E' discriminatorio il bando di concorso pubblico come programmatore CED che chieda possesso della cittadinanza italiana come requisito per la partecipazione
Tribunale di Genova, Sezione Lavoro, Ordinanza del 19 giugno 2011
Avv. Michele Spadaro
di Milano, MI
Letto 559 volte dal 30/11/2011
massima: In particolare, si ritiene che, alla luce della Direttiva CE 2003/109, art. 11, comma 1, il requisito della cittadinanza, richiamato dall'art. 70, comma 13, d.lgs. 165/2001, deve essere riferito allo svolgimento di quelle attività che comportino l'esercizio di pubblici poteri o di funzioni di interesse nazionale mentre non può ritenersi attuale per tutte quelle attività che non sono ricollegabili a funzioni pubbliche: in caso contrario, si verrebbe a determinare una ingiustificata differenziazione discriminatoria tra cittadini e stranieri nell'accesso al lavoro, posto che non esiste alcuna concreta ragione che giustifichi un diverso trattamento fondato esclusivamente sul possesso o meno della cittadinanza italiana o comunitaria con riferimento ad attività, quale, ad esempio, quella di operatore CED, oggetto del bando di concorso qui contestato, che non comporti un concorso nell'esercizio dei poteri dello Stato.
TRIBUNALE ORDINARIO DI GENOVA
SEZIONE LAVORO
IL GIUDICE
a scioglimento della riserva formulata in udienza osserva quanto segue.
Il sig. Xxxxx ha presentato ricorso ai sensi dell'art. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998 deducendo:
di essere cittadino bielorusso residente e domiciliato in Genova e regolarmente soggiornante in Italia con carta di soggiorno di lungo periodo;
di aver presentato domanda per partecipare ad un concorso pubblico per esami per un posto di programmatore operativo CED bandito dal Comune di Savona con bando del 12 novembre 2010 e con termine per presentare la domanda entro il 13 dicembre 2010;
che la prova scritta del concorso era prevista per il 22 dicembre 2010;
di aver verificato di non essere stato inserito nell'elenco dei candidati, benchè non avesse ricevuto alcuna comunicazione dell'esclusione;
di aver chiesto ragione della sua mancata inclusione...;
che solo con raccomandata del 12 gennaio 2011 il Comune comunicò che l'esclusione era legata al fatto che il ricorrente non era in possesso della cittadinanza italiana o di uno Stato mebro dell'Unione Europea;
che tale esclusione è illegittima e costituisce comportamento discriminatorio secondo quanto disposto dagli articoli 43 e seguenti del d.lgs. n. 286 del 1998.
Il ricorrente ha, pertanto, chiesto al Tribunale di rimuovere gli effetti della discriminazione e di ordinare la cessazione del comportamento attuato dalla convenuta di non ammissione al concorso, di annullare o dichiarare efficace o disapplicare l'esclusione suddetta e ogni altro provvedimento presupposto o consequenziale, di ordinare all'amministrazione l'ammissione al concorso de quo, se del caso ordinando la rinnovazione o prosecuzione dello stesso, e di condannare la stessa amministrazione a risarcire il danno subito o a versare le retribuzioni eventualmente perdute.
[...]
Le posizioni giuridiche fatte valere in ricorso si possono qualificare come diritti soggettivi, dal momento che si contesta in questa sede la violazione da parte del Comune di Savona di un diritto fondamentale quale quello al riconoscimento della pari dignità sociale e alla non discriminazione nell'accesso al lavoro, secondo il dictum degli artt. 3 e 4 della Costituzione.
L'azione è, infatti, fondata sugli artt. 43 e 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, ed il comportamento contestato come discriminatorio consiste nella scelta del Comune di Savona di non inserire nel bando di concorso i cittadini extracomunitari, pur se regolarmente soggiornanti nel territorio nazionale.
L'articolo 43 del d.lgs. n. 286 del 1998 stabilisce che "costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica" e "costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa".
A ciò si aggiunga che l'art. 44 del d. lgs. n. 286/1998 prevede che l'azione venga esercitata dinanzi al giudice ordinario; recita, infatti, la norma che "quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione" e precisa che "la domanda si propone con ricorso depositato nella cancelleria del Tribunale del luogo del domicilio dell'istante".
