Discriminatorio subordinare l'accesso a concorso come operatore socio sanitario al possesso della cittadinanza italiana o UE
Tribunale di Milano, Sezione lavoro, Ordinanza del 5 ottobre 2011
Avv. Michele Spadaro
di Milano, MI
Letto 488 volte dal 01/12/2011
massima: Ora non sembra si possa dubitare del fatto che il personale infermieristico, il personale tecnico sanitario e gli operatori socio sanitari non siano chiamati a svolgere pubblici poteri e funzioni poste a tutela dell'interesse nazionale... Ne consegue che un requisito come quello della cittadinanza può essere richiesto, senza assumere connotati di discriminatorietà, solo in quanto giustificato da ragioni oggettive che legittimano un trattamento differenziato tra cittadini italiani, o dell'Unione Europea, e cittadini extracomunitari.
TRIBUNALE ORDINARIO DI MILANO
SEZIONE LAVORO
[...]
A scioglimento della riserva, il Giudice osserva quanto segue.
In fatto
Con ricorso ai sensi degli artt. 44 D. Lgs. n. 286/98 e 4 D. Lgs. n. 215/03, Xxxx e Yyyyy hanno chiesto l'accertamento del carattere discriminatorio del comportamento tenuto dall'Azienda di Servizi alla Persona Istituti Milanesi Martinitt e Stelline e Pio Albergo Trivulzio consistente nell'aver previsto tra i requisiti per partecipare ai bandi di concorso...... e agli avvisi pubblici..., il requisito della cittadinanza italiana o comunitaria, con conseguente ordine di cessare il comportamento discriminatorio e di rimuoverne gli effetti, modificando i bandi e gli avvisi e consentendo l'accesso alle prove selettive a tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti e riaprendo o prorogando i termini per almeno un mese per la domanda di ammissione alle selezioni e fissando nuova data per l'espletamento dei colloqui; i ricorrenti hanno chiesto altresì che alla convenuta venga ordinato di pubblicare il dispositivo dell'emanando provvedimento sul proprio sito e su un giornale a tiratura nazionale, nonchè di affiggerlo in tutti i propri locali aperti al pubblico.
Costituendosi in giudizio l'Azienda convenuta ha contestato la fondatezza delle pretese avversarie, di cui ha chiesto il rigetto.
In diritto
Devono in primo luogo essere superate le eccezioni avanzate in via pregiudiziale e preliminari della convenuta.
Per quanto concerne in primo luogo la giurisdizione, con la recente ordinanza n. 7186/11 le S.U. della Cassazione, in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, hanno affermato la giurisdizione del giudice ordinario nel caso di azione promossa contro la decisione dell'amministrazione datrice di lavoro di escludere dale procedure di stabilizzazione alcuni lavoratori extracomunitari perchè privi della cittadinanza italiana.
In particolare l'ordinanza afferma che "In tema di azione ai sensi dell'art. 44 del T.U. Sull'immigrazione (d.lgs. n. 286 del 1998), il legislatore, al fine di garantire parità di trattamento e vietare ingiustificate discriminazioni per "ragioni di razza ed origine etnica", ha configurato una posizione di diritto soggettivo assoluto a presidio di un'area di libertà e potenzialità del soggetto, possibile vittima delle discriminazioni, rispetto a qualsiasi tipo di violazione posta in essere sia da privati che dalla P.A., senza che assuma rilievo, a tal fine, che la condotta lesiva sia stata attuata nell'ambito di procedimenti per il riconoscimento, da parte della P.A., di utilità rispetto a cui il privato fruisca di posizioni di interesse legittimo, restando assicurata una tutela secondo il modulo del diritto soggettivo e con attribuzione al giudice del potere, in relazione alla variabilità del tipo di condotta lesiva e della preesistenza in capo al soggetto di posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo a determinate prestazioni, di "ordinare la cessazione del comportamento pregiudievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione".
La fattispecie oggetto del presente giudizio è del tutto analoga a quella sottoposta alle S.U. e nessun rilievo può assumere il fatto che in quel caso si vertesse in tema di stabilizzazione: la S.C., infatti, ha espressamente chiarito che la giurisdizione prescinde dalla qualificabilità o meno come concorsuale della procedura in esame, e si ricollega invece alla inquadrabilità della tutela del privato rispetto alla discriminazione come posizione di diritto soggettivo assoluto, anche se "ai fini e nei limiti delle esigenze di repressione della (in ipotesi) illegittima discriminazione".
La convenuta contesta, inoltre, l'appartenenza dello strumento azionato dai ricorrenti all'ambito di operatività previsto dalla normativa invocata: in particolare sostiene che sia l'art. 3 del D. Lgs. n. 215/03 sia l'art. 43 del T.U. Sull'immigrazione non ricomprendano la cittadinanza tra i motivi di discriminazione, con la conseguenza che, poichè si tratta di una fattispecie non prevista dalla normativa speciale suddetta, non si può applicare la giurisdizione speciale prevista dalla normativa medesima.
