Una signora, titolare di alcune quote di un fondo monetario presso una banca, decideva di vendere le sue quote e di farsi accreditare il ricavo su un altro conto corrente. La banca, invece, stornava la somma ricavata dal disinvestimento per compensare un debito, garantito da fideiussione prestata dalla figlia, cointestataria presso la stessa banca di un conto corrente di servizio. La signora richiedeva la restituzione della sua somma di denaro, sostenendo che l'unica ragione per cui era stato aperto il c.d. conto corrente di servizio, cointestatato alla figlia, era stata una "macchinazione" della banca, attuata – come talvolta accade - con pressioni, artifici e raggiri. La Corte, prima sezione, con la sentenza in esame 14 novembre 2011 n. 23794 ha ritenuto: - che pur in assenza di una richiesta specifica dell'attrice di annullamento del contratto, già nell'atto di citazione in primo grado aveva invocato l'art. 1427 c.c., richiamando la normativa che disciplina l'istituto del dolo, quale vizio del consenso idoneo ad annullare l'atto; - che i giudici del merito avevano errato nel considerare nuova la domanda di annullamento del contratto, perché era stata esplicitamente formulata solo in appello, omettendo di valutare che già nelle conclusioni in primo grado si faceva espresso riferimento «all'illiceità dell'operazione posta in essere» dalla banca; - che il giudice di merito, nel valutare la novità delle domande formulate in appello, non può fermarsi al tenore meramente letterale degli atti, ma deve aver riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere dalla parte; - che, pertanto non doveva considerarsi tardiva la domanda di annullamento, formulata in appello, se – come nella specie - già ricavabile dal contenuto sostanziale degli atti in I grado.