tale principio una applicazione dell’indulto in contestualità con una decisione di sospensione della pena ex art. 163 c.p., ovvero in relazione ad una pena non suscettibile in quel momento di esecuzione e, quindi, in una situazione nella quale viene a essere impedita l’operatività del beneficio indulgenziale, il quale non è, in concreto, in grado di agire sotto alcun profilo.
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