Diniego cittadinanza italiana illegittimo se la richiedente non ha reddito ma ha condizioni familiari economiche adeguate
Consiglio di Stato, Terza Sezione, sentenza del 5 giugno 2012, n. 3306
Avv. Michele Spadaro
di Milano, MI
Letto 568 volte dal 27/07/2012
E’ illegittimo il provvedimento di rigetto della domanda di cittadinanza italiana, opposto alla straniera che non ha dimostrato di possedere un reddito sufficiente così da assolvere i connessi obblighi fiscali e previdenziali. Al caso di specie, che vede la presenza, quale soggetto richiedente, di donna straniera coniugata, il provvedimento appare erroneamente motivato nella parte in cui presuppone che si debba tener conto esclusivamente del reddito personale in senso stretto e non anche delle condizioni economiche della famiglia nel suo complesso. Ciò, in virtù di un principio di civiltà giuridica, che, oltre ad aver dato risalto alla “pari dignità” del lavoro domestico della casalinga, ha garantito alla donna coniugata, ove sprovvista di reddito proprio, un adeguato sostentamento economico sia in costanza che in scioglimento di matrimonio.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
[...]
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA [...] concernente diniego concessione cittadinanza italiana
[...]
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. L’appellante, già ricorrente in primo grado, cittadina russa residente in Italia unitamente al coniuge cittadino iraniano e due figli minori nati in Italia, nell’anno 2002 ha chiesto la concessione della cittadinanza italiana.
Con decreto 13 giugno 2005 il Ministro dell’Interno ha rigettato l’istanza, con la motivazione che l’interessata «non ha percepito redditi personali ... e non è stata esibita alcuna dichiarazione dei redditi, né evidenziati gli eventuali motivi di esonero».
La motivazione prosegue con alcuni richiami al «dovere di solidarietà che... il richiedente la cittadinanza deve dare, al pari di tutti i componenti della comunità nazionale, alla vita collettiva».
Il provvedimento dunque presuppone, per implicito, che il “dovere di solidarietà” si manifesti essenzialmente mediante l’assolvimento degli obblighi fiscali e che pertanto una persona che non disponga di redditi propri soggetti ad imposizione fiscale sia oggettivamente non in grado di dare il suo contributo di solidarietà alla vita collettiva e non possa conseguire la cittadinanza.
2. L’interessata ha proposto ricorso al T.A.R. Lombardia, poi trasposto per competenza al T.A.R. Lazio. Quest’ultimo ha respinto il ricorso [...]. La decisione è basata su considerazioni sostanzialmente coincidenti con la linea di pensiero espressa nella motivazione del decreto ministeriale.
3. L’interessata propone appello davanti a questo Consiglio, ribadendo, in punto di fatto, che ella è inserita un contesto familiare stabile e di condizioni economiche più che buone, come dimostrato dalla documentazione fiscale relativa al marito.
Inoltre ella risulta proprietaria di un appartamento (diverso dalla casa coniugale) avuto in donazione dal coniuge. Sostiene che la donna coniugata, che svolge attività di casalinga, è comunque una lavoratrice che in tal modo dà il suo contributo alla famiglia ed alla comunità nazionale; pertanto, il fatto che non percepisca un reddito autonomo rispetto a quello del marito convivente non la caratterizza come una “parassita” e non giustifica di per sé il diniego della cittadinanza italiana.
L’appellante ripropone altresì la tesi che il decreto ministeriale impugnato sia intervenuto quando si era già formato il silenzio-assenso, essendo scaduto il termine per la definizione del procedimento (730 giorni).
[...]
5. Il Collegio ritiene opportuno innanzi tutto sgomberare il campo dalla questione del silenzio-assenso, trattandosi di questione logicamente prioritaria (ed invero, se il silenzio-assenso si fosse formato, non vi sarebbe luogo a discutere del resto).
A questo proposito sono condivisibili le deduzioni dell’Avvocatura dello Stato, la quale osserva che la concessione della cittadinanza italiana è un atto “di alta amministrazione” e di natura concessoria, come tale incompatibile con il silenzio-assenso.
Correttamente la difesa dell’Amministrazione mette in evidenza che la legge n. 91/1992 contiene bensì la previsione di un termine scaduto il quale la richiesta di cittadinanza non può essere più respinta, ma si tratta di una previsione eccezionale dettata con riferimento alla fattispecie della cittadinanza richiesta dal coniuge straniero di un cittadino italiano; fattispecie che ragionevolmente merita un trattamento di favore considerato che prima della legge n. 91/1992 la donna straniera che si coniugasse con un cittadino italiano conseguiva la cittadinanza immediatamente ed ope legis.
Argomentando a contrario, si dimostra quindi che in via generale la libertà dello Stato di concedere o negare la cittadinanza allo straniero non soggiace a termini procedimentali. Il termine per la conclusione del procedimento, pure dettato dalla normativa, rileva ad altri fini, ma non comporta il silenzio-assenso o comunque la decadenza del potere di diniego.
[...]
Nel caso in esame, la motivazione è chiara ed univoca in quanto basata sulla premessa (condivisibile) che lo straniero richiedente la cittadinanza deve dimostrare di possedere un reddito sufficiente e di assolvere i connessi obblighi fiscali e previdenziali; e sull’ulteriore assunto (che costituisce il punto controverso) che a questi fini la donna straniera, coniugata con altro straniero, debba risultare provvista di un reddito proprio, non potendosi prendere in considerazione il reddito del marito e le condizioni economiche complessive della famiglia.
7. Tale ultima questione peraltro risulta già affrontata da questo Consiglio con la decisione n.5207 del 30 novembre 2005 della Sezione Quinta, che l’ha risolta in senso favorevole alla persona allora aspirante alla cittadinanza.
La decisione in parola afferma, in sostanza, che nei confronti della donna straniera coniugata la valutazione (necessaria) della capacità economica deve tener conto delle condizioni reddituali e patrimoniali dell’intera famiglia. A questo proposito la sentenza mette in risalto, oltre alla “pari dignità” del lavoro domestico della casalinga, anche il diritto di famiglia che garantisce alla donna coniugata (pur quando sia sprovvista di un reddito proprio) un adeguato sostentamento economico, vuoi in costanza di matrimonio, vuoi in caso di scioglimento dello stesso.
8. Questo Collegio ritiene di aderire al precedente invocato dall’appellante.
Il provvedimento impugnato in primo grado appare, dunque, erroneamente motivato nella parte in cui presuppone che si debba tener conto esclusivamente del reddito personale in senso stretto e non anche delle condizioni economiche della famiglia nel suo complesso.
[...]
9. In conclusione, l’appello va accolto e per l’effetto, annullata la sentenza del T.A.R., va accolto il ricorso di primo grado con annullamento del provvedimento impugnato in quella sede.
[...]
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) accoglie l’appello nei sensi di cui in motivazione.
[...]
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 1 giugno 2012 [...]
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