Sommario

I - RESPONSABILITA' AMMINISTRATIVA DELL'ENTE

1. Introduzione

1.1. La natura giuridica della responsabilità

2. I soggetti

3. I principi generali. Premessa

3.1. Segue. Il principio di legalità. La successione di leggi e la commissione del reato all'estero

3.2. Segue. I criteri di imputazione sul piano oggettivo

3.3. Segue. I criteri di imputazione sul piano soggettivo

3.4. Segue. I criteri di imputazione soggettiva nel caso di reato commesso dagli apici

3.5. Segue. I criteri di imputazione soggettiva nel caso di reato commesso dai sottoposti

4. Autonomia della responsabilità dell'ente

5. Il sistema sanzionatorio nella legge delega

5.1. La sanzione pecuniaria e il sistema commisurativo "per quote"

5.2. I casi di riduzione della sanzione pecuniaria

6. Le sanzioni interdittive

6.1. I casi di esclusione dell'applicazione di sanzioni interdittive conseguenti a condotte riparatorie

6.2. Le sanzioni interdittive applicate in via definitiva

7. Le altre sanzioni

8. La reiterazione degli illeciti

9. La pluralità di illeciti

10. La prescrizione

11. La violazione delle sanzioni interdittive

12. I reati che determinano la responsabilità amministrativa dell'ente

12.1. I criteri di formazione degli editti sanzionatori

12.2. La disciplina del tentativo

13. Il concorso di sanzioni interdittive

II - RESPONSABILITA' PATRIMONIALE E VICENDE MODIFICATIVE DELL'ENTE

14. Responsabilità patrimoniale e vicende modificative dell'ente

14.1. Vicende modificative dell'ente

14.2. La mancata attuazione della delega in ordine agli effetti civili conseguenti

all'accertamento della responsabilità dell'ente

III - PROCEDIMENTO DI ACCERTAMENTO E DI APPLICAZIONE DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE

15. Disposizioni generali sul procedimento

15.1. Competenza, riunione e separazione dei processi. Casi di improcedibilità

15.2. La rappresentanza dell'ente nel processo

15.3. Notificazioni all'ente

16. Incompatibilità con l'ufficio di testimone

17. Misure cautelari

18. Indagini preliminari ed udienza preliminare

19. Procedimenti speciali

20. Giudizio

21. Impugnazioni

22. L'esecuzione

22.1. Giudice e procedimento di esecuzione

22.2. L'esecuzione delle sanzioni

22.3. La conversione in fase esecutiva delle sanzioni interdittive e la nomina del commissario giudiziale

22.4. L'anagrafe delle sanzioni amministrative

23. Disposizioni di attuazione

IV - RELAZIONE TECNICO - NORMATIVA

V - VALUTAZIONE DI IMPATTO AMMINISTRATIVO

I - RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA DELL'ENTE

1. Introduzione

La legge 29 settembre 2000, n. 300 reca la "Ratifica ed esecuzione dei seguenti Atti internazionali elaborati in base all'articolo K.3 del Trattato sull'Unione europea: Convenzione sulla tutela finanziaria delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, del suo primo Protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996, del Protocollo concernente l'interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee, di detta Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996, nonché della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell'Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 settembre 1997", cui si aggiunge la "Delega al Governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica".

Il provvedimento, nel delegare al Governo (art. 11) l'articolazione di un sistema di responsabilità sanzionatoria amministrativa degli enti, ottempera dunque agli obblighi previsti dalla Convenzione OCSE e da altri strumenti di prossima ratifica (si pensi al secondo Protocollo PIF). Più in generale, la quasi totalità degli strumenti internazionali e comunitari in specie, in una pluralità (eterogenea) di materie, dispone la previsione di paradigmi di responsabilità delle persone giuridiche, a chiusura delle previsioni sanzionatorie. Sicché la riforma appariva oramai improcastinabile.

Si aggiunga soltanto che essa interpreta l'esigenza, oramai diffusa, di colmare un'evidente lacuna normativa del nostro ordinamento, tanto più evidente in quanto la responsabilità della societas è già una realtà in molti Paesi dell'Europa (così in Francia, Regno Unito, Olanda, Danimarca, Portogallo, Irlanda, Svezia, Finlandia).

Dal punto di vista della politica criminale, le istanze che premono per l'introduzione di forme di responsabilità degli enti collettivi appaiono infatti ancora più consistenti di quelle legate ad una pur condivisibile esigenza di omogeneità e di razionalizzazione delle risposte sanzionatorie tra Stati, essendo ormai pacifico che le principali e più pericolose manifestazioni di reato sono poste in essere - come si avrà modo di esemplificare di seguito - da soggetti a struttura organizzata e complessa. L'incremento ragguardevole dei reati dei "colletti bianchi" e di forme di criminalità a questa assimilabili, ha di fatto prodotto un sopravanzamento della illegalità di impresa sulle illegalità individuali, tanto da indurre a capovolgere il noto brocardo, ammettendo che ormai la societas può (e spesso vuole) delinquere. La complessità del modello industriale post-moderno è anzi notoriamente contraddistinta dall'incremento dei centri decisionali, da una loro accentuata frammentazione e dall'impiego di "schermi fittizi" a cui imputare le scelte e le conseguenti responsabilità. Nella relazione al progetto preliminare di riforma del codice penale, elaborato dalla commissione ministeriale presieduta dal prof. Grosso, si trova efficacemente scritto che la persona giuridica è ormai considerata "quale autonomo centro d'interessi e di rapporti giuridici, punto di riferimento di precetti di varia natura, e matrice di decisioni ed attività dei soggetti che operano in nome, per conto o comunque nell'interesse dell'ente". E non si vede perché l'equiparazione tra enti e persone fisiche non debba spingersi ad investire anche l'area dei comportamenti penalmente rilevanti.

A rigore, dal punto di vista fenomenologico, è addirittura possibile catalogare le diverse situazioni secondo scale di gravità ben precise.

All'apice, dovrebbero essere collocati i casi di impresa intrinsecamente illecita, il cui oggetto sia cioè proiettato in modo specifico verso la commissione di reati (si pensi a società finanziate totalmente con i proventi di attività delittuose delle organizzazioni criminali, che pertanto hanno come unico fine quello di riciclare denaro sporco). A quest'ipotesi è criminologicamente assimilabile quella in cui la società persegua come fine non esclusivo, bensì solo prevalente, la commissione di reati. La scelta del legislatore delegante è stata tuttavia di non prendere in esame (se non marginalmente) tali eventualità. Vero è, infatti, che il decreto prevede l'applicazione in via definitiva di sanzioni interdittive all'ente che il cui unico scopo consista nel consentire ovvero nell'agevolare la commissione di reati; tuttavia, considerata la tipologia dei reati selezionati dagli strumenti ratificati, il caso si palesa di teorica più che di pratica realizzabilità (peraltro, la circostanza che siffatti tipi di realtà criminale rimangano ai margini dello schema di decreto legislativo nulla toglie al fatto che questo sia congegnato secondo una struttura che ne consenta in futuro "integrazioni" in tale direzione).

Il contesto di attuazione degli obblighi internazionali in cui la legge delega si inseriva, ha infatti indirizzato l'attenzione del delegante verso forme di patologia più "ordinaria": tipiche cioè dell'operare economico, dove la funzionalizzazione criminosa di cui si diceva è un fenomeno, se non impossibile, piuttosto raro, ed in cui la commissione di reati contro la pubblica amministrazione o comunque lesivi dell'interesse patrimoniale di un soggetto pubblico (sia esso nazionale oppure non) può discendere come effetto "collaterale" dalla proiezione della società (sostanzialmente sana) verso una dimensione di profitto.

All'interno di tale tipo di economia illegale, è poi opportuno distinguere (sebbene in linea di massima) due differenti tipologie, puntualmente rispecchiate dall'assetto di tutela.

Da un lato, si collocano le ipotesi in cui, pur non essendo l'attività della persona giuridica finalizzata alla commissione di reati, quest'ultima rientri nell'ambito della sua diffusa politica aziendale. Si pensi alla corruzione, considerata un vero e proprio costo d'azienda, alle truffe in finanziamenti, ecc. In tutte queste ipotesi, che meritano - come si vedrà di seguito - un trattamento di maggior rigore, l'attività discende da decisioni di vertice dell'ente, ed involge quindi la responsabilità di persone che rivestono in esso un ruolo apicale. Dall'altro lato, si pongono i casi - egualmente significativi, anche se meno riprovevoli - in cui la commissione di reati derivi non già da una specifica volontà sociale, ma esclusivamente da un difetto di organizzazione o di controllo da parte degli apici: vale a dire, le ipotesi in cui il comportamento materiale sia realizzato da soggetti in posizione subordinata. Si faccia l'esempio - non del tutto teorico - dell'impiegato o del "quadro" il quale, agendo di sua iniziativa - se non in contrasto con una dichiarata linea di politica aziendale della società - compia un atto il quale comporti un forte risparmio di spesa per questa, disinteressandosi delle conseguenze penali dello stesso, al fine di ottenere un aumento dello stipendio od un avanzamento di carriera.

Se pochi dubbi permangono quindi in ordine alla rilevanza empirica del fenomeno, deve altresì evidenziarsi come l'elaborazione di un sistema di responsabilità dell'ente, altro non faccia che razionalizzare l'esistente. Come infatti sottolineato da più parti, una risposta sanzionatoria nei confronti di quest'ultimo già oggi esiste nei fatti, se si pensa che il costo del processo e delle pene applicate al suo esito viene di massima sostenuto dall'impresa, piuttosto che dal singolo.

Questo scenario, presente al legislatore delegante in sede di posizione della delega, ha inoltre guidato il Governo in merito a singole scelte al momento della sua attuazione: attuazione per la quale si è avvalso di un'apposita commissione ministeriale di esperti, presieduta dal Direttore generale degli affari penali del Ministero della Giustizia, dott. Giorgio Lattanzi.

1.1 La natura giuridica della responsabilità

Stanti le surriferite premesse di carattere empirico-criminologico, dal punto di vista teorico, non si sarebbero incontrate insuperabili controindicazioni alla creazione di un sistema di vera e propria responsabilità penale degli enti. Sul punto può dirsi oltretutto superata l'antica obiezione legata al presunto sbarramento dell'art. 27 Cost., e cioè all'impossibilità di adattare il principio di colpevolezza alla responsabilità degli enti. Come risulterà meglio nella parte della relazione dedicata a questo aspetto, appare ormai recessiva una concezione "psicologica" della colpevolezza, che ne esaurisce cioè il contenuto nel legame psicologico tra autore e fatto; di contro, la rinnovata idea di una colpevolezza intesa (in senso normativo) come rimproverabilità sembra perfettamente attagliarsi al fenomeno nei termini in cui è stato poc'anzi descritto. Potrebbe anzi affermarsi che proprio la mancata previsione di una forma di responsabilità della persona giuridica in relazione a comportamenti in linea o comunque discendenti dalla politica aziendale, in uno con il suaccennato costume di rinnovare frequentemente e sistematicamente i centri di imputazione formali all'interno della stessa, si risolvesse - paradossalmente - nell'aggiramento di quel principio di "responsabilità personale" che ha rappresentato la remora più sensibile all'adozione da parte dell'Italia di nuovi modelli sanzionatori.

Ciò nondimeno, il legislatore delegante ha preferito, comprensibilmente, ispirarsi a maggior cautela, ed ha optato per un tipo di responsabilità amministrativa.

In proposito, appare tuttavia necessario fare da subito una puntualizzazione. Tale responsabilità, poiché conseguente da reato e legata (per espressa volontà della legge delega) alle garanzie del processo penale, diverge in non pochi punti dal paradigma di illecito amministrativo ormai classicamente desunto dalla L. 689 del 1981. Con la conseguenza di dar luogo alla nascita di un tertium genus che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell'efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia.

2. I soggetti

Passando all'analisi dei singoli contenuti dello schema di decreto legislativo, l'art. 1, dopo aver definito genericamente il contenuto del provvedimento, al comma 2, ne individua i soggetti destinatari.

Le disposizioni della legge delega su questo punto sono contenute in due differenti sedi: per un verso, l'alinea del comma 1 dell'art. 11 L. 300/2000 stabilisce che il decreto disciplini la responsabilità amministrativa delle "persone giuridiche e delle società, associazioni od enti privi di personalità giuridica che non svolgono funzioni di rilievo costituzionale"; per altro verso, il comma 2 del medesimo articolo dispone che "per persone giuridiche si intendono gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuati lo Stato e gli altri enti pubblici che esercitano pubblici poteri".

Dal combinarsi delle due disposizioni, è parso dunque al delegato di dover circoscrivere l'ambito di responsabilità dell'ente nei termini di seguito illustrati.

