Status di rifugiato politico alla cittadina nigeriana che si sottrae alla pratica della infibulazione
Corte Appello Catania, Sezione Famiglia, Persona e Minori, Sentenza del 27 novembre 2012
Avv. Michele Spadaro
di Milano, MI
Letto 289 volte dal 21/06/2013
Viene accolto il reclamo e, in riforma della sentenza impugnata, è riconosciuto alla reclamante, cittadina nigeriana, lo stato di rifugiato politico. La situazione della ricorrente merita di essere esaminata sotto il profilo del riconoscimento dello status di rifugiato, in quanto ella adduce ragionevole timore, fondato sui fatti già avvenuti nel suo paese, di subire violenza per la appartenenza al genere femminile e specificamente di avere corso e correre il concreto rischio di essere sottoposta nel suo paese di origine ad un trattamento inumano e degradante quale è la pratica della infibulazione. Il racconto della reclamante appare attendibile sia per la descrizione particolareggiata dei preparativi e della modalità con cui è riuscita a scappare, sia per la esatta individuazione delle finalità della mutilazione, che per il riscontro oggettivo.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte d’Appello di Catania, Sezione della Famiglia della Persona e dei Minori, [...]
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
[...]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 27 maggio 2010 A F. ha proposto reclamo avverso la sentenza del Tribunale di Catania [...] che harigettato il ricorso dalla stessa proposto avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale emesso dalla Commissione Territoriale di Siracusa in data 1.7.2009.
Lamenta la ricorrente che il primo giudice non ha valutato adeguatamente la situazione dedotta tramite le dichiarazioni da lei rese nel corso dell’audizione presso la medesima Commissione, errando altresì nell’applicazione dei criteri previsti dalla vigente normativa per il reperimento della prova dei fatti addotti dal richiedente la protezione internazionale,avendo ella subito atti persecutori legati alla appartenenza al genere femminile, con il tentativo di infliggerle la infibulazione, pratica in uso nel suo paese di origine, ed alla quale si era sottratta fuggendo. Insisteva pertanto nella richiesta di protezione internazionale, quantomeno nella forma della protezione sussidiaria.
[...]
MOTIVAZIONE DELLA DECISIONE
La invocata protezione internazionale trova la sua fonte normativa e la relativa regolamentazione nel Decreto Legislativo 19 novembre 2007, n. 251, che, quanto allo status di rifugiato, prevede che può essere considerato tale (art. 2 lett. e) il “cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese”, mentre considera “persona ammissibile alla protezione sussidiaria" il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, ……, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese” (art. 2 lett. g) e a tale fine definisce poi danni gravi: a) la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte; b) la tortura o altra forma di pena o
trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale (art. 14).
Si deve premettere che il regime dell'onere della prova in tema di accertamento del diritto ad ottenere una misura di protezione internazionale, è attenuato nel senso che, se il richiedente non ha fornito prova di alcuni elementi rilevanti ai fini della decisione, le allegazioni dei fatti non suffragati da prova devono essere ritenuti
comunque veritieri se il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, ha fornito un'idonea motivazione dell'eventuale mancanza di altri elementi significativi, e se le dichiarazioni rese sono coerenti, plausibili e correlate alle informazioni generali e specifiche riguardanti il caso. Inoltre deve essere valutato se il ricorrente ha presentato la domanda il prima possibile o comunque ha avuto un valido motivo per ritardarla e dai riscontri effettuati il richiedente è attendibile. (Cassazione civile, sez. VI, 18/02/2011, n. 4138)
Nel caso di specie quindi, posto che la ricorrente ha presentato la domanda poco dopo lo sbarco in Italia ed ha dichiarato di essere fuggita dal suo paese mentre tentavano di sottoporla a mutilazione dei genitali (infibulazione) con indosso solo la camicia, e quindi senza documenti o altro, ed è verosimile che essendosi ribellata alla famiglia ed al contesto sociale non abbia più contatti con l’ambiente di provenienza, si valuterà essenzialmente la credibilità del racconto, la sua compatibilità con il quadro generale descritto dai rapporti dell’UNHCR e di Amnesty International con riferimento alla condizione femminile nel suo paese,ed i riscontri oggettivi forniti dalla stessa (certificato medico). Ritiene questa Corte che la situazione della ricorrente meriti di essere esaminata sotto il profilo del riconoscimento dello status di rifugiato, in quanto ella adduce ragionevole timore, fondato sui fatti già avvenuti nel suo paese, di subire violenza per la appartenenza al genere femminile e specificamente di avere corso e correre il concreto rischio,in concreto, di essere sottoposta nel suo paese di origine ad un trattamento inumano e degradante quale è la pratica della infibulazione.
