Univoco è l’insegnamento di questa Corte secondo il quale incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso di causalità tra l’una e l’altra, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno. In particolare, nel caso in cui si discorra di misure di sicurezza cosiddette “innominate”, ex art. 2087 c.c., la prova liberatoria a carico del datore di lavoro risulta generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe (v. Cass. n. 12445 del 2006; Cass. n. 3033 del 2012; Cass. n. 15082 del 2014; Cass. n. 4084 del 2018; Cass. n. 27964 del 2018; Cass. n. 10319 del 2019;). Secondo talune decisioni, poi, si nega che il lavoratore debba specificamente indicare le misure che avrebbero dovuto essere adottate in prevenzione (Cass. n. 3788 del 2009; Cass. n. 21590 del 2008; Cass. n. 9856 del 2002; Cass. n. 1886 del 2000; Cass. n. 3234 del 1999).