Di tale avviso è stata di recente la Cassazione a Sezioni Unite che, con la sent. 15 febbraio 2011, n. 3670, ha affermato che "la chiarezza del dettato normativo non consente dubbi in ordine all'attribuzione al giudice ordinario della giurisdizione, in ordine alla tutela contro gli atti ed i comportamenti, ritenuti lesivi del principio di parità, che il d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215 (di "attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica"), all'art. 3 riconosce "senza distinzione di razza e di origine etnica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato", con riferimento, tra l'altro, anche alle "prestazioni sociali", rinviando, con il successivo art. 4, per la relativa tutela giurisdizionale, alle forme previste dal d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44, commi 1, 6 e 8 ed art. 11, vale a dire ad un procedimento di tipo cautelare, già attribuito alla cognizione del pretore (oggi sostituita da quella del tribunale), a conclusione del quale il giudice adotta un'ordinanza, di accoglimento o rigetto della domanda,... avverso il quale è dato reclamo al collegio... Tali previsioni normative, imposte dalla natura delle situazioni soggettive tutelate derivanti dal fondamentale principio costituzionale (art. 3 Cost.) di parità e dalle analoghe norme sovranazionali, in attuazione delle quali il legislatore italiano le ha adottate, comportano che, anche nella successiva fase cognitiva di merito, la giurisdizione non possa che spettare a quello stesso giudice, quello ordinario, cui è stata demandata la tutela provvisoria ed urgente delle suddette situazioni soggettive".
Ciò premesso, nel merito si osserva.
Parte convenuta sostiene la legittimità del proprio operato sulla base di alcuni dati normativi, richiamando: l'art. 51 Cost., che sembra riservare ai soli cittadini l'accesso ai concorsi pubblici, nonchè gli artt. 4 e 98 Cost., l'art. 2 del dpr 10 gennaio 1957, n. 3, che contempla la cittadinanza italiana come requisito per l'accesso agli impieghi civili dello Stato, l'art. 37 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, che, nel regolare l'accesso dei cittadini degli Stati membri della UE ai posti di lavoro presso le Amministrazioni Pubbliche, prevede anche la fissazione dei posti e delle funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, l'art. 2 del dpr 9 maggio 1994, n. 487, secondo cui "possono accedere agli impieghi civili delle pubbliche amministrazioni i soggetti che posseggono i seguenti requisiti generali: 1) cittadinanza italiana... tale requisito non è richiesto per i soggetti appartenente all'Unione Europea". Il Comune di Savona ha, altresì, invocato la sentenza n. 24170 del 2006 con cui la Suprema Corte ha affermato che "la discriminazione non è configurabile se il comportamento è tenuto in esecuzione di una normativa vigente".
Premesso che la convinzione soggettiva di aver agito conformemente al dettato di disposizioni normative non esclude di per sè la sussistenza della discriminazione, in quanto può, al più, rilevare ai fini di un eventuale risarcimento del danno ma non giustificare una disparità di trattamento, l'analisi del complesso normativo in materia di discriminazione e accesso al lavoro porta a concludere in senso opposto a quanto affermato dall'Amministrazione convenuta.
Infatti, conformemente a quanto statuito dalla giurisprudenza di merito che si è occupata della questione, non pare al Giudicante che le norme de quibus portino alle conseguenze sostenute in memoria e consistenti nella legittimità dell'operato del Comune savonese, laddove alle stesse venga data una interpretazione sistematica costituzionalmente orientata.
Se è vero che il dpr n. 487/1994 prevede il requisito della cittadinanza italiana per accedere agli impieghi civili nella pubblica amministrazione, e che tale norma è richiamata dal comma 13 dell'articolo 70 del d.lgs. n. 165 del 2001, secondo cui "in materia di reclutamento le pubbliche amministrazioni applicano la disciplina prevista dal dpr n. 487/1994 per le parti non incompatibili con quanto previsto dagli articoli 35 e 36", l'art. 2 del d.lgs. n. 286 del 1998 garantisce allo straniero presente sul territorio nazionale il godimento dei diritti fondamentali della persona e, nei commi successivi, stabilisce, a favore degli stranieri regolarmente soggiornanti, il godimento dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, la parità di trattamento e la piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani in conformità alla Convenzione OIL 143/1975 ratificata con legge n. 158/1981, il diritto alla partecipazione alla vita pubblica, la parità di trattamento con il cittadino per la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi e nei rapporti con la PA e nell'accesso ai servizi pubblici. In particolare, per quanto concerne l'accesso al lavoro, il comma 3 stabilisce la parità di trattamento e la piena eguaglianza con il cittadino italiano senza alcuna limitazione di sorta.
La richiamata Convenzione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro n. 143 del 1975 impegna l'ordinamento a "promuovere e garantire la parità di opportunità di trattamento in materia di occupazione e professione... Per le persone che, in quanto lavoratori migranti o familiari, si trovino legalmente sul territorio", aggiungendo che "ogni Stato può respingere l'accesso a limitate categorie di occupazione o funzioni, quando tale restrizione sia necessaria nell'interesse dello Stato".