Il racconto della reclamante, che riferisce del tentativo dei suoi parenti di sottoporla ad infibulazione, appare attendibile sia per la descrizione particolareggiata dei preparativi e della modalità con cui è riuscita a scappare, sia per la esatta individuazione delle finalità della mutilazione, che per il riscontro oggettivo: ella infatti ha raccontato di essere stata picchiata nel corso del tentativo di sottoporla a mutilazione ed invero i segni di queste percosse sono ancora visibili all’esame medico avvenuto in Italia in data 4.3.2011 e documentate come in atti.
Il racconto della ricorrente è pienamente compatibile con il quadro generaledella situazione, descritto da fonti attendibili. Secondo un recente rapporto di Amnesty International le mutilazioni genitali femminili (MGF), che comprendono un insieme di pratiche rituali tradizionali connesse a riti d'iniziazione femminile e d'integrazione sociale, e che si sostanziano nella asportazione di parte dei genitali femminili, in Africa sono praticate in almeno 28 paesi, in particolare nella parte centrale del continente. I paesi dove la pratica è maggiormente diffusa, raggiungendo circa il 90% della popolazione femminile, sono: Somalia, Gibuti, Sudan, Etiopia,ma anche alcune regioni e gruppi di popolazione del Kenya, Mali, Mauritania e della Nigeria, paese di origine della ricorrente, che proviene peraltro da una zona particolarmente provata da lotte etniche ed economiche (delta del Niger).
Secondo una stima dell'Organizzazione mondiale della sanità ogni anno sarebbero circa tre milioni le ragazze e le bambine a rischio, mentre ammonterebbe a 100 - 140 milioni il numero totale di donne e bambine che hanno subito mutilazioni genitali nel mondo. Le MGF sono una pratica estremamente radicata: difese dalla comunità d'origine in nome della tradizione, spesso anche le donne che le subiscono non sono in grado di opporvisi e anzi le appoggiano, per paura dello stigma sociale e dell'emarginazione che colpisce chi non vi si adegua.
Costituiscono quindi una forma di violenza, morale e materiale discriminatoriadi genere, legata cioè alla appartenenza al genere femminile. Di recentela questione, come risulta da un report pubblicato sul sito del Ministero degli Affari Esteri, è stata esaminata da parte della Terza Commissione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha adottato la a Risoluzione sull’“intensificazione degli sforzi sul piano globale per l’eliminazione delle mutilazioni genitali femminili”.
All’adozione definitiva del documento dovrà procedere l’Assemblea Generale nella sessione plenaria, e ci si attende che avvenga entro dicembre del corrente anno. I dettagli del racconto della ricorrente (ad esempio che la mutilazione viene eseguita senza anestesia mentre la donna viene tenuta ferma) corrispondono anche a quanto descritto in una nota che nel maggio 2009 è stata diffusa dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR- United Nations High Commissioner for Refugees): in essa si specifica che laMGF può considerarsi unaforma di violenza basata sul genere che infligge grave danno, sia fisico che mentale, e costituisce persecuzione, tortura e trattamento crudele, inumano o degradante, e si precisa che è possibile che una donna venga sottoposta anche più volte alla stessa pratica, ad esempio prima del matrimonio e dopo il parto. Secondo detta notal a MGF non viene nemmeno vissuta, in sede locale, come una forma di violenza, ma come un adeguamento a valori culturali e religiosi.Inoltre, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ritiene che sottoporre una donna a MGF costituisce maltrattamento contrario all’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.(CEDU: Emily Collins and Ashley Akaziebie v. Sweden, Applicazione n. 23944/05, 8 marzo 2007).Secondo l’UNHCR l’avere subito o volersisottrarre a detta pratica costituisce un fondato timore di essere perseguitati, “per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche”, in quanto collegato a ragioni di appartenenza a un determinato gruppo sociale, ma anche di opinione politica religione. La MGF viene inflitta a ragazze e donne perché sono di genere femminile, per affermare potere su di loro e per controllare la loro sessualità. La pratica quindi fa parte di un più ampio modello di discriminazione contro ragazze e donne in una specifica società. La nota dell’UNHCR mette inoltre in evidenza che anche se una donna è riuscita a sottrarsi alla MGF, ovvero si rifiuta di sottoporre a tale pratica le sue figlie, ella corre il rischio concreto, anche se riesce a sfuggire alla mutilazione, di essere considerata, nel paese ove essa è praticata, un oppositore politico ovvero come un soggetto che si pone fuori dai modelli religiosi e dai valori sociali, e quindi essere perseguitata per tale motivo.
Ne consegue allora che sussistono i presupposti per riconoscere alla ricorrente lo status di rifugiato, perché ella possa scottarsi a questa violenza di genere e trattamento discriminatorio ed inoltre, posto che risulta avere fondato una famiglia, possa sottrarre anche la sua famiglia al rischio di dovere subire gli effetti di questa discriminazione. Il reclamo va pertanto accolto.
[...]
P. Q. M.
La Corte accoglie il reclamo e in riforma della sentenza del Tribunale di Catania [...] riconosce alla reclamante lo stato di rifugiato politico.
[...]
Così deciso in Catania,camera di consiglio del 27 novembre 2012
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