Tali considerazioni, peraltro, attengono piuttosto al merito della controversia in quanto, se ritenute fondate, idonee a comportare il rigetto della domanda e non una declaratoria di difetto di giurisdizione: se ne terrà quindi conto nel prosieguo.
La convenuta contesta altresì, in via preliminare, la legittimazione attiva delle associazioni ricorrenti.
Anche tale eccezione appare infondata.
L'art. 5 del D. Lgs. n. 215/03, in tema di legittimazione ad agire, dispone: "Sono legittimati ad agire ai sensi degli articoli 4 e 4bis, in forza di delega, rilasciata, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata autenticata, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, le associazioni e gli enti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell'azione". Al 3° comma la norma specifica: "Le associazioni e gli enti inseriti nell'elenco di cui al comma 1 sono, altresì, legittimati ad agire ai sensi degli articoli 4 e 4bis nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione".
L'Azienda convenuta non contesta l'esistenza, in capo alle associazioni ricorrenti, del requisito dell'iscrizione negli appositi elenchi, bensì la presenza dei requisiti processuali: in particolare sostiene che, nel caso di specie, non è possibile sostenere l'indeterminatezza e/o la difficile individuazione dei soggetti eventualmente lesi dai comportamenti dell'Amministrazione resistente.
Nella fattispecie in esame ricorre invece sicuramente la fattispecie della discriminazione collettiva descritta dalla norma: è vero che i soggetti potenzialmente lesi sono individuati nei soggetti che, in possesso di idonei titoli abilitativi, non sono ammessi a partecipare alla procedura selettiva a causa della mancanza del requisito della cittadinanza e che soltanto una ulteriore ben definita fascia di tali soggetti vanta, in concreto, un interesse attuale alla partecipazione alla procedura medesima... ma si tratta comunque di un numero indeterminato di soggetti la cui specifica individuazione non è immediatamente percepibile e la cui riconducibilità al gruppo non è diretta.
La norma in esame si riferisce appunto al caso in cui la pretesa discriminazione colpisca una determinata categoria di soggetti, qualificati dal medesimo interesse ma non concretamente individuabili con immediatezza: il gruppo di soggetti a cui è rivolta la discriminazione ha pertanto contorni ben definiti, ma i soggetti potenzialmente lesi non possono essere determinati, e ciò giustifica l'attribuzione della legittimazione ad agire contro la discriminazione ad enti e associazioni appositamente individuate.
Nel caso di specie infine è evidente che, trattandosi appunto di discriminazione collettiva, le associazioni ricorrenti agiscono "a sostegno del soggetto passivo della discriminazione" (ai sensi dell'art. 5, 1° comma, D. Lgs. n. 215/03) e non in nome e per conto dello stesso, ed in particolare delle due ricorrenti: non è pertanto necessaria alcuna delega e neppure può ritenersi che le associazioni ricorrenti dovessero partecipari quali intervenienti adesivi.
Infatti la norma è chiara nell'attribuire alle associazioni e agli enti iscritti negli appositi elenchi la legittimazione ad agire con la veste formale di attori del giudizio.
Passando a considerare il merito della controversia, i fatti oggetto di causa sono pacifici.
L'Azienda convenuta ha indetto tre concorsi pubblici e tre avvisi pubblici e, tra i requisiti per parteciparvi, è previsto quello della "cittadinanza italiana, fatte salve le equiparazioni stabilite dalle leggi vigenti, o cittadinanza di uno dei Paesi dell'Unione Europea".
La ricorrente Xxxxx, cittadina dell'Ecuador, ha presentato domanda di partecipazione al concorso pubblico per operatore socio sanitario di cui al bando del ......; la ricorrente Yyyyy, cittadina dell'Ecuador e moglie di un cittadino italiano, ha presentato domanda per il concorso pubblico per operatore socio sanitario di cui al bando del .........
L'Azienda convenuta sostiene la piena legittimità del proprio comportamento e della clausola inserita nei bandi, in quanto rispettosi dei limiti imposti dalla legge: in particolare la cittadinanza italiana costituisce requisito essenziale per l'accesso al lavoro pubblico, con le sole eccezioni previste dalla legge.
A tal fine la convenuta invoca l'art. 2, 1° comma, del DPR 3/57, l'art. 38 del D.Lgs. n. 165/01 ed il DPCM 174/94, il DPR n. 487/94, l'art. 70, 13° comma del D. Lgs. n. 165/01 e l'art. 2 del DPR n. 220/01.
In particolare il DPR n. 487/94 – che deve essere applicato dalle PPAA in materia di reclutamento ai sensi dell'art. 70, comma 13, del D. Lgs. n. 165/01 – dispone che "possono accedere agli impieghi civili delle pubbliche amministrazioni i soggetti che posseggono i seguenti requisiti generali: 1) cittadinanza italiana...".