Inoltre, non bisogna dimenticare che il d.lgs. n. 215 del 2003, attuativo della Direttiva Comunitaria n. 43 del 2000, nell'affermare l'applicazione del principio di parità di trattamento a tutte le persone sia nel settore pubblico che in quello privato, ha chiarito che detto principio deve regolare anche l'accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione (art. 3, comma 1, lett. a).
A tale complesso normativo devono poi essere aggiunti l'art. 27 del d.lgs. n. 286 del 1998, il quale, al comma 3, conferma l'efficacia ("rimangono ferme") delle disposizioni precedenti "che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività", e l'art. 38 del d.lgs. n. 165 del 2001, nel quale è data facoltà ad un successivo decreto del Presidente del Consiglio di individuare quegli specifici "posti e funzioni" per i quali non può prescindersi dalla cittadinanza.
A fronte delle numerose pronunce della giurisprudenza di merito, che hanno ritenuto prevalente il principio di parità di trattamento di cui all'art. 2 del testo unico sull'immigrazione, la Corte di cassazione si è espressa con la sentenza 13 novembre 2006 n. 24170, affermando che "il requisito del possesso della cittadinanza, richiesto per accedere al lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni dall'art. 2 dpr 487/1994 – norma rettificata dall'art. 70, comma 13, d.lgs. 165/2001 – e dal quale si prescinde in parte solo per gli stranieri comunitari, nonchè per casi particolari, si inserisce nel complesso delle disposizioni che regolano la materia particolare dell'impiego pubblico, fatta salva dal d.lgs. 286/1998 che, in attuazione della convenzione OIL n. 175/1995, resa esecutiva con la l. 158/1981, sancisce parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti per i lavoratori extracomunitari rispetto ai lavoratori italiani; nè l'esclusione dello straniero non comunitario dall'accesso al lavoro pubblico (al di fuori delle eccezioni espressamente previste dalla legge) è sospettabile di illegittimità costituzionale, atteso che esula dall'area dei diritti fondamentali e che la scelta del legislatore è giustificata dalle stesse norme costituzionali (art. 51, 97 e 98 Cost.)".
Peraltro, le disposizioni sopra richiamate, che confermano l'esistenza di un principio di parità di trattamento tra cittadini stranieri in materia di accesso al lavoro, consentono di discostarsi motivatamente, secondo quanto già ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di merito, dalle affermazioni della Suprema Corte.
Sul punto si osserva. Il principio di parità di trattamento tra cittadini italiani e stranieri, come noto, non opera in senso assoluto ma ammette deroghe: in particolare, in base agli artt. 10, 12 e 14 della legge n. 158/1981 di ratifica della Convenzione Oil, "ogni Stato membro può respingere l'accesso a limitate categorie di occupazione e di funzioni, qualora tale restrizione sia necessaria nell'interesse dello Stato", l'art. 26 stabilisce che "l'ingresso in Italia dei lavoratori stranieri non appartenenti all'Unione Europea che intendono esercitare nel territorio dello Stato un'attività non occasionale di lavoro autonomo può essere consentito a condizione che l'esercizio di tali attività non sia riservato dalla legge ai cittadini italiani o ai cittadini di uno degli stati membri dell'Unione" e l'art. 27 del d.lgs. n. 286 del 1998 sancisce, al comma 3, che "rimangono ferme le disposizioni che prevedono la cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività".
La giurisprudenza di merito che ha avuto occasione di occuparsi del tema in oggetto ha sostenuto graniticamente che le deroghe al principio di parità di trattamento sancito dall'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 286 possono trovare fondamento solo nel rispetto delle norme internazionali pattizie o comunitarie recepite dall'ordinamento e, dunque, per "specifiche attività" (secondo quanto si legge anche nell'art. 27 su citato) e ove ricorra un "interesse dello Stato" a precludere l'accesso al lavoro (ex art. 14 della Convenzione OIL).
In particolare, si ritiene che, alla luce della Direttiva CE 2003/109, art. 11, comma 1, il requisito della cittadinanza, richiamato dall'art. 70, comma 13, d.lgs. 165/2001, deve essere riferito allo svolgimento di quelle attività che comportino l'esercizio di pubblici poteri o di funzioni di interesse nazionale mentre non può ritenersi attuale per tutte quelle attività che non sono ricollegabili a funzioni pubbliche: in caso contrario, si verrebbe a determinare una ingiustificata differenziazione discriminatoria tra cittadini e stranieri nell'accesso al lavoro, posto che non esiste alcuna concreta ragione che giustifichi un diverso trattamento fondato esclusivamente sul possesso o meno della cittadinanza italiana o comunitaria con riferimento ad attività, quale, ad esempio, quella di operatore CED, oggetto del bando di concorso qui contestato, che non comporti un concorso nell'esercizio dei poteri dello Stato.