Innanzitutto, l'inequivoca volontà della delega di estendere la responsabilità anche a soggetti sprovvisti di personalità giuridica ha suggerito l'uso del termine "ente" piuttosto che "persona giuridica" (il segno linguistico avrebbe dovuto essere dilatato troppo al di là della sua capacità semantica).

Quanto poi agli enti "a soggettività privata" non dotati di personalità giuridica, la scelta ben si comprende da un punto di vista di politica legislativa, dal momento che si tratta dei soggetti che, potendo più agevolmente sottrarsi ai controlli statali, sono a "maggior rischio" di attività illecite ed attorno ai quali appare dunque ingiustificato creare vere e proprie zone di immunità.

D'altro canto, e per la medesima ragione, questa scelta si paleserà, nel confronto con la prassi, non poco impegnativa. Risultano infatti inclusi soggetti in cui è carente il "diaframma" in termini di autonomia patrimoniale dell'ente (entro il quale, pure, la delega espressamente limita la responsabilità dell'ente, escludendo che essa possa estendersi al patrimonio dei soci) e, più in generale, sono comprese realtà assai eterogenee, tra cui alcune di rilevanza minima, in relazione alle quali non può escludersi che la previsione di forme di responsabilità amministrativa, con tutto il dispendioso apparato anche processuale, si riveli, alla prova dei fatti, addirittura diseconomico.

Allo scopo di contenere tale rischio, il delegato - nell'impossibilità materiale di indicare nominativamente tutte le singole realtà - ha preferito utilizzare una formula elastica. Nel far ciò, tuttavia, non ha replicato testualmente la legge delega, ma si è limitato a citare "le società e le associazioni anche prive di personalità giuridica", in modo da indirizzare l'interprete verso la considerazione di enti che, seppur sprovvisti di personalità giuridica, possano comunque ottenerla.

Infine, si noti che le precise indicazioni della delega, fedelmente riprodotte nello schema di decreto legislativo, hanno indotto ad escludere gli "enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale", tra cui sembrano rientrare anche i partiti politici ed i sindacati (questi ultimi sguarniti di personalità giuridica, vista la nota, mancata attuazione dell'art. 39 Cost.), dando così luogo ad una zona franca giustificabile soltanto alla luce delle delicate conseguenze che produrrebbe l'impatto, su questi soggetti, delle sanzioni interdittive previste dal nuovo impianto legislativo.

Quanto invece agli enti dotati di soggettività pubblica, come si è detto, la legge delega obbliga ad escludere espressamente "lo Stato e gli altri enti che esercitano pubblici poteri". Va peraltro da sé l'ampliamento dell'esclusione prevista per lo Stato, a comprendere anche gli enti pubblici territoriali (Regioni, Province, Comuni): oltre ad avere la titolarità di poteri tipicamente pubblicistici (si pensi alle attribuzioni delle Regioni in materia legislativa), l'equiparazione di questi enti allo Stato è suggerita da ragioni di ordine sistematico (ci si riferisce al disposto dell'art. 197 c.p., in tema di obbligazione delle persone giuridiche per la pena pecuniaria) e, più in generale, da una esigenza di ragionevolezza nelle scelte legislative.

L'esclusione degli "enti che esercitano pubblici poteri" preclude poi senz'altro la riferibilità dell'impianto normativo alle singole Pubbliche Amministrazioni: e ciò, anche a ritenere che le stesse non siano direttamente riconducibili al concetto di Stato, in quanto sue indispensabili articolazioni.

Viceversa, enti a soggettività pubblica, e tuttavia privi di poteri pubblici, sono i c.d. enti pubblici economici, i quali agiscono iure privatorum e che, per questa ragione, meritano una equiparazione agli enti a soggettività privata anche sotto il profilo della responsabilità amministrativa derivante da reato. Nessuna obiezione (pratica o teorica), dunque, all'inserimento degli stessi nel novero dei destinatari del sistema.

Tra l'uno e l'altro estremo, peraltro, la locuzione "enti pubblici che esercitano pubblici poteri" lascia residuare ampie zone d'ombra.

Costituisce infatti un dato acquisito che da tale nozione esulano, accanto agli enti pubblici economici, numerosi altri enti pubblici.

Alcuni di questi (pochi) sono enti pubblici associativi, dotati sostanzialmente di una disciplina negoziale, ma a cui le leggi speciali hanno assegnato natura pubblicistica per ragioni contingenti (ACI, CRI, ecc.). Ma la categoria più significativa concerne gli enti pubblici che erogano un pubblico servizio, tra cui le Istituzioni di assistenza e, soprattutto, le Aziende ospedaliere, le scuole e le Università pubbliche, ecc.

Esclusa da subito l'opportunità di produrre nel decreto legislativo un catalogo degli enti pubblici assoggettabili al sistema di responsabilità amministrativa (la qualificazione di molti di questi enti è controversa e, soprattutto, la normativa più recente prevede una certa mobilità degli stessi, con la trasformazione da pubblici in privati), il Governo ha preferito optare per una soluzione "drastica", anche nel rispetto delle esigenze di certezza del diritto: esigenza vieppiù viva in un settore, come questo, improntato ad un rigore particolare nella scelta delle risposte sanzionatorie. Non si può nascondere infatti che, a prima vista, il dettato della delega sembrerebbe imporre l'inclusione di tutti questi enti nel novero dei destinatari delle disposizioni del decreto legislativo; il dato testuale parrebbe cioè prevedere l'assoggettamento alla disciplina sanzionatoria come la regola: rispetto ad essa, le eccezioni andrebbero contenute nei limiti dello stretto indispensabile.

Quanto agli enti associativi, tuttavia, essi sono oggi soggetti ad una forte tendenza alla privatizzazione che presumibilmente ne comporterà l'estinzione entro breve termine. Pertanto - e salvo pure quanto verrà aggiunto di seguito - l'estensione della responsabilità a questi soggetti avrebbe comportato un costo probabilmente non compensato da adeguati benefici: il che risulta evidente ove si consideri che la dottrina pubblicistica non è affatto concorde nel tracciare la linea di distinzione tra questa categoria e gli enti pubblici associativi c.d. istituzionali (come gli Ordini e i collegi professionali), per i quali valgono considerazioni analoghe a quelle che saranno esposte immediatamente di seguito per gli enti pubblici esercenti un pubblico servizio.

Quanto a questi ultimi, all'affermazione della loro responsabilità amministrativa in dipendenza da reato, non sarebbe stata d'ostacolo la pure evidente inopportunità di applicare le sanzioni di natura interdittiva, con conseguente "scarico" dei costi sulla collettività. Ben si sarebbe potuto, infatti, differenziare la risposta sanzionatoria, riservando agli enti che svolgono un servizio pubblico, la meno invasiva sanzione pecuniaria.

Si è tuttavia preferito abbandonare anche questa soluzione: e ciò, sulla base di due considerazioni tra loro intrinsecamente connesse.

Per un verso, la sanzione pecuniaria comminata nei confronti dell'ente a soggettività pubblica avrebbe sortito un effetto general- e special-preventivo fortemente attenuato rispetto a quello suscettibile di produrre nei confronti di enti a soggettività privata e più sensibili alla ragione economica, essendo comunque destinata a tradursi in un disservizio per la generalità dei cittadini.

Per altro verso - e salva diversa indicazione del Parlamento -, la scelta dei reati, in uno con ulteriori indizi normativi desumibili soprattutto dalla disciplina civilistica (calibrata sulle società commerciali), consentono di ritenere con ragionevole certezza che il legislatore delegante avesse di mira la repressione di comportamenti illeciti nello svolgimento di attività di natura squisitamente economica, e cioè assistite da fini di profitto. Con la conseguenza di escludere tutti quegli enti pubblici che, seppure sprovvisti di pubblici poteri, perseguono e curano interessi pubblici prescindendo da finalità lucrative.

Un'ultima precisazione. Il rilievo da ultimo svolto potrebbe indurre a ritenere irragionevole l'inclusione nel sistema degli enti a soggettività privata, che tuttavia svolgano un pubblico servizio (in virtù di una concessione, convenzione, parificazione o analogo atto amministrativo). Al di là del fatto che, in questi enti, la finalità di natura pubblicistica non esclude il movente economico (sommandosi ad esso), l'assoggettabilità degli stessi alla disciplina dello schema appare implicitamente ammessa dallo stesso legislatore delegante, nella lettera l), n. 3) del comma 1, che sembrerebbe richiamarsi proprio a tale categoria laddove, nel caso di interdizione, prevede l'esercizio vicario dell'attività se la prosecuzione di quest'ultima "è necessaria per evitare pregiudizi a terzi" (sul punto, infra).

3. I principi generali. Premessa

Come si accennava nell'introduzione, il nuovo sistema di responsabilità sanzionatoria, pur essendo formalmente ascritto all'ambito dell'illecito amministrativo, reclama alcuni aggiustamenti rispetto all'insieme dei principi enucleabile dalla c.d parte generale della legge 689/1981. Ciò, in considerazione non soltanto della peculiarità dei soggetti suoi destinatari (enti e non persone fisiche), ma soprattutto della distinta impronta penalistica che lo segna e che deriva dall'essere comunque costruito in dipendenza della verificazione di un reato. Si aggiunga la gravità delle conseguenze che la legge delega fa derivare dalla commissione dell'illecito, conseguenze che possono spingersi fino alla chiusura definitiva dello stabilimento o all'interdizione definitiva dall'attività, sanzioni capitali per l'ente; si comprenderà, allora, come in questo settore appaia più che mai viva l'esigenza, già diffusamente avvertita (soprattutto dagli organi di giustizia europei), di omogeneizzare i sistemi di responsabilità amministrativa e di responsabilità penale all'insegna delle massime garanzie previste per quest'ultimo, spingendo verso la nascita di un sistema punitivo che - nel caso degli enti - rappresenta senza dubbio un tertium genus rispetto ad entrambi. D'altro canto, la tendenza più generale, forse irreversibile, spinge ormai verso la progressiva assimilazione dei due modelli, che tendono a confluire in una sorta di diritto sanzionatorio unitario, soprattutto in materia economica. E non è un caso che la Commissione ministeriale per la riforma del codice penale, presieduta dal prof. Grosso, si sia orientata verso un paradigma simile a quello proposto nel presente schema di decreto legislativo, senza peraltro qualificarne espressamente la natura giuridica.

Queste considerazioni hanno suggerito l'opportunità di costruire un sotto-sistema normativo che, nell'intenzione del delegato, dovrebbe valere a disciplinare la materia anche per il futuro: per l'eventualità, cioè, che il legislatore intenda rimpinguare l'ambito della responsabilità amministrativa dell'ente, ricollegandola alla commissione di reati diversi da quelli rispetto ai quali è stata oggi contemplata dal decreto legislativo.

3.1. Segue. Il principio di legalità. La successione di leggi e la commissione del reato all'estero

Un sistema siffatto non poteva dunque che replicare da entrambi i modelli, quello penale e quello amministrativo, il fondamentale principio di legalità (nelle sue accezioni di riserva di legge, tassatività e irretroattività), ovviamente plasmandone la formulazione sulla peculiarità della materia (art. 2).

E' appena il caso di richiamare l'attenzione sulla circostanza che la legalità qui investe un duplice profilo: l'affermazione della responsabilità amministrativa dell'ente e - a monte - l'assetto penale di disciplina in conseguenza del quale tale responsabilità è prevista.

Quanto al primo aspetto, si noti inoltre come la norma curi espressamente l'estensione del principio, oltre che all'affermazione della responsabilità, altresì alle sanzioni che ne discendono. Si anticipa sin d'ora che la scelta trova una fedele rispondenza nelle restanti norme dell'articolato laddove reca una disciplina puntuale dei presupposti applicativi di ciascun tipo di sanzione, sia nella parte generale in tema di scelta e di commisurazione delle stesse, sia nelle disposizioni dedicate alla previsione della responsabilità amministrativa in conseguenza della commissione dei singoli reati.

Una novità tutta di ispirazione penalistica rispetto al paradigma della l. 689 (che la ignora) è invece rappresentata dalla disciplina della successione di leggi, di cui all'art. 3 dello schema. Appare infatti evidente la matrice della disposizione, parzialmente ricalcata sull'art. 2 del codice penale; la sua opportunità nel merito deriva dall'incisività delle nuove sanzioni, tale da meritare all'ente la stessa disciplina di favore prevista nei confronti dell'imputato persona fisica.