La convenuta afferma, quindi, che non sono configurabili alcun comportamento illecito e alcuna discriminazione ingiusta, in quanto il proprio comportamento è conforme ad una prescrizione legislativa.
Il giudicante ritiene invece che la previsione del requisito della cittadinanza dei bandi di concorso e negli avvisi pubblici sopra specificati costituisca discriminazione ai sensi dell'art. 43 del D. Lgs. n. 286/98 e dell'art. 2 del D. Lgs. n. 215/03.
Innanzi tutto presupposto per l'accoglimento della domanda ex art. 44 del D. Lgs. n. 286/98 e 4 del D. Lgs. n. 215/03 è l'accertamento della natura discriminatoria della condotta denunciata, vale a dire la realizzazione di una obiettiva condizione di trattamento diseguale, indipendentemente dal processo di formazione della volontà e dalla presenza o meno di un intento lesivo da parte del soggetto agente.
L'art. 43 del D. Lgs. n. 286/98 definisce infatti discriminazione "ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza" e l'art. 2 del D. Lgs. n. 215/03 ravvisa discriminazione indiretta "quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza o origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone".
Si ritiene inoltre che il quadro normativo nazionale e comunitario in materia sia chiaramente orientato ad affermare il principio di eguaglianza e parità di trattamento tra cittadini extracomunitari e cittadini italiani.
In primo luogo, contrariamente a quanto sostenuto dalla convenuta, non si può ritenere che l'art. 43 del D. Lgs. n. 286/98, in quanto si riferisce solo all'esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali, non possa essere esteso all'accesso al pubblico impiego, che non costituisce diritto fondamentale.
Infatti è la stessa norma che, al punto c) del comma 2, contempla tra gli atti di discriminazione quelli che ostacolano l'accesso all'occupazione dello straniero regolarmente soggiornante in Italia.
Inoltre non può ritenersi che la normativa vigente impedisca l'accesso del lavoratore extracomunitario al pubblico impiego.
In primo luogo nell'art. 51 della Costituzione non può essere rinvenuta la volontà del legislatore costituzionale di limitare ai cittadini l'accesso ai pubblici uffici: infatti il 1° comma deve essere letto quale garanzia per i cittadini e non quale limitazione rivolta a chi cittadino non è, ed il 2° comma afferma appunto la possibilità che anche chi non appartiene alla Repubblica acceda ai pubblici uffici.
Inoltre l'art. 2 del D. Lgs. n. 286/98 al 3° comma stabilisce che "La Repubblica italiana, in attuazione della convenzione dell'OIL n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con legge 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani".
L'art. 10 della Convenzione OIL sopra citata prevede infatti che "Ogni membro... si impegna a formulare e attuare una politica nazionale diretta a promuovere e garantire... la parità di opportunità e di trattamento in materia di occupazione e di professione, di sicurezza sociale, di diritti sindacali e culturali nonchè di libertà individuali e collettive per le persone che in quanto lavoratori migranti o familiari degli stessi si trovino legalmente sul suo territorio; l'art. 12 dispone che "Ogni Stato membro deve... abrogare qualsiasi disposizione legislativa e modificare qualsiasi disposizione o prassi amministrativa incompatibili con la predetta politica"; l'art. 14 dispone che "Ogni Stato membro può... respingere l'accesso a limitate categorie di occupazioni e di funzioni qualora tale restrizione sia necessaria nell'interesse dello Stato".
Il disposto della normativa invocata dall'Azienda convenuta (art. 2 del DPR n. 487/984, richiamato dal comma 13 dell'art. 70 del D. Lgs. n. 165/01), al di là di ogni questione relativa alla sua legittimità costituzionale e di ogni questione relativa ad una sua eventuale abrogazione, deve essere vagliato alla luce dell'art. 117 della Costituzione, che "condiziona l'esercizio della potenza legislativa dello Stato e delle regioni al rispetto degli obblighi internazionali" (sentenze n. 348 e 349 del 24-10-07 della Corte Costituzionale).
Se il giudice accerta la non conformità di una norma dello Stato alle norme internazionali pattizie, previa verifica della conformità di queste ultime alla Costituzione, egli può o sottoporre la norma alla Corte Costituzionale o procedere ad una interpretazione costituzionalmente orientata, tenendo conto che la norma pattizia costituisce parametro interposto di valutazione della costituzionalità delle leggi.
Nel caso di specie i principi affermati dalla Convenzione OIL sopra riportati sono sicuramente rispettosi del dettato costituzionale.
Pertanto una lettura costituzionalmente orientata delle norme richiamate dalla convenuta impone di ritenere che l'accesso al pubblico impiego da parte di un cittadino extracomunitario possa essere limitato solo in presenza di un interesse nazionale.
