Non commette reato di ingiuria e minaccia l'ex marito che litiga con la moglie che non gli vuole far vedere il figlio, purchè il giudice accerti la sussistenza o la probabilità dell'esimente. E' quanto stabilito dalla Suprema Corte nella sentenza 21 febbraio 2014, n. 8431. La lite tra i due coniugi era scaturita a seguito del divieto espresso dalla ex moglie nei confronti dell'imputato, di poter far visita alla propria figlia. La donna aveva rifiutato di consegnargli la bambina accampando il suo stato di ubriachezza, non confermato dagli agenti intervenuti sul posto. A seguito di tale condotta , l'uomo aveva reagito con minacce e ingiurie. Il Giudice di pace, interessato della vicenda aveva condannato l'uomo non riconoscendo l'operatività dell'esimente della provocazione, ex art. 62 n. 2 c.p., in relazione al reato di minaccia. Contro la sentenza, ricorreva l'imputato deducendo quale motivazione l'inosservanza della legge penale in merito al mancato riconoscimento dell'esimente della provocazione, motivazione accolta dalla Corte, che si è pronunciata a favore del ricorrente, escludendo dunque la condanna. Le considerazioni di diritto alla base della motivazione presa della Suprema Corte di Cassazione ruotano intorno all'analisi dell'art 62 c.p., che in particolare al n. 2 prevede che attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, l'aver agito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui. Tale circostanza attenuante avente natura soggettiva, ricorre sotto la definizione di provocazione. Essa consta di due elementi essenziali: l'uno, soggettivo, inerisce allo stato d'ira, che determina nell'agente un impulso emotivo incontrollabile, fonte della condotta criminosa; l'altro, oggettivo, è relativo al fatto ingiusto altrui che tale stato emotivo ha determinato nell'autore del reato. L'ingiustizia del fatto, che deve essere oggettivamente riscontrabile, è tale non solo sotto il profilo strettamente giuridico, ma anche per quanto concerne il rispetto delle regole della civile convivenza incontrollabile, fonte della condotta criminosa. Circa l'applicabilità dell'articolo in esame, è previsto che il giudice di legittimità pronunci sentenza di assoluzione quando vi sia anche il semplice dubbio sull' esistenza di una causa di giustificazione; dubbio che deve essere ricondotto a quello contemplato dalle nozioni di “insufficienza” e “contradditorietà” delle prove di cui all'art. 530 comma 2 c.p.p. In caso di allegazione di una causa di giustificazione da parte dell'imputato, incombe su quest'ultimo un vero e proprio onere di produzione degli elementi di indagine al fine di porre il giudice nella condizione di decidere. Al contrario, nell'ipotesi in cui, l'onere probatorio rimane assorbito dall'acquisizione nell'istruttoria dibattimentale di elementi idonei a rivelare l'astratta configurabilità dell'esimente, come nel caso in esame, è compito del giudice procedere ad un'indagine sulla configurabilità e sulla sussistenza ti tale esimente, eventualmente ricorrendo ai suoi poteri di integrazione probatoria. E' proprio intorno all'onere probatorio dell'esistenza o meno dell'esimente della provocazione che si sviluppa la vicenda in esame. Nel caso sottoposto all'attenzione della Suprema Corte di Cassazione, quest'ultima ha ritenuto accoglibile il ricorso dell'imputato proprio in ragione della condotta “manchevole” del Giudice di Pace il quale per poter condannare l'uomo, proprio sulla base di quanto sopra esposto, avrebbe dovuto motivare le ragioni per cui il rifiuto manifestato dalla donna, consistente nel non voler consegnare la bambina al padre, poteva ritenersi giusto e dunque inidoneo alla configurazione dell'esimente della provocazione o, come si legge in sentenza “ avrebbe dovuto approfondire il tema di indagine qualora avesse ritenuto insufficiente il quadro probatorio acquisito, atteso che l'eventuale dubbio sull'esistenza di una causa di giustificazione, per prova insufficiente o per un mero principio di prova, e quindi al di fuori di casi in cui la causa di giustificazione sia soltanto allegata dalla parte e non provata, comporta l'assoluzione dell'imputato”. (Cass. Pen., sez. I,13 maggio 2010, n. 2086).