Premesso che non si è ritenuto necessario ribadire il divieto di retroattività, già desumibile dall'articolo 2, è stata invece disciplinata l'ipotesi di abolitio, in cui la responsabilità dell'ente viene meno con il reato in relazione al quale essa era prevista, oppure perché è stata abrogata direttamente la disposizione che ricollega ad un reato (che permane) la suddetta responsabilità amministrativa. In entrambi i casi, il venir meno del giudizio di disvalore da parte dell'ordinamento avrebbe reso irragionevole il permanere della responsabilità in capo all'ente. Lo stretto legame tra responsabilità dell'ente e commissione di un reato implica poi che la medesima disciplina valga anche nel caso di sopravvenuta depenalizzazione di quest'ultimo, sebbene in tal caso la permanenza di un giudizio di disvalore da parte dell'ordinamento, in teoria, avrebbe potuto suggerire una diversa soluzione (nel senso della continuità. La delega non sembrava comunque consentire tale opzione).

Mentre nel caso di abolitio non è previsto alcuno sbarramento alla produzione dell'effetto favorevole per l'ente, più contenuto - esattamente come nel penale - l'effetto retroattivo in bonam partem nel caso di semplice successione di leggi, dove il limite invalicabile è segnato dal passaggio in giudicato della sentenza: qui, tuttavia, il fenomeno riguarda più da vicino soltanto le modifiche della legge che prevede la responsabilità amministrativa dell'ente, le vicende del reato rimanendo indifferenti rispetto a quest'ultima.

E' infine mutuata la dizione del quarto comma dell'art. 2 c.p., in relazione alle leggi eccezionali e temporanee, per le quali si esclude l'applicabilità delle norme precedenti. La previsione si ispira alla rilevata necessità di tracciare un parallelismo tra la disciplina del nuovo illecito e quella penale, e potrebbe rivelarsi utile in futuro: allo stato attuale dell'assetto normativo in materia (e cioè in relazione alle fattispecie selezionate, tutte dotate una rilevanza empirica "non contingente") sembra invece destinata ad avere un rilievo meramente teorico.

L'avvenuto superamento del quinto comma dell'art. 2 c.p. (sui decreti legge) da parte della disciplina e (sebbene in parte) della giurisprudenza costituzionale, ne ha infine sconsigliato la riproduzione in questa sede. Le questioni che involgono la normazione attraverso decretazione d'urgenza nonché quelle legate alla dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi sembrano infatti trovare più agevole soluzione alla luce dei rispettivi principi generali.

Ispirata a comprensibile rigore è la scelta dell'art. 4 dello schema di decreto legislativo, laddove contempla l'ipotesi in cui l'ente che abbia in Italia la sede principale, compia tuttavia reati all'estero. Si è ritenuto che l'ipotesi, assai diffusa dal punto di vista criminologico, meritasse comunque l'affermazione della sanzionabilità dell'ente, al fine di evitare facili elusioni della normativa interna: e ciò anche al di fuori delle circoscritte ipotesi in cui la responsabilità dell'ente consegua alla commissione di reati per i quali l'art. 7 del codice penale prevede la punibilità incondizionata.

L'opzione è oltretutto conforme al progressivo abbandono, nella legislazione internazionale, del principio di territorialità ed alla correlativa, sempre maggiore affermazione del principio di universalità (prova ne siano gli stessi atti ratificati nella legge 300/2000).

Peraltro, la costante attenzione dell'Italia ai profili di cooperazione internazionale (resi talvolta difficili dalla sovrapposizione delle azioni punitive da parte dei diversi Stati, soprattutto quando, come in Italia, vige il principio di obbligatorietà delle stesse) ha suggerito di apporre uno sbarramento alla perseguibilità dell'illecito commesso dall'ente nei casi in cui nei suoi confronti già proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto.

Analogamente, alla sussistenza di un interesse apprezzabile dello Stato alla punizione ed all'opportunità di bilanciare tale interesse con il rispetto dell'altrui sfera di sovranità in materia punitiva, si ispira il secondo comma dell'art. 4. La norma prevede che, nei casi in cui vi sia stata la richiesta per la persona fisica, per procedersi nei confronti dell'ente, la richiesta del Ministro Guardasigilli debba estendersi anche nei confronti di quest'ultimo. La previsione garantisce oltretutto che le vicende dei due soggetti si svolgano su binari paralleli, secondo una tendenza cui si ispira complessivamente il sistema normativo e che viene derogata soltanto laddove una diversa soluzione possa pregiudicarne l'effettività.

3.2. Segue. I criteri di imputazione sul piano oggettivo

Il cuore della parte generale del nuovo sistema è rappresentato dagli articoli 5 e 6 dello schema.

Il primo si muove su di un piano squisitamente oggettivo, e identifica le persone fisiche che, autori del reato, impegnano sul terreno sanzionatorio penale-amministrativo la responsabilità della societas. Sotto il profilo concettuale, non sussistono ostacoli al recepimento della soluzione proposta nello schema. Ribadito ancora una volta che anche la materia dell'illecito penale-amministrativo è assoggettata al dettato costituzionale dell'art. 27, già la teoria della c.d. immedesimazione organica consente di superare le critiche che un tempo ruotavano attorno alla violazione del principio di personalità della responsabilità penale, ancora nella sua accezione "minima" di divieto di responsabilità per fatto altrui. Vale a dire: se gli effetti civili degli atti compiuti dall'organo si imputano direttamente alla società, non si vede perché altrettanto non possa accadere per le conseguenze del reato, siano esse penali o - come nel caso del decreto legislativo - amministrative. Anzi, a rigore, questa soluzione si profila quasi necessitata sul piano logico (dal momento che assicura la corrispondenza tra chi commette l'illecito e chi ne paga le conseguenze giuridiche), oltre che auspicabilmente idonea, su quello pratico, a contenere le distorsioni di una giurisprudenza che, come noto, tendeva - in nome della prevenzione generale - a dilatare oltre il consentito l'ambito delle responsabilità individuali degli amministratori.

Quanto ai dipendenti, non v'è ragione per escludere la responsabilità dell'ente dipendente da reati compiuti da tali soggetti, quante volte essi agiscano appunto per conto dell'ente, e cioè nell'ambito dei compiti ad essi devoluti. In altre parole, con riguardo al rapporto di dipendenza, quel che sembra contare è che l'ente risulti impegnato dal compimento, da parte del sottoposto, di un'attività destinata a riversarsi nella sua sfera giuridica.

Fatte queste precisazioni, quanto agli aspetti di conformità con la legge delega, si osserva, innanzitutto che la lettera e) dell'art. 11, comma 1, richiama i soli reati commessi (dalle persone fisiche) a vantaggio o nell'interesse dell'ente. La formula è stata testualmente riprodotta, e costituisce appunto l'espressione normativa del citato rapporto di immedesimazione organica. E' appena il caso di aggiungere che il richiamo all'interesse dell'ente caratterizza in senso marcatamente soggettivo la condotta delittuosa della persona fisica e che "si accontenta" di una verifica ex ante; viceversa, il vantaggio, che può essere tratto dall'ente anche quando la persona fisica non abbia agito nel suo interesse, richiede sempre una verifica ex post.

Quanto alle categorie di persone che vengono in rilievo, l'articolato riprende la distinzione tra soggetti in posizione apicale (lett. a) e soggetti in posizione subordinata (lett. b), apportando poche modifiche rispetto alla delega. Come si avrà modo di sottolineare di seguito, la distinzione riverbera effetti di non poco momento sul complessivo assetto di disciplina.

Lett. a). L'utilizzazione di una formula elastica è stata preferita ad una elencazione tassativa di soggetti, difficilmente praticabile, vista l'eterogeneità degli enti e quindi delle situazioni di riferimento (quanto a dimensioni e a natura giuridica), e dota la disciplina di una connotazione oggettivo-funzionale; ciò vale sia in relazione all'ipotesi in cui la funzione apicale sia rivestita in via formale (prima parte della lettera a), sia in rapporto all' "esercizio anche di fatto" delle funzioni medesime (seconda parte della lettera a). A questo proposito, si noti che, ricalcando testualmente la delega, tale locuzione è stata riconnessa alle funzioni di gestione e di controllo; esse devono dunque concorrere ed assommarsi nel medesimo soggetto il quale deve esercitare pertanto un vero e proprio dominio sull'ente. Resta, perciò, escluso dall'orbita della disposizione l'esercizio di una funzione di controllo assimilabile a quella svolta dai sindaci. Costoro non figurano nel novero dei soggetti che, formalmente investiti di una posizione apicale, possono commettere illeciti che incardinano la responsabilità dell'ente: a maggior ragione, quindi, non è pensabile riferire una responsabilità all'ente per illeciti relativi allo svolgimento di una funzione che si risolve in un controllo sindacale di fatto (ciò, a tacere dei dubbi che sussistono in ordine alla stessa configurabilità di una simile forma di controllo). In definitiva, la locuzione riportata nello schema di decreto legislativo è da proiettare solo verso quei soggetti che esercitano un penetrante dominio sull'ente (è il caso del socio non amministratore ma detentore della quasi totalità delle azioni, che detta dall'esterno le linee della politica aziendale e il compimento di determinate operazioni). Un'interpretazione difforme si sarebbe scontrata contro un eccesso di indeterminatezza della nozione di "controllo di fatto". L'aspetto che merita maggiore attenzione concerne tuttavia l'equiparazione, ai soggetti che ricoprono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente, delle persone che rivestono le medesime funzioni in una "unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale". La previsione richiama un fenomeno ben noto, ed anzi in via di progressiva espansione; si pensi ai c.d. direttori di stabilimento che, nelle realtà aziendali medio-grandi, sono molto spesso dotati di una forte autonomia gestionale e sottratti al controllo delle sedi centrali. La collocazione di questi soggetti all'interno della lettera a) e quindi come soggetti apicali, è suggerita, oltre che dall'osservazione del dato empirico, anche da considerazioni di natura sistematica: come noto, infatti, la figura ha da tempo trovato ingresso nel nostro ordinamento, in materia di sicurezza sul lavoro, dove pure affonda la sua ratio nella tendenziale comunione tra poteri-doveri e responsabilità. Resta peraltro fermo che, nelle realtà economiche segnate da una minore complessità, la carenza di autonomia finanziaria o funzionale, consentirebbe di degradare l'unità organizzativa dalla lettera a) alla successiva lettera b) (soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza degli apici), con le conseguenze che saranno di seguito illustrate.

Lett. b). La seconda categoria di persone fisiche la cui commissione di reati è suscettibile di impegnare la responsabilità amministrativa dell'ente è rappresentata dai c.d. sottoposti. La scelta di limitare la responsabilità della societas al solo caso di reato commesso dai vertici, non si sarebbe rivelata plausibile dal punto di vista logico e politico criminale. Sotto il primo profilo, anche in questo caso, come si è detto, la possibilità di ricondurre la responsabilità all'ente appare assicurata, sul piano oggettivo, dal fatto che il reato sia stato commesso nell'interesse o a vantaggio dell'ente (quanto al piano "soggettivo", della rimproverabilità della societas, si rinvia al commento dell'art. 7). Sotto il secondo profilo, una diversa opzione avrebbe significato ignorare la crescente complessità delle realtà economiche disciplinate e la conseguente frammentazione delle relative fondamenta operative.

Il secondo comma dell'articolo 5 dello schema mutua dalla lett. e) della delega la clausola di chiusura ed esclude la responsabilità dell'ente quando le persone fisiche (siano esse apici o sottoposti) abbiano agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi. La norma stigmatizza il caso di "rottura" dello schema di immedesimazione organica; si riferisce cioè alle ipotesi in cui il reato della persona fisica non sia in alcun modo riconducibile all'ente perché non realizzato neppure in parte nell'interesse di questo. E si noti che, ove risulti per tal via la manifesta estraneità della persona morale, il giudice non dovrà neanche verificare se la persona morale abbia per caso tratto un vantaggio (la previsione opera dunque in deroga al primo comma).

3.3. Segue. I criteri di imputazione sul piano soggettivo.

Si è prima ricordato come, in passato, la principale controindicazione all'ingresso di forme di responsabilità penale dell'ente fosse ravvisata nell'art. 27, comma 1, Cost., inteso nella sua accezione di principio di colpevolezza in senso "psicologico", e cioè come legame psichico tra fatto ed autore. Si è anche già detto che una rinnovata concezione della colpevolezza in senso normativo (riprovevolezza) consente oggi di adattare comodamente tale categoria alle realtà collettive. Si aggiunga ora che, rispetto al passato, si sta consolidando unanimità di vedute anche su un altro aspetto.

La Corte europea dei diritti dell'uomo e la migliore dottrina concordano nel ritenere che le imprenscindibili garanzie del diritto penale debbano essere estese anche ad altre forme di diritto sanzionatorio a contenuto punitivo, a prescindere dalle astratte "etichette" giuridiche che il legislatore vi apponga.