Per quanto concerne l'individuazione di che cosa debba intendersi per interesse nazionale, l'art. 38 del D. Lgs. n. 165/2001, al 1° comma dispone che "I cittadini degli Stati membri dell'Unione Europea possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell'interesse nazionale" e al 2° comma prevede l'individuazione, con DPCM dei posti e delle funzioni "per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana": tale norma è attuata con il DPCM n. 174/94, richiamato dalla stessa convenuta.
Ora non sembra si possa dubitare del fatto che il personale infermieristico, il personale tecnico sanitario e gli operatori socio sanitari non siano chiamati a svolgere pubblici poteri e funzioni poste a tutela dell'interesse nazionale nè la convenuta sostiene la configurabilità di posizioni incompatibili con le finalità sopra evidenziate.
Lo stesso art. 3 della l. n. 215/03 prevede: "Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell'art. 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari".
Ne consegue che un requisito come quello della cittadinanza può essere richiesto, senza assumere connotati di discriminatorietà, solo in quanto giustificato da ragioni oggettive che legittimano un trattamento differenziato tra cittadini italiani, o dell'Unione Europea, e cittadini extracomunitari.
La fattispecie in esame rientra pienamente nella previsione dell'art. 43, 2° comma, lettera c) del D. Lgs. n. 286/98 e degli artt. 2, 1° e 2° comma, e 3, 1° comma, lettera a) del D. Lgs. n. 215/03.
L'Azienda convenuta ha obiettato che l'art. 3 del D. Lgs. n. 215/03 riferisce espressamente la parità di trattamento alla razza e all'origine etnica, non anche alla cittadinanza; analogamente anche nell'art. 43 del T.U. sull'immigrazione tra i motivi di discriminazione non è ricompresa la cittadinanza che, sottolinea la convenuta, è un concetto distinto da quello di nazionalità.
Innanzi tutto si rileva che il 2° comma dell'art. 2 del D. Lgs. n. 215/03, intitolato "nozione di discriminazione" espressamente fa salvo il disposto dell'art. 43, 1° e 2° comma, del D. Lgs. n. 286/98: in particolare il 2° comma, alla lettera c), fa espresso riferimento anche alla cittadinanza.
Inoltre nella stessa memoria di costituzione della convenuta... si legge che la cittadinanza, da tenersi distinta dalla nazionalità, è uno status del cittadino ma anche un rapporto giuridico tra cittadino e Stato, nel senso che le persone che non hanno la cittadinanza di uno Stato sono stranieri se hanno quella di un altro Stato o apolidi se non hanno alcuna cittadinanza.
Ora la lettera c) del 2° comma dell'art. 43 fa rientrare tra quelli che "in ogni caso" devono essere ritenuti atti di discriminazione l'imposizione di condizioni più svantaggiose o il rifiuto di fornire l'accesso alla occupazione, allo straniero regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione di straniero: secondo quanto sostenuto dalla stessa convenuta la condizione di straniero equivale appunto alla mancanza di cittadinanza italiana.
Il comportamento dell'Azienda convenuta, consistente nell'aver previsto tra i requisiti per la partecipazione ai bandi di concorso del .... e agli avvisi pubblici del ..... quello della cittadinanza italiana o comunitaria, deve pertanto essere dichiarato illegittimo.
All'Azienda convenuta deve quindi essere ordinata la cessazione del comportamento e, al fine della rimozione degli effetti, la pubblicazione di nuovi bandi ed avvisi, modificandoli al fine di consentire l'accesso a tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti, la riapertura del termine per la presentazione delle domande di ammissione, assegnando un termine non inferiore a quello previsto per i precedenti bandi ed avvisi, nonchè la pubblicazione sul sito della convenuta e l'affissione in tutti i locali aperti al pubblico della convenuta medesima del dispositivo del presente provvedimento.
[...]
P.Q.M.
Dichiara la discriminatorietà del comportamento dell'Azienda di Servizi alla Persona Istituti Milanesi Martinitt e Stelline e Pio Albergo Trivulzio consistente nell'aver previsto tra i requisiti per partecipare ai bandi di concorso del... e agli avvisi pubblici ... il requisito della cittadinanza italiana o comunitaria;
ordina alla convenuta di cessare il comportamento discriminatorio;
ordina alla convenuta di pubblicare nuovi bandi e avvisi, rimuovendo il requisito della cittadinanza italiana o comunitaria;
ordina alla convenuta di riaprire i termini per le domande di ammissione ai bandi e avvisi pubblici sopra indicati, assegnando un termine non inferiore a quello precedente;
ordina alla convenuta di pubblicare il presente dispositivo sul proprio sito e di affiggerlo nei propri locali aperti al pubblico;
[...]
Milano, 4-10-11
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