Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte interviene pronunciandosi su un curioso caso riguardante un uomo sui 45 che camminando per le strade di Palermo vede per terra un biglietto del “Gratta e Vinci”, per curiosità lo raccoglie, e trova la combinazione vincente. Senza perdere troppo tempo ad analizzarlo, si reca in banca per incassare la somma facendo tutta la procedura che prevede l’esibizione dei documenti ecc. Alla fine però invece che un fascio di banconote in tasca si ritrova con una condanna per ricettazione ad un anno e cinque mesi di reclusione, oltre a 700 euro di multa. Il biglietto era falso e nulla lo aveva salvato dalla pena. Così se la fortuna non ha arriso al povero passante anche il diritto gli si è messo contro. Almeno nei primi due gradi di giudizio. C’è voluta la Cassazione, sentenza 2065/2012, per ristabilire la verità. Secondo la Suprema corte, infatti, l’elemento psicologico del reato di ricettazione va rinvenuto in degli elementi di fatto e non può fondarsi su di una “mera petizione di principio”. E cioè nell’asserita inverosimiglianza della storia raccontata dall’imputato. Così aveva fatto la Corte d’Appello di Palermo sostenendo che siccome la combinazione vincente non era immediatamente visibile, il gesto di raccogliere il biglietto non sarebbe stato credibile. E aveva aggiunto che non essendo la macchia sul biglietto riconducibile al passaggio delle gomme di un’auto, come sostenuto dall’imputato, ciò ne proverebbero la malafede. Un ragionamento smontato da Piazza Cavour secondo cui non è affatto inverosimile che una persona raccolga da terra un biglietto della lotteria per la curiosità di verificarne la combinazione. Del resto, prosegue la Corte, la gente sovente raccoglie le banconote pubblicitarie per controllarne l’autenticità. Per quanto riguarda l’impronta del pneumatico, poi, la superficie sarebbe talmente ridotta da non consentire giudizi in un senso o nell’altro. Insomma, per gli Ermellini gli elementi raccolti - soprattutto se letti in connessione con il comportamento successivo: l’essersi recato in banca di persona, l’aver presentato il biglietto e fornito copia dei propri documenti personali - non sono sufficiente ad escludere la buona fede del soggetto. Del resto, il tipo di contraffazione era tale per cui in casi analoghi più volte era sfuggita agli stessi addetti ai lavori che avevano pagato il premio, e dunque ben poteva indurre in errore l’uomo comune. In definitiva, quello che mancava nella sentenza di condanna era una adeguata motivazione che legasse la ritenuta consapevolezza della provenienza illecita del biglietto con l’assenza di un successivo comportamento da integrare, con artifizi e raggiri, i presupposti della truffa. Sentenza annullata e giudizio da rifare.