Da ciò l'esigenza, fortemente avvertita, di creare un sistema che, per la sua evidente affinità con il diritto penale, di cui condivide la stessa caratterizzazione afflittiva, si dimostri rispettoso dei principi che informano il secondo: primo tra tutti, appunto, la colpevolezza.

Ai fini della responsabilità dell'ente occorrerà, dunque, non soltanto che il reato sia ad esso ricollegabile sul piano oggettivo (le condizioni alle quali ciò si verifica, come si è visto, sono disciplinate dall'art. 5); di più, il reato dovrà costituire anche espressione della politica aziendale o quanto meno derivare da una colpa di organizzazione.

Prima di addentrarsi nell'illustrazione delle soluzione tecniche adottate nell'articolato per esprimere questi concetti, è bene sottolineare come la previsione di meccanismi di imputazione del fatto all'ente destinati ad operare su di un piano diverso da quello meramente oggettivo, esprima un'esigenza condivisa anche da ordinamenti stranieri. Così, ad esempio, in Francia, dove pure il principio di colpevolezza riceve una traduzione sotto alcuni aspetti meno piena che in Italia. La novella al Code penal del 1994, nell'introdurre la responsabilità penale delle persone giuridiche, l'aveva infatti ancorata alla mera commissione di reati "per conto" di questi, mostrando dunque di accontentarsi di un'imputazione sul piano meramente oggettivo (suscettibile di scattare in virtù della "immedesimazione" tra la persona fisica-organo della persona giuridica e quest'ultima); ciò nonostante, la giurisprudenza ha preferito non attestarsi sul dato testuale della norma e si è impegnata nella ricerca di criteri ascrittivi ulteriori, che consentano di rinvenire un collegamento più pregnante tra il reato e la voluntas societatis. Tali parametri sono stati ad esempio tratteggiati - sebbene in termini generici - dal Criminal Code Act australiano del 1995 che distingue, addirittura, nell'ambito della mens rea della persona giuridica, una forma dolosa ed una forma colposa.

E' peraltro opportuno notare come i criteri di imputazione non svolgano soltanto un ruolo di "filtro" della responsabilità; non rispondano, cioè, esclusivamente ad una - sia pure importante - logica di garanzia. Essi, per come sono (puntualmente) descritti nello schema di decreto, adempiono innanzitutto ad una insostituibile funzione preventiva.

Costituisce un dato ormai ampiamente acquisito che l'attribuzione della responsabilità secondo criteri ispirati al versari in re illicita si traduce in un disincentivo all'osservanza di cautele doverose; essa induce infatti nel destinatario un senso di fatalista rassegnazione nei confronti delle conseguenze negative che possono derivare dal suo comportamento. Nel caso di specie, rappresenterebbe quindi una spinta a considerare le sanzioni una sorta di "costo necessario" dell'impresa, non evitabile, ma preventivabile secondo i consueti criteri di bilancio: sempre che sia ritenuto sopportabile (in caso contrario, si tradurrebbe addirittura in una ragione ostativa allo svolgimento dell'attività d'impresa, in sé irrinunciabile). Viceversa, ancorare il rimprovero dell'ente alla mancata adozione ovvero al mancato rispetto di standards doverosi, significa motivarlo all'osservanza degli stessi, e quindi a prevenire la commissione di reati da parte delle persone fisiche che vi fanno capo.

Piuttosto che sancire un generico dovere di vigilanza e di controllo dell'ente sulla falsariga di quanto disposto dalla delega (con rischio che la prassi ne operasse il totale svuotamento, indulgendo a criteri ispirati al versari in re illicita), si è preferito allora riempire tale dovere di specifici contenuti: a tale scopo, un modello assai utile è stato fornito dal sistema dei compliance programs da tempo funzionante negli Stati Uniti.

All'ente viene in pratica richiesta l'adozione di modelli comportamentali specificamente calibrati sul rischio-reato, e cioè volti ad impedire, attraverso la fissazione di regole di condotta, la commissione di determinati reati. Requisito indispensabile perché dall'adozione del modello derivi l'esenzione da responsabilità dell'ente è che esso venga anche efficacemente attuato: l'effettività rappresenta, dunque, un punto qualificante ed irrinunciabile del nuovo sistema di responsabilità.

3.4 Segue. I criteri di imputazione soggettiva nel caso di reato commesso dagli apici.

Tanto premesso in generale sulla necessità di costruire un modello puntuale di responsabilità dell'ente, lo schema di decreto legislativo differenzia la disciplina a seconda che il reato sia commesso da un soggetto in posizione apicale ovvero da un semplice sottoposto.

Quanto al primo caso (art. 6), è opportuno innanzitutto sciogliere eventuali dubbi di conformità alla delega. La citata lettera e) sembrerebbe infatti non richiedere alcuna condizione ulteriore rispetto alla commissione del reato da parte di un soggetto che nell'ente rivesta un ruolo apicale. La norma, infatti, riferisce, almeno in apparenza, la circostanza che la commissione del reato sia stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi connessi alle funzioni di direzione e di vigilanza, esclusivamente al caso in cui il reato sia posto in essere da chi a tali funzioni sia assoggettato: i sottoposti. Tuttavia, nella equivocità del dato testuale (la presenza di una virgola consente per contro di riferire il periodo altresì al caso in cui il reato sia stato commesso da soggetti in posizione apicale), sono state ritenute prevalenti le argomentazioni esposte in precedenza sulla necessità di costruire un sistema quanto più conforme ai principi costituzionali ed informato alla prevenzione.

Non si ignora l'obiezione che più agevolmente può muoversi ad una scelta di questo tipo: i soggetti in posizione apicale sono essi stessi espressione della "volontà sociale" ed appare artificioso immaginare l'esistenza di un diaframma che separi quest'ultima dal loro operato. In realtà, se ciò può dirsi senz'altro vero in relazione al modello tradizionale di ente collettivo (emblematico il caso di "amministratore unico"), non altrettanto vale per la situazione societaria attuale. Questa è costellata da una serie di realtà organizzativamente complesse, in cui il management non si sviluppa più secondo un modello verticistico, ma si distende piuttosto su di una (ampia) base orizzontale, con la conseguente frantumazione dei poteri decisionali dell'ente.

In realtà di questo tipo, imputare all'intero ente le conseguenze di comportamenti delittuosi tenuti da soggetti che pure svolgono funzioni apicali ma che non risultano rappresentativi della societas nel senso appena specificato, esporrebbe la riforma alle perplessità che si sono poc'anzi illustrate in ordine al ricorso a criteri di imputazione su base meramente oggettiva. Il discorso assume ancora maggiore evidenza se si pensa che ai rappresentanti, ecc. dell'ente sono stati equiparati anche le persone che svolgono le stesse funzioni all'interno di unità organizzative funzionalmente autonome (vd. retro, commento all'art. 5, comma 1, lett.a).

E' appena il caso di puntualizzare, inoltre, che il fatto che la riforma sia calibrata la riforma su realtà organizzative complesse "a base manageriale orizzontale" non significa affatto complicare l'accertamento dell'illecito nel caso in cui il reato sia stato commesso da soggetti apicali nell'ambito di società a struttura più semplice. Ed infatti, la particolare qualità degli autori materiali dei reati ha suggerito al delegato l'opportunità di differenziare il sistema rispetto all'ipotesi in cui il reato risulti commesso da un sottoposto, prevedendo, nel primo caso, una inversione dell'onere probatorio. In altri termini, si parte dalla presunzione (empiricamente fondata) sia, nel caso di reato commesso da un vertice, il requisito "soggettivo" di responsabilità dell'ente sia soddisfatto, dal momento che il vertice esprime e rappresenta la politica dell'ente; ove ciò non accada, dovrà essere la societas a dimostrare la sua estraneità, e ciò potrà fare soltanto provando la sussistenza di una serie di requisiti tra loro concorrenti (è ragionevole prevedere che questa prova non sarà mai agevole; si rivelerà poi praticamente impossibile nel caso di ente a base manageriale ristretta). L'ente, dunque, è chiamato a dimostrare di aver adottato ed efficacemente attuato modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quelli verificatisi (la modulazione di questa ipotesi sulle "risultanze" dottrinali e giurisprudenziali in tema di colpa specifica è piuttosto scoperta); dovrà inoltre vigilare sulla effettiva operatività dei modelli, e quindi sulla osservanza degli stessi: a tal fine, per garantire la massima effettività del sistema, è disposto che la societas si avvalga di una struttura che deve essere costituita al suo interno (onde evitare facili manovre volte a precostituire una patente di legittimità all'operato della societas attraverso il ricorso ad organismi compiacenti, e soprattutto per fondare una vera e propria colpa dell'ente), dotata di poteri autonomi e specificamente preposta a questi compiti. Ma - quel che più conta - l'ente dovrà dimostrare che il comportamento integrante il reato sia stato posto in essere dal vertice eludendo fraudolentemente i suddetti modelli di organizzazione e di gestione. La lettera c) bene si presta, dunque, a fotografare le ipotesi di c.d. "amministratore infedele", che agisce cioè contro l'interesse dell'ente al suo corretto funzionamento. Si noti peraltro che secondo questa disciplina, affinché venga meno la responsabilità dell'ente, non è sufficiente che ci si trovi di fronte ad un apice infedele; si richiede - di più - che non sia ravvisabile colpa alcuna da parte dell'ente stesso, il quale - attraverso il suo organismo - deve aver vigilato anche sull'osservanza dei programmi intesi a conformare le decisioni del medesimo secondo gli standard di "legalità preventiva" (lett. d).

Quanto appunto ai modelli validi per i vertici, è chiaro che essi divergono da quelli che disciplinano l'operato dei sottoposti, essendo modulati, non già sul momento meramente esecutivo, bensì su quello della "formazione" e dell' "attuazione" delle decisioni dell'ente. Una più stringente definizione contenutistica (che richiamasse la disciplina dei rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione o dell'ottenimento di finanziamenti o sovvenzioni, ecc.) avrebbe avuto certo un pregio in termini di maggiore determinatezza, ma si sarebbe probabilmente esposta al rischio di trascurare tipologie comportamentali che pure, nel confronto con la prassi, dovessero palesarsi rilevanti nell'ottica della prevenzione di reati; soprattutto, avrebbe "complicato il lavoro" del legislatore futuro, per il caso (auspicabile) in cui questi intervenga ad infoltire il catalogo dei reati dai quali discende la responsabilità dell'ente, costringendolo ad una rivisitazione della norma.

Una notazione finale. La circostanza che, nel caso di elusione fraudolenta del modello senza colpa dell'ente, non sia ravvisabile alcuna responsabilità dello stesso, nulla toglie all'inopportunità che la persona giuridica si giovi dei profitti economici che abbia comunque tratto dall'operato del c.d. amministratore infedele. Per tale ragione, l'articolato prevede che, anche in queste ipotesi, venga disposta la confisca del profitto del reato.

3.5 Segue. I criteri di imputazione soggettiva nel caso di reato commesso dai sottoposti

Meno problematica si è rivelata l'attuazione della delega in rapporto ai soggetti sottoposti, la commissione dei reati da parte dei quali appare, d'altro canto, statisticamente più rara e comunque suscettibile di determinare un giudizio di minore riprovazione nei confronti del soggetto collettivo (ciò, quanto meno in relazione alla particolare tipologica di delitti contemplata nello schema di decreto).

All'affermazione generale della responsabilità dell'ente quando la commissione del reato sia stata resa possibile dal mancato adempimento degli obblighi di direzione o vigilanza (art. 7, comma 1, che ricalca sul punto la delega), il legislatore delegato ha fatto seguire norme interpretative volte a specificare con maggiore precisione a quali condizioni ricorra la culpa dell'ente. E' infatti chiaro che, se nelle realtà collettive a struttura semplice appare sufficiente affermare un generale obbligo di vigilanza, ed idonea la relativa violazione ad impegnare immediatamente la responsabilità amministrativa della società, non altrettanto può dirsi per quanto riguarda le realtà organizzative complesse, caratterizzate da un'articolazione di competenze che fanno capo ad una pluralità di centri decisionali. Qui, il richiamo a generici standard di diligenza avrebbe rischiato di rivelarsi una vuota clausola di stile, inidonea ad indirizzare il giudice nell'accertamento dell'illecito amministrativo in capo all'ente, con la conseguenza di rendere particolarmente gravoso il suo compito, ovvero, al contrario, di spingerlo ad affermare indiscriminatamente la sua responsabilità attraverso il ricorso a "formulette pigre", fatalmente destinate a scivolare verso forme di ascrizione meramente oggettiva.

Al tempo stesso, l'onere, per l'ente, di dotarsi di modelli di organizzazione e di gestione improntati alla massima effettività risponde alla qualificante funzione preventiva cui si ispira il nuovo sistema, traducendosi in una maggiore razionalizzazione nell'impiego delle risorse e nella predisposizione dei controlli interni.

