Il soggetto che versi in uno stato di grave infermità di mente ha diritto alla sospensione dei termini per l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità al pari di chi sia giuridicamente interdetto. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza 322/2011 di oggi con la quale ha dichiarato l’incostituzionalità di un articolo del codice civile. Infatti, secondo i giudici la tutela accordata non deriva dal dato formale della perdita della capacità di agire, quale conseguenza della dichiarazione di interdizione, bensì dall’accertamento della sussistenza in concreto di una gravemente menomata condizione intellettiva e volitiva del soggetto. Poiché, però, la inequivoca previsione del codice non consente di estendere interpretativamente la operatività dei termini previsti per l’interdizione anche ad un soggetto formalmente capace, tale esclusione determina la lesione degli articoli 3 e 24 della Costituzione. E ciò perché in tal modo si opera una irragionevole equiparazione del soggetto capace a quello di fatto incapace, o - specularmente - una altrettanto irragionevole diversità di trattamento per soggetti che versino in un’identica situazione di abituale grave infermità di mente. Oltre alla contestuale lesione del diritto all’azione impedito a chi trovandosi nella condizione di non avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell’azione stessa si trovi quindi nella impossibilità di esperirla validamente e tempestivamente. Pertanto, conclude la Corte l’articolo 245 del codice civile deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la decorrenza del termine indicato nell’articolo 244 del Cc è sospesa anche nei confronti del soggetto che, sebbene non interdetto, versi in condizione di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, sino a che duri lo stato di incapacità naturale.