Crescono le tutele per le coppie di fatto. Anche se è finito l’amore, il partner non può essere buttato fuori casa dall'oggi al domani anche se la casa è di proprietà dell’altro. Lo sottolinea la Cassazione con la sentenza della II Sezione civile 7214/2013 depositata oggi. La Suprema Corte spiega, richiamando alcune pronunce della Consulta, che dal momento che "la famiglia di fatto è compresa tra le formazioni sociali che l'art. 2 della Costituzione considera la sede di svolgimento della personalità individuale, il convivente gode della casa familiare, di proprietà del compagno o della compagna, per soddisfare un interesse proprio, oltre che della coppia, sulla base di un titolo a contenuto e matrice personale la cui rilevanza sul piano della giuridicità è custodita dalla Costituzione, sì da assumere i connotati tipici della detenzione qualificata". La Cassazione si è così pronunciata occupandosi del caso di una coppia di fatto della provincia di Roma il cui rapporto era naufragato. Gianluca M. nel marzo 1998 aveva venduto l'immobile alla convivente Laura L. L'uomo, ricostruisce la sentenza, aveva continuato a frequentare la casa sia pernottandovi sia usandola come appoggio ad altro sottostante appartamento in cui esercitava la professione medica anche dopo la fine del rapporto. La donna lo aveva estromesso dalla casa. La Cassazione dice che il convivente non è un "ospite" e che dunque non doveva essere messo alla porta all'improvviso. Ciò beninteso, precisa la Suprema Corte, "non significa pervenire ad un completo pareggiamento tra la convivenza more uxorio e il matrimonio, contrastante con la stessa volontà degli interessati, che hanno liberamente scelto di non vincolarsi con il matrimonio proprio per evitare le conseguenze legali che discendono dal coniugio". Detto questo, la Cassazione dice chiaramente che "questa distinzione non comporta che, in una unione libera che tuttavia abbia assunto, per durata, stabilità, esclusività e contribuzione, i caratteri di comunità familiare, il rapporto del soggetto con la casa destinata ad abitazione comune, ma di proprietà dell'altro convivente, si fondi su un titolo giuridicamente irrilevante quale l'ospitalità, anziché sul negozio a contenuto personale alla base della scelta di vivere insieme e di instaurare un consorzio familiare, come tale anche socialmente riconoscibile". “D’altra parte, - osserva ancora la sentenza - l’assenza di un giudice della dissoluzione del ménage non consente al convivente proprietario di ricorrere alle vie di fatto per estromettere l’altro dall’abitazione, perché il canone della buona fede e della correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento, impone al legittimo titolare che, cessata l’affectio, intenda recuperare, com’è suo diritto, l’esclusiva disponibilità dell’immobile, di avvisare il partner e di concedergli un termine congruo per reperire altra sistemazione”.