Tanto premesso, i modelli in esame devono diversificarsi in relazione allo specifico rischio-reato da prevenire: il che comporta, per l'ente, l'onere di assumere misure - organizzative e materiali - che garantiscano lo svolgimento dell'attività nel rispetto della legge e consentano la scoperta e l'eliminazione delle situazioni di irregolarità da cui possa scaturire il rischio suddetto. Peraltro, la scelta (su cui infra) di limitare l'operatività del sistema ai delitti contro la pubblica amministrazione o comunque offensivi del patrimonio pubblico, ha indotto alla massima semplificazione del modello (viceversa, ove il decreto legislativo avesse preso in considerazione tutti i reati indicati nella delega, riconducibili a forme criminali più tipicamente "d'impresa", sarebbe stata opportuna una differenziazione dei programmi in rapporto alle differenti fonti e caratteristiche del rischio, con la conseguenza di un più elevato tasso di tipizzazione normativa).

Anche qui (come per i vertici), al momento della "posizione" del programma preventivo è necessario si accompagni quello del suo effettivo funzionamento. Così, ai fini dell'efficace attuazione del modello, la norma richiede, tra l'altro, il suo aggiornamento costante, oltre alla predisposizione di un sistema disciplinare funzionante. Le previsioni non intendono ovviamente essere tassative e fanno comunque salvi ulteriori protocolli comportamentali che, nel caso concreto, consentano di azzerare o di minimizzare il rischio.

Infine, è opportuno sottolineare come, a differenza che nel caso di reato commesso da persona in ruolo apicale, qui l'onere di provare la mancata adozione ovvero la mancata attuazione del modello da parte dell'ente gravi sull'accusa. La ragione è chiara (nulla poena sine culpa) e - lo si ribadisce - discende dalla gravità delle conseguenze suscettibili di prodursi in capo all'ente sul piano sanzionatorio. La puntualizzazione riveste peraltro un'importanza non secondaria anche nei casi in cui la misura sia applicata in fase cautelare, mettendo così al riparo dall'eventualità di un eccesso nel ricorso a misure cautelari potenzialmente assai invasive.

4. Autonomia della responsabilità dell'ente.

Di particolare rilievo è la disposizione dell'art. 8. Essa chiarisce in modo inequivocabile come quello dell'ente sia un titolo autonomo di responsabilità, anche se presuppone comunque la commissione di un reato. Se infatti il meccanismo punitivo è stato congegnato in modo tale da rendere le vicende (processuali) delle persone fisiche e quelle dell'ente tra loro strettamente correlate (il simultaneus processus risponde non soltanto ad esigenze di economia, ma anche alla necessità di far fronte alla complessità dell'accertamento), ciò non toglie che in talune limitate ipotesi, l'inscindibilità tra le due possa venir meno. Tanto accade ovviamente quando le persone - fisica e giuridica - adottino diverse strategie processuali (sul punto, infra); prima ancora, con riguardo al momento che qui interessa, la nascita del procedimento, il comma 1 dell'art. 8 lascia sussistere la responsabilità dell'ente anche quando l'autore del reato non sia stato identificato ovvero non sia imputabile.

Una scelta di tal fatta non incontra alcun ostacolo dal punto di vista del sistema. E' chiaro, infatti, che in entrambi i casi ci si trova di fronte ad un reato completo di tutti i suoi elementi (oggettivi e soggettivi) e giudizialmente accertato, sebbene il reo, per l'una o l'altra ragione, non risulti punibile.

Ancora, non vi sarebbe ragione di escludere, in queste ipotesi, la responsabilità dell'ente. Se, infatti, il caso di autore non imputabile ha un sapore più teorico che pratico (è stato previsto per ragioni di completezza), quello della mancata identificazione della persona fisica che ha commesso il reato è, al contrario, un fenomeno tipico nell'ambito della responsabilità d'impresa: anzi, esso rientra proprio nel novero delle ipotesi in relazione alle quali più forte si avvertiva l'esigenza di sancire la responsabilità degli enti. Si pensi, per fare un esempio, ai casi di cd. imputazione soggettivamente alternativa, in cui il reato (perfetto in tutti i suoi elementi) risulti senz'altro riconducibile ai vertici dell'ente e, dunque, a due o più amministratori, ma manchi o sia insufficiente la prova della responsabilità individuale di costoro. L'omessa disciplina di tali evenineze si sarebbe dunque tradotta in una grave lacuna legislativa, suscettibile di infirmare la ratio complessiva del provvedimento. Sicché, in tutte le ipotesi in cui, per la complessità dell'assetto organizzativo interno, non sia possibile ascrivere la responsabilità penale in capo ad uno determinato soggetto, e ciò nondimeno risulti accertata la commissione di un reato, l'ente ne dovrà rispondere sul piano amministrativo: beninteso, a condizione che sia ad esso imputabile una colpa organizzativa consistente nella mancata adozione ovvero nel carente funzionamento del modello preventivo.

La responsabilità dell'ente resta ferma anche nel caso in cui il reato sussiste, ma subisce una vicenda estintiva. Si pensi all'utile decorso del termine di sospensione condizionale della pena ovvero alla morte del reo (prima della condanna).

La configurazione della responsabilità dell'ente come un illecito amministrativo (sebbene sui generis) non poteva non implicare una conclusione di questo tipo. L'unica eccezione meritevole è stata rinvenuta nell'amnistia (evidentemente, "propria"), in presenza della quale, dunque, non potrà procedersi neanche nei confronti dell'ente. Si è infatti pensato che le valutazioni politiche sottese al relativo provvedimento siano suscettibili, in linea di massima, di valere anche nei confronti degli enti: in caso contrario, sarà onere del legislatore dell'amnistia escludere tali soggetti dall'area entro cui il provvedimento di clemenza può sortire effetti, anche mediati.

Resta fermo che l'ente, il quale abbia interesse ad un'assoluzione nel merito, potrà, al pari della persona fisica, rinunciare all'effetto estintivo dell'amnistia (comma 3 dell'art. 8).

Si è anche ritenuto opportuno precisare che la rinuncia all'amnistia da parte della persona fisica non pregiudichi la posizione dell'ente; sicché - fatta salva, pure qui, una diversa volontà del legislatore - l'effetto estintivo si produrrà nei confronti dell'ente anche quando la persona fisica eserciti il suo legittimo diritto a veder accertata nel merito la responsabilità penale. La previsione si rivela, oltre che utile, necessaria: a rigore, infatti, la rinuncia all'amnistia da parte della persona fisica interdice l'effetto estintivo del reato e, sotto il piano dei principi, lascerebbe dunque sussistere la responsabilità dell'ente.

E' appena il caso di accennare al fatto che le cause di estinzione della pena (emblematici i casi grazia o di indulto), al pari delle eventuali cause non punibilità e, in generale, alle vicende che ineriscono a quest'ultima, non reagiscono in alcun modo sulla configurazione della responsabilità in capo all'ente, non escludendo la sussistenza di un reato.

Se la responsabilità dell'ente presuppone comunque che un reato sia stato commesso, viceversa, non si è ritenuto utile specificare che la responsabilità dell'ente lascia permanere quella della persona fisica. Si tratta infatti di due illeciti, quello penale della persona fisica e quello amministrativo della persona giuridica, concettualmente distinti, talché una norma che ribadisse questo dato avrebbe avuto il sapore di un'affermazione di mero principio.

5. Il sistema sanzionatorio nella legge-delega.

La sezione II dello schema di decreto detta la disciplina generale delle sanzioni amministrative applicabili agli enti. La legge delega individua, in proposito, un sistema essenzialmente binario, che prevede l'irrogazione di sanzioni pecuniarie e di sanzioni interdittive. Tuttavia, mentre le prime sono indefettibili, le seconde vanno previste - come recita la lettera l) del comma 1 dell'articolo 11 - solo "nei casi di particolare gravità".

Sul piano strutturale, l'ammontare minimo della sanzione pecuniaria non deve essere inferiore a lire cinquanta milioni di lire, mentre l'ammontare massimo non deve oltrepassare i tre miliardi di lire (lettera g)) del comma 1 dell'articolo 11). Sul versante commisurativo, si stabilisce che il giudice deve tenere conto anche "dell'ammontare dei proventi del reato e delle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente".

La delega prevede poi due ipotesi di riduzione della sanzione pecuniaria: la prima (lettera g) concerne i casi di particolare tenuità del fatto, nel cui ambito la sanzione pecuniaria da irrogare non dovrà essere superiore a duecento milioni di lire né inferiore a venti milioni; la seconda si lega alla realizzazione della efficace riparazione o reintegrazione dell'offesa realizzata (lettera n)).

La delega stabilisce infine il divieto del pagamento della sanzione pecuniaria in misura ridotta.

Quanto alle sanzioni interdittive, riservate, come si è detto, ai casi di particolare gravità, la legge delega ne enumera ben sei: la chiusura anche temporanea dello stabilimento o della sede commerciale, la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito, l'interdizione anche temporanea dall'esercizio dell'attività, il divieto anche temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione, l'esclusione temporanea da agevolazioni, finanziamenti o contributi e l'eventuale revoca di quelli già concessi e, infine, il divieto anche temporaneo di pubblicizzare beni o servizi.

La delega (lett. n) dell'articolo 11) prevede poi una causa di inapplicabilità di una o più delle citate sanzioni interdittive in presenza di condotte di efficace riparazione o reintegrazione dell'offesa.

L'arsenale sanzionatorio è, infine, corredato dalle sanzioni della confisca e della pubblicazione della sentenza di condanna: per quanto concerne la prima, in particolare, la legge-delega (v. lett. i) dell'articolo 11) stabilisce che essa debba avere ad oggetto il prezzo o il profitto del reato e che possa essere adottata anche nella forma "per equivalente". Per quanto riguarda, invece, la seconda, questa viene affiancata alle sanzioni di natura interdittiva, anche se è fuor di dubbio che non ne condivide la natura, così che nel decreto riceve un'autonoma disciplina.

La lettera p) dell'articolo 11 delega inoltre il Governo ad introdurre un'ipotesi di reato e di responsabilità amministrativa dell'ente per le violazioni delle sanzioni interdittive, anche se applicate in via cautelare nel corso del procedimento.

Il quadro appena delineato restituisce l'immagine di un arsenale sanzionatorio particolarmente ampio e, in alcuni casi (si pensi al numero delle sanzioni interdittive), persino pletorico.

Sul piano sistematico, la legge delega coniuga "il passato" e "il presente" delle sanzioni amministrative. Accosta infatti alla tradizionale sanzione pecuniaria (derivata dal paradigma fiscale e incentrata sulla monetizzazione dell'illecito, specie nel contesto del diritto economico-sociale) numerose sanzioni interdittive, dal contenuto incapacitante, che, oltre a tradire un vistoso pendolarismo con il sistema punitivo "penale", hanno conosciuto una consistente e significativa diffusione nell'ultimo decennio. Ancora relegate in posizione di retroguardia nel contesto del modello di illecito amministrativo "parapenale" codificato dalla legge 689/1981, le sanzioni interdittive si sono via via fatte largo nella tutela delle attività economiche, fino a trovare una definitiva consacrazione nella recente depenalizzazione avvenuta con il d. lgs. 507/1999, in cui costituiscono l'architrave dell'impianto sanzionatorio in alcuni importanti settori (si pensi agli alimenti, alla circolazione stradale, agli assegni, ecc.).

Si rafforza, così, anche sul versante della disciplina delle sanzioni, l'idea che il sistema di responsabilità disegnato dalla legge delega sfoci in un "diritto sanzionatorio tout court" che, nella materia economica, ha sempre avuto una doppia anima: penale-criminale e penale-amministrativa, con ricorrenti migrazioni delle materie da uno all'altro settore punitivo.

Un diritto sanzionatorio "punitivo", dunque, che sfrutta l'incisività della sanzione amministrativa, ma che, proprio perché più pervasivo (si pensi all'incidenza delle sanzioni interdittive), reclama una sfera di garanzie superiori rispetto a quelle apprestate nella legge n. 689 del 1981.

5.1. La sanzione pecuniaria e il sistema commisurativo "per quote".

La sanzione pecuniaria costituisce la sanzione fondamentale e indefettibile, applicabile in relazione a tutti gli illeciti dipendenti da reato. L'ammontare della stessa è scandito da un'oscillazione (da cinquanta milioni a tre miliardi di lire) che risente dei limiti insiti nel ricorso ad una clausola generale, tendenzialmente cieca rispetto all'effettivo disvalore di ciascun illecito. In particolare, va segnalato l'elevato importo del limite minimo edittale, che tradisce un eccessivo rigore specie se lo si riferisce alla fitta rete di piccole imprese esistenti nel nostro paese. Lo stesso criterio commisurativo indicato dalla delega, laddove impone di tenere conto anche delle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente, non è sufficiente a scongiurare questo rischio e non appare idoneo ad evitare che la fase commisurativa si esponga ad una discrezionalità giudiziale troppo ampia.