Pertanto, un'interpretazione costituzionalmente orientata del richiamo effettuato dall'art. 70 suddetto al possesso della cittadinanza per l'accesso al pubblico impiego, porta a ritenere che tale requisito valga solo per quei settori del pubblico impiego che comportino l'effettivo esercizio di pubblici poteri o di pubbliche funzioni.
Detta interpretazione trova conferma nella sentenza costituzionale n. 454/1998, la quale, pur con riferimento al differente tema dell'iscrizione del lavoratore straniero nelle liste speciali di collocamento dei disabili, ha espressamente messo in luce come i lavoratori extracomunitari, una volta autorizzati al lavoro subordinato stabile in Italia, devono essere posti in condizioni di parità rispetto ai cittadini nell'accesso al lavoro.
In particolare, la sentenza citata, premesso che "la questione sollevata investe l'omessa previsione, negli artt. 1 e 5 l. 30 dicembre 1986 n. 943 (norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine), del diritto dei lavoratori extracomunitari invalidi civili di ottenere l'iscrizione nell'elenco degli invalidi civili disoccupati che aspirano al collocamento obbligatorio a norma della l. 2 aprile 1968 n. 482 (disciplina generale delle assunzioni obbligatorie presso le pubbliche amministrazioni e le aziende private)" e che "tale omissione, secondo il rimettente, sarebbe in contrasto con l'art. 10 della convenzione Oil n. 143 del 24 giugnmo 1975, resa esecutiva in Italia con la l. n. 158 del 1981, che assicura parità di opportunità e di trattamento in materia di occupazione, e per questo violerebbe l'art. 10, 1° e 2° comma, Cost. Sarebbe altresì in contrasto con l'art. 2 Cost., poichè ostacolerebbe l'inserimento dei lavoratori extracomunitari invalidi nella formazione sociale costituita dall'ambiente di lavoro; nonchè con l'art. 3 Cost., per la irragionevolezza insita nell'assicurare parità di trattamento tra cittadini e stranieri extracomunitari solo dopo l'instaurazione del rapporto di lavoro subordinato", ha ritenuto la questione non fondata, "in quanto la lacuna normativa denunciata, dalla quale discenderebbe la violazione della Costituzione, non sussiste". Infatti, si legge in motivazione, "l'interpretazione del sistema normativo da cui prende le mosse il rimettente si fonda sull'assenza di una norma specifica che affermi il diritto degli extracomunitari invalidi disoccupati ad ottenere l'iscrizione negli elenchi degli aspiranti al collocamento obbligatorio. Ma, in presenza della garanzia legislativa – richiamata dallo stesso giudice a quo – di «parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti» per i lavoratori extracomunitari rispetto ai lavoratori italiani (art. 1 l. n. 943 del 1986, e oggi art. 2, 3° comma, del testo unico approvato con d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286), garanzia ulteriormente ribadita e precisata dall'art. 2, 2° comma, del testo unico n. 286 del 1998, secondo cui «lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano», salvo che le convenzioni internazionali o lo stesso testo unico dispongano diversamente, il ragionamento va rovesciato: occorrerebbe, per giungere all'accennata conclusione, rinvenire una norma che, esplicitamente o implicitamente, neghi ai lavoratori extracomunitari, in deroga alla «piena uguaglianza», il diritto in questione". Inoltre, "una volta che i lavoratori extracomunitari siano autorizzati al lavoro subordinato stabile in Italia, godendo di un permesso di soggiorno rilasciato a tale scopo o di altro titolo che consenta di accedere al lavoro subordinato nel nostro paese, e siano posti a tale fine in condizioni di parità con i cittadini italiani, e così siano iscritti o possano iscriversi nelle ordinarie liste di collocamento (come la legge esplicitamente prevedeva e prevede: cfr. il già citato art. 5, 2° comma, l. n. 943 del 1986; l'art. 9, 3° comma, d.l. n. 416 del 1989; e oggi gli art. 22, 9° comma, 23, 1° comma, 30, 2° comma, del testo unico n. 286 del 1998), essi godono di tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori italiani".
