La Corte di Cassazione, 3^ Sez. civile, con la sentenza n. 4493 del 24.02.2011 ha precisato che “… allorquando il grado di invalidità non consenta, per la sua entità e o per il non attuale esercizio di attività lavorativa da parte del soggetto leso, una valutazione prognostica e dunque l’apprezzamento del lucro cessante, va privilegiato un meccanismo di liquidazione (quello del danno alla salute) capace di cogliere nella sua totalità il pregiudizio subito dal soggetto nella sua integrità psico-fisica”. Tizio viene tamponato dal ciclomotore di Caio mentre si trova a bordo della propria bicicletta, riportando lesioni alla gamba destra. Il Tribunale di Milano, dinanzi al quale Tzio agisce nei confronti di Caio per ottenere il risarcimento delle lesioni subite, riconosce al primo la somma di L. 44.914.000 a titolo di risarcimento del danno biologico per le lesioni accertate, dalle quali sono residuati postumi permanenti quantificati nella misura del 10% del danno biologico. Tizio impugna la sentenza di primo grado chiedendo il riconoscimento del danno da lucro cessante per la diminuzione della capacità lavorativa generica e specifica a seguito del sinistro de quo; tuttavia, la Corte d’Appello di Milano respinge il gravame e Tizio ricorre in Cassazione. La Suprema Corte richiama l’orientamento giurisprudenziale ampiamente consolidato, secondo il quale il danno biologico e il danno da lucro cessante non appartengono alla stessa sfera di riferimento, poichè per il primo occorre avere prevalentemente riguardo alla gravità dell’inabilità, mentre per il secondo alla riduzione della capacità di guadagno (in questo senso, tra le altre, Cass. civ. 19.01.1999 n.475; Cass. civ. 11.05.1999 n. 4653; Cass. civ. 10.08.2000 n.10579; nello stesso senso, anche la giurisprudenza successiva, tra cui Cass. civ. 27.06.2007, n. 14840, secondo cui il danno da lesione della “cenestesi lavorativa” non è “…una autonoma voce di danno da lucro cessante ma impone di personalizzare con un adeguato aumento percentuale il risarcimento ordinariamente praticato del danno biologico corrispondente”). Il c.d. danno da “cenestesi lavorativa” – ovvero la maggiore fatica, il maggior tempo che occorrono per svolgere una attività lavorativa a seguito delle lesioni subite in un sinistro – di entità tale da non incidere sul reddito del danneggiato neanche come “perdita di chances” (perdita della possibilità di incremento patrimoniale), non comporta una diminuzione patrimoniale, ma soltanto “una compromissione dell’essenza biologica dell’individuo”; pertanto, va liquidato come danno alla salute (vedi, in tal senso, Cass. civ. n. 9311 del 2007). Relativamente alla richiesta di risarcimento della capacità lavorativa specifica (Tizio ha contestato il mancato ricorso alle presunzioni in merito all’incidenza dei postumi della frattura alla gamba su un lavoro di tipo manuale), la Suprema Corte ha ritenuto corretta l’applicazione – da parte della Corte d’Appello – del principio secondo cui il danneggiato deve indicare specificamente l’attività produttiva di reddito che svolge o avrebbe svolto (Tizio ha 20 anni), e dimostrare che – a causa dell’infortunio subito – non è più in grado di svolgere la stessa (neanche in futuro), nè altre attività confacenti alle proprie attitudini e condizioni personali e ambientali (sul punto, cfr. Cass. Civ. S.U. n. 20321, depositata il 20.10.2005). Per questi motivi, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di Tizio, condannando quest’ultimo al pagamento delle delle spese del procedimento. Roma, 27.02.2011 Avv. Daniela Conte RIPRODUZIONE RISERVATA