Queste considerazioni impongono pertanto al Governo di compiere ogni sforzo che, nei limiti della delega, consenta di prefigurare un sistema di sanzioni pecuniarie equilibrato, orientato dai seguenti principi: da un lato, proteso a disegnare un sistema commisurativo effettivamente calibrato sulla capacità economica e patrimoniale degli enti; dall'altro lato, diretto a ritagliare cause di riduzione della sanzione che permettano di "degradare" in modo significativo il carico sanzionatorio in presenza di illeciti di particolare tenuità o di condotte che esternino un apprezzabile "controvalore" rispetto all'offesa.

Con riferimento alla fase commisurativa, la legge delega sembra propendere, a prima vista, in favore del tradizionale sistema "a somma complessiva". In questo contesto, la commisurazione dovrebbe avvenire secondo i parametri dettati dall'articolo 11 della legge 689/1981, integrati dal riferimento all'entità dei proventi ricavati dal reato e, soprattutto, dalle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente. Il rinvio alle condizioni economiche compare, come è noto, con riferimento alla pena pecuniaria irrogata alla persona fisica, nell'articolo 133-bis del codice penale e risponde all'esigenza di valorizzare tale aspetto all'interno del rigido modello "a somma complessiva". Tuttavia, tale innesto non ha dato i frutti sperati, a causa dell'ambiguità strutturale che lo contrassegna. Il modello "a somma complessiva", infatti, è strutturalmente sbilanciato verso gli indici di commisurazione che attingono alla gravità oggettiva e soggettiva dell'illecito, sia esso penale o amministrativo. Il successivo e concorrente riferimento alle condizioni economiche e patrimoniali della persona fisica o dell'ente innesca una sorta di corto circuito commisurativo, nel quale le condizioni economiche operano contemporaneamente e sullo stesso piano rispetto ai restanti criteri di commisurazione, senza che tuttavia sia possibile discernere quale incidenza assumano le prime, da un lato, e la gravità oggettiva e soggettiva dell'illecito, dall'altro lato, nella determinazione dell'ammontare della sanzione pecuniaria. Si tratta di un sistema, cioè, destinato a malfunzionare perché ambisce ad accomunare due fasi commisurative che, per contro, sono (e vanno tenute) distinte.

E' chiaro, peraltro, che, nel contesto della responsabilità sanzionatoria degli enti, l'esigenza dell'adeguamento della sanzione pecuniaria alle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente costituisce un aspetto irrinunciabile e fondamentale della disciplina, se si vuole evitare il rischio di rendere inefficace la sanzione. Tuttavia, l'eventuale ricorso ad un correttivo analogo a quello previsto dall'articolo 133-bis del codice penale risulta impraticabile. La forbice edittale "generale" contenuta nella delega pregiudica l'operatività di un simile meccanismo che, ove profilato, costringerebbe a costruire cornici edittali di parte speciale troppo "ravvicinate" tra di loro. L'articolo 133-bis prevede un aumento della pena pecuniaria sino al triplo o una diminuzione fino a un terzo quando il giudice ritiene che, per le condizioni economiche del reo, la misura massima sia inefficace o quella minima troppo gravosa. Dovendosi rispettare, per i limiti imposti dalla delega, il compasso edittale 50 milioni/3 miliardi di lire, le singole cornici di "parte speciale" dovrebbero subire una significativa compressione (con un minimo ed un massimo estremamente "ravvicinati"), idonea a garantire che il ricorso all'aumento sino al triplo o la diminuzione dei un terzo non provochi uno "sforamento" verso l'alto o verso il basso dei limiti indicati dalla delega. E' di intuitiva evidenza, però, che un'eccessiva compressione delle forbici edittali dei singoli illeciti rischia di irrigidire il sistema sanzionatorio sul versante della traduzione normativa del disvalore generale ed astratto da ricondurre a ciascuna violazione di parte speciale (con il paradosso di dover costruire minimi edittali magari troppo elevati e massimi, per contro, attestati su una anodina soglia media). Per operare con una qualche efficacia, il meccanismo in esame dovrebbe contemplare la possibilità di scavalcare sia verso l'alto che verso il basso i limiti edittali imposti dalla delega. Opzione, questa, da scartare per ragioni facilmente intuibili.

Il sistema "per quote" delineato nello schema di decreto prende dunque atto dell'impossibilità di riprodurre la soluzione delineata nel codice penale, ma muove pur sempre dall'intento di salvaguardare l'istanza adeguatrice presente nell'articolo 133-bis del codice penale e di valorizzarne l'efficacia operativa, attraverso un cambiamento del paradigma applicativo che riconosca autonomia alla fase della valutazione delle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente. Istanza adeguatrice che si atteggia in modo se possibile più pressante nel contesto della responsabilità sanzionatoria degli enti collettivi. A ben vedere, essa condiziona decisivamente il grado di afflittività e di efficacia delle sanzioni pecuniarie e, dunque, l'equilibrio complessivo del sistema. La realtà economica del nostro paese è caratterizzata da realtà imprenditoriali assai diversificate, in cui convivono piccole e medie imprese accanto a mega-gruppi industriali e multinazionali. Prescindere da questa trama economico-sociale, significa aprire il campo ad un modello di responsabilità cieco, che parla lo stesso linguaggio a soggetti estremamente differenziati, provvisti di un diverso coefficiente di reattività e di sopportabilità dinanzi ai costi imposti dalla sanzione. E' chiaro, infatti, che, a parità di gravità complessiva di un illecito, la sanzione commisurata solo su un tale coefficiente potrebbe risultare estremamente gravosa, fino al limite della non-sopportabilità economica, per un ente di piccole dimensioni, e rivelarsi per contro ineffettiva nei confronti di un ente di grandi dimensioni, munito di ragguardevoli risorse economiche e patrimoniali. In definitiva, la scelta del modello commisurativo conforma la l'efficacia della sanzione.

Per queste ragioni, il Governo ha adottato, nell'articolo 10, un modello commisurativo "per quote", che ricalca, solo in parte, il sistema dei "tassi giornalieri" collaudato con successo in molti paesi europei (si pensi, per tutti, al Tagessatzsystem tedesco). La disciplina privilegiata nel decreto mutua dal sistema per tassi giornalieri la struttura bifasica. Viene all'opera, infatti, una duplice scansione: dapprima, il giudice determina l'ammontare del numero delle quote sulla scorta dei tradizionali indici di gravità dell'illecito; poi, determina il valore monetario della singola quota tenendo conto delle condizioni economiche dell'ente. L'intera operazione si risolve nel combinarsi aritmetico di un moltiplicatore fissato dal fatto illecito con un moltiplicando ricavato dalla capacità economica dell'ente. Il tutto avviene nel rigoroso rispetto dell'ammontare minimo e massimo della sanzione pecuniaria fissato dalla delega. Così, si è previsto, nel comma 2 dell'articolo 10, che la sanzione pecuniaria viene applicata per quote non inferiori a cento né superiori a mille. Questa banda di oscillazione costituisce il riferimento a cui attingere nella parte speciale per concretizzare le comminatorie editali per i singoli illeciti (ad esempio: per l'illecito relativo a un certo reato, è prevista la sanzione pecuniaria da duecento a seicento quote). Nel secondo comma della stessa disposizione, si stabilisce che l'importo di una singola quota va da un minimo di lire cinquecentomila ad un massimo di tre milioni. L'importo della singola quota - lo si vedrà meglio tra breve - è funzionale all'adeguamento della sanzione alle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente. Rispetto all'articolo 133-bis del codice penale che - come si è detto - prevede un aumento della pena pecuniaria fino al triplo o una diminuzione di un terzo, nel paradigma "per quote" il valore di ciascuna quota presenta un rapporto da "uno a sei" (cinquecentomila lire/tre milioni), evidentemente più ampio rispetto al modello penalistico: questa maggiore oscillazione serve proprio a garantire un adeguamento effettivo alla condizioni dell'ente, in considerazione del carattere estremamente variegato della realtà economica dell'impresa nel nostro paese.

Il successivo articolo 11, dedicato ai criteri commisurativi, stabilisce che il numero delle quote, in sede di individuazione della sanzione pecuniaria, viene determinato dal giudice sulla scorta della gravità del fatto (poniamo, ad esempio, 500 quote con riferimento ad un illecito di media gravità oggettiva e soggettiva, per il quale fosse prevista la sanzione da quattrocento a ottocento quote).

Per determinare il valore monetario della singola quota il giudice tiene conto delle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente, allo scopo di assicurare l'efficacia della sanzione (così, nell'esempio posto, il giudice determinerà l'importo della quota orientandosi verso il minimo - pari a cinquecentomila lire - se ha a che fare con un ente di ridotte capacità economiche; o verso il massimo, nel caso contrario).

La somma finale è frutto della moltiplicazione tra l'importo della singola quota e il numero complessivo delle quote che cristallizzano il disvalore dell'illecito.

Sul versante del rapporto di compatibilità di un tale sistema con la delega, è agevole notare che esso rispetta i vincoli imposti da quest'ultima. Il numero delle quote e l'importo minimo e massimo stabilito per la singola quota fanno sì che, da un lato il limite minimo di cinquanta milioni di lire imposto dalla delega corrisponda all'importo della quota minima (cioè alla condanna a cento quote, in cui l'importo della singola quota viene fissato dal giudice in lire cinquecento mila); dall'altro lato, anche il limite massimo imposto dalla delega (pari a tre miliardi di lire) coincide con l'importo massimo attribuito alla singola quota (tre milioni di lire) moltiplicato per il numero massimo di quote irrogabili (pari a mille).

I valori prescelti sembrano dunque valorizzare la teleologia del sistema sanzionatorio pecuniario: permettono, infatti, di apprezzare la gravità dell'illecito secondo la tradizionale logica commisurativa (che sfocia nella determinazione del numero complessivo delle quote irrogate) e, successivamente, di calibrare l'efficacia della sanzione alle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente (attraverso l'individuazione dell'importo della singola quota). Più concretamente: a parità di disvalore di un illecito amministrativo dipendente, ad esempio, dal reato di corruzione, punito in concreto con l'irrogazione di una sanzione pari a quattrocento quote, il giudice dovrà determinare il valore della singola quota sulla scorta delle condizioni economiche dell'ente per assicurare l'equilibrio e l'efficacia della sanzione. Individuando detto valore in lire cinquecentomila (perché si ha a che fare con un ente di ridottissime capacità economiche e patrimoniali), la condanna ammonterà a duecento milioni di lire; se, invece, la ragguardevoli condizioni economiche dell'ente suggeriscono di attestarsi sul massimo del valore della quota (pari a tre milioni), la condanna ammonterà a un miliardo e duecento milioni di lire. Per un ente che denoti condizioni intermedie, il giudice potrà stimare, ad esempio, il valore della quota in un milione e cinquecentomila lire, così da condannarlo alla somma complessiva di lire seicento milioni.

Il risultato è, dunque, quello di un sistema sanzionatorio in cui la commisurazione giudiziale risulta maggiormente conformata e trasparente, che si pone in apprezzabile sintonia con le finalità della sanzione.

Quanto alle modalità di accertamento delle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente, il giudice potrà avvalersi dei bilanci o delle altre scritture comunque idonee a fotografare tali condizioni. In taluni casi, la prova potrà essere conseguita anche tenendo in considerazioni le dimensioni dell'ente e la sua posizione sul mercato. Più in generale, per fugare allarmismi in ordine alla difficoltà di tali accertamenti, va ricordato che la responsabilità degli enti presuppone la mancata adozione dei modelli di prevenzione, sì che per verificare questo estremo il giudice non potrà comunque fare a meno di calarsi, con l'ausilio di consulenti, nella realtà dell'impresa, dove potrà attingere anche le informazioni relative allo stato di solidità economica, finanziaria e patrimoniale dell'ente.