Sullo specifico tema che ci occupa la Corte costituzionale si è espressa di recente con l'ordinanza n. 139 del 2011, che ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 38, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998, censurato, in riferimento agli artt. 4 e 51 Cost., nella parte in cui non consente di estendere l'accesso ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche anche ai cittadini extracomunitari.
La Corte rileva la mancata sperimentazione da parte del Tribunale rimettente di una doverosa interpretazione della norma in senso conforme a Costituzione, evidenziando che "è lo stesso giudice a quo... a ritenere che il testo della disposizione impugnata non precluda di per sè l'accesso ai posti pubblici dei cittadini extracomunitari... riconoscendo la praticabilità in via teorica di una interpretazione della norma secundum constitutionem e la già intervenuta concreta applicazione della norma medesima in precedenti identiche occasioni"; inoltre, "il mero richiamo ad una interpretazione diversa da quella espressamente fatta propria dal rimettente si configura quale acritico riferimento ad una opinio della parte, riguardo alla quale il giudice a quo avrebbe dovuto esprimere il proprio motivato convincimento adesivo, non foss'altro che per sconfessare la validità del ragionamento seguito dal medesimo Tribunale (oltre che dallo stesso giudice in sede di decretazione di urgenza) nelle precedenti occasioni in cui si è già espresso in senso favorevole all'accesso dei cittadini extracomunitari in posti di lavoro anche in seno alle pubbliche amministrazioni". Infine, "a tale scopo non può certo bastare la semplice e neutra citazione di una (e a quanto consta allo stato isolata) pronuncia della Corte di cassazione, non potendosi certo invocare come diritto vivente".
Pertanto, alla luce di tutte le sopraesposte considerazioni, deve essere dichiarata la natura discriminatoria della condotta posta in essere dall'Amministrazione convenuta attraverso il bando di concorso contestato che ha escluso i soli cittadini extracomunitari dalla possibilità di accedere alle prove concorsuali e deve, altresì, essere affermato il diritto del ricorrente ad essere ammesso alle prove concorsuali de quibus, disapplicando il provvedimento di esclusione dalle stesse.
Poichè l'art. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998 dà la facoltà al Giudice di ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e di adottare ogni altro provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti della discriminazione, deve, in accoglimento del ricorso, ordinarsi al Comune di Savona di adottare tutti gli atti necessari per rendere effettivo il suddetto diritto e per consentire al ricorrente di espletare le prove concorsuali di cui al bando in oggetto.
Deve, viceversa, disattendersi la domanda risarcitoria. Premesso che il risarcimento non consegue ex se all'accertamento dell'esistenza di un atto discriminatorio in quanto l'art. 44, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 stabilisce che "il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale", con la conseguenza che la pretesa può trovare accoglimento solo ove sussistano i presupposti richiesti dai principi generali in tema di responsabilità aquiliana, nella specie, il ricorrente nulla ha allegato in ordine ai pregiudizi che avrebbe subito in conseguenza dell'illegittima esclusione dalle prove e si è limitato ad affermare apoditticamente che l'esclusione dal concorso è fonte di danno per perdita di chance, rimettendo la quantificazione alla valutazione equitativa del giudice, "con la base innegabile della retribuzione nella quantità che il ricorrente avrebbe mensilmente percepito con l'ottenimento del pubblico impiego".
[...]
P.Q.M.
Il Giudice accerta e dichiara la natura discriminatoria del comportamento tenuto dal Comune di Savona con l'emanazione del bando di concorso contestato;
accerta e dichiara il diritto del ricorrente a partecipare alle prove del concorso de quo;
ordina all'amministrazione convenuta di adottare tutti gli atti necessari per rendere effettivo il suddetto diritto e per consentire al ricorrente di espletare le prove concorsuali;
[...]
Genova, 29 giugno 2011.
CONDIVIDI
Commenta questo documento
L'avvocato giusto fa la differenza
Filtra per
Altri 1566 articoli dell'avvocato
Michele Spadaro
-
Nuovo concorso in pendenza di precedente graduatoria? La Pubblica Amministrazione deve motivare
Letto 325 volte dal 16/02/2014
-
Scorrimento delle graduatorie: l'amministrazione è obbligata a pronunciarsi
Letto 664 volte dal 15/10/2013
-
Graduatorie con scorrimento: i criteri per il riparto di giurisdizione
Letto 353 volte dal 22/01/2013
-
Scorrimento della graduatoria rispetto alla mobilità volontaria
Letto 522 volte dal 27/12/2012
-
Decorrenza limiti di età previsti nel bando per partecipare al concorso
Letto 1021 volte dal 17/04/2012