Quello delineato nel decreto non è ovviamente - lo si era anticipato - un sistema per quote giornaliere "puro", come quello adottato in altri paesi europei. Non lo è perché, negli altri paesi, il modello per quote fa della sanzione pecuniaria una sanzione "di durata", adeguata alle possibilità del condannato di farvi fronte in un certo periodo di tempo e, perciò, destinato a rivelarsi incompatibile con un sistema, come quello prefigurato nel decreto, che si ispira comunque a valori assoluti, compresi tra un minimo ed un massimo. Tuttavia, l'introduzione, senz'altro innovativa, nel nostro ordinamento di un sistema "per quote", sia pure nell'orbita di un decreto che detta valori assoluti, permette, come si è visto, di orientare e vincolare la commisurazione della pena entro una cornice dotata di maggiore equilibrio ed efficacia. Il ricorso al tradizionale modello commisurativo rischia di incrementare in modo eccessivo la discrezionalità del giudice e, perciò, di fomentare commisurazioni corrive, in cui una sanzione pecuniaria risulta magari perfettamente adeguata alla gravità dell'illecito sulla carta, ma inefficace o iper-efficace in concreto, vuoi perché destinata a non incidere significativamente sulle "sostanze" dell'ente (che la percepisce alla stregua di un costo facilmente sopportabile e scaricabile all'esterno), vuoi perché produttiva di effetti dirompenti verso una piccola societas.

5.2. I casi di riduzione della sanzione pecuniaria.

La legge delega, nella consapevolezza della ragguardevole forbice edittale che conforma la sanzione pecuniaria, ha delegato il governo a prevedere casi di riduzione della sanzione quando si è in presenza di fatti di particolare tenuità ovvero di condotte riparatorie da parte dell'ente. Questa scelta si presenta ampiamente condivisibile, perché recupera maggiore flessibilità ed equità al sistema, specie in presenza di situazioni che attenuano sensibilmente il bisogno di pena legato alla commissione degli illeciti.

La riduzione di pena per la particolare tenuità del fatto viene disciplinata nell'articolo 12, comma 1, lettere a) e b). La riduzione di pena è pari alla metà della sanzione pecuniaria che verrebbe irrogata dal giudice e la sanzione da applicare per effetto della riduzione non potrà comunque essere superiore a duecento milioni né inferiore a venti (in coerenza con quanto si prevede nella legge delega).

La prima ipotesi di fatto tenue coinvolge interamente lo spessore lesivo dell'illecito amministrativo dell'ente. Essa sussiste quando l'autore del reato lo ha commesso nel prevalente interesse proprio o di terzi e l'ente non ne ha ricavato alcun vantaggio, oppure un vantaggio minimo (come è noto, se il reato è commesso dall'autore nell'esclusivo interesse proprio o di terzi, quest'ultimo non soggiace ad alcuna forma di responsabilità). La particolare tenuità ha ad oggetto non il reato, che potrebbe essere tutt'altro che lieve, ma l'illecito dell'ente, segnatamente il suo grado di coinvolgimento nell'illecito: coinvolgimento minimo sia sul versante della colpevolezza, atteso che l'autore del reato ha agito per un interesse prevalentemente personale o di terzi, sia sul versante oggettivo, visto che nessun vantaggio, o comunque un vantaggio minimo, è stato ricavato dall'ente.

La seconda ipotesi di riduzione si fonda sulla particolare tenuità del danno patrimoniale. Si tratta di una formulazione che non abbisogna di dettagliate chiarificazioni, vantando più di un precedente nella legislazione penale codicistica e non. La riduzione trova inoltre una sicura legittimazione sul versante criminologico, atteso che i reati che incardinano la responsabilità amministrativa dell'ente affondano le loro radici nel profitto. Di conseguenza, può ben riconoscersi un'attenuazione della sanzione pecuniaria quando il reato e l'illecito che ne dipende hanno provocato un danno particolarmente tenue.

La previsione di casi di riduzione della sanzione pecuniaria per la particolare tenuità del fatto impone tuttavia di derogare, sia pure in parte, all'ordinario regime di commisurazione della sanzione previsto dall'articolo 11. La deroga coinvolge l'importo della quota, cioè il criterio funzionalmente collegato alla capacità economica e patrimoniale dell'ente. Una volta appurato che il fatto è di particolare tenuità, ha poco senso una commisurazione orientata sulla condizione economica dell'ente: un illecito di esiguo disvalore merita una risposta sanzionatoria parimenti esigua, qualunque ente sia stato a commetterlo. In questi casi, il riferimento alle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente è del tutto superfluo: quello che conta è commisurare la sanzione al grado di tenuità dell'illecito. Si è così provveduto, nel terzo comma dell'articolo 11, a stabilire che, in tutti i casi di particolare tenuità, l'importo della quota deve attestarsi invariabilmente sul minimo, pari, in questo caso, non già a lire cinquecentomila, bensì a lire duecentomila, visto che la delega prevede che possa irrogarsi una sanzione non inferiore a lire venti milioni e, dunque, minore di quella prevista in via generale come limite minimo delle cornici edittali (che ammonta a lire cinquanta milioni). In tal modo viene sterilizzata la possibilità di orientare la sanzione sulla capacità economica dell'ente; restano fermi, ovviamente, la commisurazione della sanzione in punto di individuazione del numero delle quote, da effettuare secondo i criteri di cui al comma 1 della citata disposizione, e i limiti inferiori e superiori della sanzione pecuniaria irrogabile nei confronti dell'ente, a norma dell'articolo 12, commi 1 e 4.

Nel comma 2 dell'articolo 12, viene disciplinata una ulteriore ipotesi di riduzione di pena, legata al compimento di condotte riparatorie. La riduzione va da un terzo alla metà della sanzione pecuniaria se l'ente, prima dell'apertura del dibattimento, dimostra di aver risarcito il danno e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato o che comunque si è efficacemente adoperato in entrambe le direzioni. L'integrazione dell'attenuante è condizionata all'esistenza di due requisiti. Il primo, di ordine temporale, postula che l'attività riparatoria sia stata realizzata entro un determinato termine, da rinvenire nella fase antecedente all'apertura del giudizio di primo grado. L'individuazione del termine è funzionale all'esigenza che la condotta riparatoria, come condotta antagonistica rispetto all'offesa, avvenga entro un lasso di tempo che, seppure non immediatamente prossimo alla commissione del fatto, non risulti troppo diluito nel tempo così da vanificare il valore insito nella tempestiva e riconoscibile attività di operosa resipiscenza meritevole di sanzione positiva.

Il secondo requisito concerne la sfera delle attività riparatorie: queste debbono abbracciare non solo il risarcimento del danno ma anche le conseguenze dannose o pericolose del reato. Peraltro, è parso giusto tenere conto del fatto che, in alcuni casi, un integrale adempimento dell'obbligo risarcitorio e riparatorio non è possibile, magari perché l'ente, a causa delle sue condizioni economiche, non è in grado di poter adempiere integralmente. La soluzione proposta nella lettera a) del comma 2 dell'articolo 12 è quella di riconoscere comunque la riduzione di pena a condizione che l'ente si sia efficacemente adoperato in direzione del risarcimento e della riparazione, abbia cioè compiuto tutti gli sforzi concretamente esigibili.

Il secondo caso di riduzione della sanzione da un terzo alla metà opera a beneficio dell'ente che, prima del giudizio, abbia adottato e reso operativi i modelli di prevenzione del reato disciplinati dagli articoli 6 e 7. Si tratta anche in questo caso di una condotta lato sensu iscrivibile al genere delle condotte riparatorie, atteso che l'adozione dei modelli organizzativi, ove efficace, è in grado di disinnescare o ridurre sensibilmente il rischio della commissione di reati.

Si prevede, infine, un abbattimento della sanzione pecuniaria dalla metà ai due terzi se concorrono il compimento delle attività risarcitorie e riparatorie poc'anzi illustrate e l'adozione dei modelli di prevenzione dei reati.

In tutti i casi di riduzione della sanzione previsti dall'articolo 12, la sanzione pecuniaria non potrà comunque scendere al di sotto di lire venti milioni.

6. Le sanzioni interdittive.

Le sanzioni interdittive sono individuate nell'articolo 9, comma 2, e replicano, in larga misura, il catalogo contenuto nella lettera l) dell'articolo 11 della delega. L'unica, significativa eccezione riguarda la mancata inclusione della sanzione della chiusura dello stabilimento o della sede commerciale che, stante la scelta del Governo (che sarà chiarita nel prosieguo della relazione) di attuare la delega solo con riguardo ai reati che formano oggetto delle Convenzioni PIF e OCSE, si rivela sostanzialmente incompatibile con le finalità del sistema punitivo. La chiusura dello stabilimento o della sede commerciale, infatti, è una sanzione tipicamente orientata a fronteggiare forme diverse di rischio-reato, segnatamente quegli illeciti che si situano nel cono d'ombra del rischio di impresa: si pensi ai reati in materia ambientale, all'omicidio o alle lesioni derivanti dalla violazione di norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro ovvero ai reati connessi allo svolgimento di attività pericolose. Come si vede, si tratta di una sanzione utilmente riferibile solo ai reati indicati nelle lettere b), c) e d) dell'articolo 11, che non sono stati ricompresi nel presente decreto legislativo. Per fronteggiare la criminalità del profitto, e dunque i reati che formano oggetto delle Convenzioni, sono sufficienti le altre sanzioni interdittive (si pensi all'interdizione dallo svolgimento dell'attività o all'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione), che meglio si adattano a colpire illeciti che, di regola, vengono consumati nel contesto di attività decisionali o negoziali e non già meramente esecutive.

Le sanzioni interdittive si applicano insieme alla sanzione pecuniaria e possono, per un verso, paralizzare lo svolgimento dell'attività dell'ente, per altro verso, condizionarla attraverso la limitazione della sua capacità giuridica ovvero con la sottrazione di risorse finanziarie. Si tratta dunque di sanzioni particolarmente invasive e temute che, proprio per questo, la legge delega impone di applicare solo nei casi più gravi. L'opportunità politico-criminale della loro previsione non può essere messa in discussione: la sanzione pecuniaria non deve infatti rappresentare l'unica arma da utilizzare contro la criminalità d'impresa, atteso che per quanto possa essere adeguata al patrimonio dell'ente, finirà comunque per essere annoverata tra i "rischi patrimoniali" inerenti alla gestione. E' un bene, dunque, che essa sia affiancata da sanzioni interdittive, che possiedono in misura superiore la forza di distogliere le società dal compimento di operazioni illecite e da preoccupanti atteggiamenti di disorganizzazione operativa.

Quanto alla loro durata, la delega pone qualche problema interpretativo. Fatta eccezione per la sanzione della revoca delle sovvenzioni o dei finanziamenti, di cui al numero 5 della lettera l) dell'articolo 11, in cui si sancisce inequivocabilmente la durata temporanea della sanzione, in tutti gli altri casi si usa l'espressione, per vero un po' ambigua, di "previsione anche temporanea di..". La locuzione apre il campo a interpretazioni contrapposte. Da un lato, si potrebbe sostenere che il ricorso alla parola "anche" lasci libero il legislatore delegato di optare per un sistema che preveda sanzioni interdittive definitive accanto a sanzioni temporanee o che privilegi le sole sanzioni temporanee.

Dall'altro lato, proprio il riferimento alla durata "anche temporanea" sembrerebbe legittimare pure la tesi secondo la quale debbano necessariamente prevedersi sanzioni interdittive definitive eventualmente affiancate da sanzioni temporanee. Tesi rafforzata dalla circostanza, indubbiamente evocativa, che quando il legislatore si è voluto limitare alla previsione di sanzioni solo temporanee lo ha chiaramente esplicitato, come è avvenuto nel contesto del richiamato numero 6) della lettera l).

Il Governo ritiene che l'interpretazione letterale e sistematica della delega non permetta di accordare sicuro privilegio all'una piuttosto che all'altra tesi. Sta di fatto che l'adeguamento più corretto, salva diverso orientamento delle Camere, sembra propendere in direzione di un sistema che contempli una disciplina generale delle sanzioni interdittive, applicabili di regola in via temporanea e, in casi eccezionali, in via definitiva.

Sul piano sistematico e politico-criminale, la disciplina predisposta per le sanzioni interdittive (v. artt.13 - 16) si connota in termini spiccatamente specialpreventivi. Nella piena consapevolezza delle conseguenze (pesantemente) negative che queste sanzioni proiettano sulla vita e l'attività dell'ente, si propone un modello sanzionatorio che ancora la minaccia a presupposti applicativi particolarmente rigorosi funzionali al conseguimento di utili risultati per la tutela dei beni tutelati, visto che si consente all'ente di attivarsi, attraverso condotte riparatorie, per evitare l'applicazione di queste sanzioni. Da un lato, dunque, la minaccia presuppone il compimento di reati di particolare gravità ovvero la reiterazione degli illeciti; dall'altro lato, si stagliano sanzioni positive che permettono di scongiurare l'applicazione delle sanzioni interdittive in presenza di comportamenti diretti a reintegrare l'offesa. Si profila, dunque, una linea di politica sanzionatoria che non mira ad una punizione indiscriminata e indefettibile, ma che, per contro, punta dichiaratamente a privilegiare una dimensione che salvaguardi la prevenzione del rischio di commissione di reati in uno con la necessaria, previa eliminazione delle conseguenze prodotte dall'illecito.

In coerenza con i descritti obbiettivi, l'articolo 13 sancisce dapprima che le sanzioni interdittive si applicano solo in relazione ai reati per i quali sono espressamente previste, in omaggio ad una esigenza di legalità e di selezione delle fattispecie (più gravi) meritevoli di un simile invasivo corollario sanzionatorio; quindi condiziona l'applicabilità di queste sanzioni all'esistenza di almeno uno dei seguenti requisiti. Il primo ricorre quando il l'ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità e il reato è stato commesso da soggetti in posizione apicale o da soggetti sottoposti all'altrui direzione e, in questo caso, la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative.

Si tratta di un requisito fondato sull'accentuato disvalore del reato e dell'illecito amministrativo che vi accede. Sul versante dei soggetti, spicca l'ipotesi in cui il reato sia stato commesso dai vertici della società, evenienza questa che denota una specifica e preoccupante propensione dell'ente verso il conseguimento di illeciti profitti. Il reato, nel caso in cui sia stato commesso dai dipendenti, dipende, di regola, dall'esistenza di gravi carenze organizzative: questa circostanza evoca con immediatezza la ricorrenza di una grave colpa organizzativa da parte dell'ente, riconducibile o alla mancata adozione di un programma di prevenzione dei reati, ovvero all'adozione di un programma "di facciata", inidoneo a minimizzare o annullare il rischio-reato. In entrambi i casi, per l'applicazione della sanzione interdittiva occorre altresì che dalla commissione del reato l'ente abbia ricavato un profitto rilevante.

L'altro requisito che determina l'applicazione di sanzioni interdittive è la reiterazione degli illeciti, il cui contenuto è disciplinato dall'articolo 20, al cui commento si fa pertanto rinvio. La ratio della norma è di intuitiva evidenza: la reiterazione degli illeciti costituisce il diapason che segnala la presenza di un ente ormai insensibile alle sole sanzioni pecuniarie e che, anzi, potrebbe giovarsi della monetizzazione degli illeciti per scaricare sul pubblico le conseguenti esternalità negative (i costi). Ma non basta: la reiterazione è altresì sintomo di un ente che rivela una pericolosa propensione verso la criminalità del profitto o comunque inficiato da gravi carenze organizzative che amplificano il rischio-reato.

Come si vede, i presupposti applicativi delle sanzioni interdittive sono oltremodo rigorosi e non tradiscono alcun intento vessatorio.

Quanto alla durata delle sanzioni, essa è stata compresa in una forbice che va da tre mesi a due anni, da ritenersi adeguata rispetto alla tipologia di illeciti della parte speciale. Il successivo comma 3 stabilisce poi la loro inapplicabilità quando ricorrono i casi di riduzione della sanzione pecuniaria per la particolare tenuità del fatto.

Di particolare importanza è la norma dell'articolo 14, in tema di criteri di scelta delle sanzioni interdittive.

Il comma 1 esordisce con una disposizione fondamentale, richiamata anche dalla norma processuale che regola il contenuto della sentenza di condanna. Vi si stabilisce che le sanzioni interdittive hanno ad oggetto la specifica attività alla quale si riferisce l'illecito dell'ente. La sottolineatura di questo aspetto è dettata da ragioni funzionali, legate anche alla moderna fisionomia delle dinamiche d'impresa. Si richiama, infatti, l'attenzione del giudice sulla circostanza che la sanzione interdittiva non deve ispirarsi ad un criterio applicativo generalizzato e indiscriminato. Al contrario, occorre individuare la fonte, la causa dell'illecito nel contesto delle attività che esso svolge. Le sanzioni, per quanto possibile, devono colpire il ramo di attività in cui si è sprigionato l'illecito, in omaggio ad un principio di economicità e di proporzione. La necessità di questa selezione - conviene ripeterlo - deriva proprio dalla estrema frammentazione dei comparti produttivi che oggi segna la vita delle imprese ed è inoltre destinata a rivelarsi preziosa in sede di disciplina della sorte delle sanzioni interdittive applicate nei confronti degli enti soggetti a vicende modificative (v. artt. 30 e 31).

Per queste ragioni, si è così previsto, con riguardo al divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, la frazionabilità di questa sanzione, che potrà avere ad oggetto alcuni contratti o riguardare solo alcune amministrazioni.

Solo quando l'illecito costituisce espressione di una generale propensione al conseguimento di illeciti profitti, ricavabile da prassi criminose ormai consolidate che coinvolgono i vertici dell'ente, sarà inevitabile un'applicazione indivisa della sanzione.

Quanto ai criteri commisurativi, da utilizzare per individuare il tipo e la durata della sanzione interdittiva da irrogare, valgono quelli indicati nell'articolo 11, con un'integrazione relativa alla necessità che il giudice tenga conto dell'efficacia delle singole sanzioni a prevenire illeciti del tipo di quello commesso. Proprio la valutazione sull'efficacia preventiva delle singole sanzioni può determinare il giudice all'applicazione congiunta di più sanzioni interdittive, ove ciò dovesse rendersi necessario per il conseguimento del descritto obbiettivo.

Il comma 2 dell'articolo 14 stabilisce poi che l'applicazione della sanzione dell'interdizione dall'esercizio di un'attività comporta di diritto la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali allo svolgimento dell'attività. Questa disposizione mira a semplificare la trama dei rapporti che intercorrono tra le sanzioni che inibiscono lo svolgimento di un'attività e quelle che determinano il venir meno dell'atto amministrativo che ne legittima lo svolgimento, sul presupposto che l'irrogazione di una sanzione che paralizza in tutto in parte lo svolgimento di un'attività non possa che trascinare con sé anche quella che provoca la revoca o la sospensione degli atti amministrativi di natura autorizzativa.

L'ultimo comma dell'articolo 14 prescrive che alla sanzione dell'interdizione dall'esercizio dell'attività si debba ricorrere solo quando tutte le altre sanzioni risultino inadeguate. Si tratta dunque di una sanzione che si atteggia come extrema ratio, proprio in ragione della marcata invasività sulla vita dell'ente. Dal contenuto di questa norma è inoltre ricavabile il corollario che tutte le sanzioni destinate ad incidere sullo svolgimento dell'attività, in modo da interromperla, dovrebbero trovare applicazione solo nei casi più gravi e in presenza di un'acclarata inidoneità preventiva delle restanti meno gravi sanzioni.

In ordine al regime di operatività delle sanzioni interdittive temporanee, va chiarito che, allorché ricorrano i loro presupposti applicativi (illecito che ne consente l'applicazione e la sussistenza di almeno uno dei requisiti indicati nell'articolo 13), il giudice ha l'obbligo di irrogarle. Questa scelta serve a garantire l'uniformità applicativa delle sanzioni. Del resto, il carattere stringente dei presupposti applicativi non lascia spazio ad eventuali successivi apprezzamenti discrezionali che, ove ammessi, potrebbero fomentare prassi corrive e disomogenee. Per non parlare del rischio che il riconoscimento della discrezionalità giudiziale conduca il sistema delle sanzioni interdittive verso una deprecabile disapplicazione.

L'articolo 15 disciplina le ipotesi in cui le sanzioni interdittive sono indirizzate verso enti che svolgono un pubblico servizio o un servizio di pubblica necessità. La legge delega, dopo aver previsto come sanzione interdittiva quella dell'interdizione anche temporanea dall'esercizio dell'attività, prescrive l'eventuale nomina di un altro soggetto per l'esercizio vicario della medesima quando la prosecuzione dell'attività è necessaria per evitare pregiudizio a terzi (v. art. 11, comma 1, lettera l), n. 3). Questa previsione impone un'attenta interpretazione, diretta a garantire una traduzione normativa che risulti coerente con la struttura e le finalità del sistema sanzionatorio.

In primo luogo, va rilevato che il riferimento al grave pregiudizio a terzi come condizione per la prosecuzione dell'attività da parte di un soggetto vicario, denota, se interpretato alla lettera, un'orbita applicativa troppo ampia e tale da vanificare l'applicabilità delle sanzioni interdittive che precludono l'esercizio di una attività. E' risaputo, infatti, che l'irrogazione di una qualsiasi sanzione è comunque in grado di provocare ripercussioni negative verso altri soggetti. Così, per fare un esempio, i familiari di un soggetto condannato ad una pena detentiva risentiranno, a livello di reddito familiare, dei mancati introiti derivanti dallo stato di detenzione del loro congiunto; come pure si troveranno costretti a cessare l'esercizio di un'attività imprenditoriale in cui il detenuto svolgeva un ruolo insostituibile. Allo stesso modo, la sanzione interdittiva che impedisce all'ente di svolgere la sua attività può recare pregiudizio ai creditori o ai livelli occupazionali. Sta di fatto che non può certamente essere questo il tipo di pregiudizio sufficiente a vanificare l'applicazione della sanzione interdittiva. Se così fosse, questo tipo di sanzioni non potrebbe mai avere luogo. Sembra allora indispensabile circoscrivere la tipologia del pregiudizio e il percorso privilegiato dal Governo è stato quello di accordare salvaguardia ai soli interessi della collettività: si è così previsto che la sanzione interdittiva possa essere sostituita dall'esercizio vicario dell'attività quando la sanzione colpisce un ente che svolge un pubblico servizio o un servizio di pubblica utilità, la cui interruzione può provocare un grave pregiudizio alla collettività. Solo il riferimento allo svolgimento di un pubblico servizio è in grado di restituire l'immagine di un pregiudizio collettivo, che trascende dalla mera lesione di diritti individuali o di aspettative legati all'esercizio di attività economiche che non coinvolgono immediatamente l'interesse del pubblico alla fruizione di un servizio. Detto in altri termini, non è immaginabile che un sistema sanzionatorio, che ambisca a definirsi tale, possa prevedere la non applicabilità di talune sanzioni quando dalla loro irrogazione possa derivare la lesioni di posizioni giuridiche soggettive o di interessi di mero fatto, destinati fisiologicamente a risentire degli svantaggi conseguenti all'applicazione di qualsiasi tipo di sanzione. Solo se l'attività svolta dall'ente concerne servizi a cui attinge l'intera collettività, può prefigurarsi un meccanismo derogatorio, giustificato proprio dall'esigenza di garantire la continuità del servizio.

Ma non basta. La qualificazione in termini di gravità del pregiudizio appare comunque necessaria per evitare comodi aggiramenti delle sanzioni interdittive, specie quando la loro irrogazione non compromette in modo apprezzabile la funzionalità del pubblico servizio.

Quanto alla tipologia di sanzioni interdittive interessate da questo fenomeno di "sostituzione", la legge delega sembrerebbe richiamare la sola sanzione dell'interdizione dall'esercizio dell'attività. Si tratta, a ben vedere, di una limitazione non del tutto ragionevole: la rilevanza pubblica dell'attività svolta dall'ente impone di estendere il meccanismo sostitutivo a tutte quelle ipotesi in cui l'applicazione di alcune sanzioni interdittive comporti l'interruzione del servizio. Ne deriva la necessità di ricomprendervi, ad esempio, la sanzione della revoca o della sospensione delle autorizzazioni, licenze o concessioni che legittimano lo svolgimento dell'attività. Nel comma 1 dell'articolo 15, si è previsto, perciò, in via generale, che il giudice possa disporre la prosecuzione dell'attività da parte di un commissario in luogo di una sanzione interdittiva a cui consegua l'interruzione dell'attività.

La durata del commissariamento è pari a quella della sanzione che il giudice avrebbe inflitto. Con la sentenza di condanna, il giudice indica i compiti e i poter del commissario, tenendo conto del ramo di attività e del settore in cui è stato consumato l'illecito. Ne deriva, pertanto, che il giudice calibrerà l'intensità della sostituzione gestoria sulle caratteristiche dell'illecito, con particolare riguardo alle attività in cui lo stesso si è verificato. Inoltre, il commissario curerà l'adozione e l'attuazione dei modelli organizzativi diretti a prevenire il rischio-reato, sulla base delle indicazione che il giudice indicherà nella sentenza. Si prevede, poi, che il commissario non possa svolgere atti di straordinaria amministrazione senza autorizzazione del giudice. Egli provvederà, infine, alla confisca del profitto derivante dalla prosecuzione dell'attività. Quest'ultima disposizione è intimamente collegata alla natura comunque sanzionatoria del provvedimento adottato dal giudice: la confisca del profitto serve proprio ad enfatizzare questo aspetto, nel senso che la prosecuzione dell'attività è pur sempre legata alla sostituzione di una sanzione, sì che l'ente non deve essere messo nelle condizioni di ricavare un profitto dalla mancata interruzione di un'attività che, se non avesse avuto ad oggetto un pubblico servizio, sarebbe stata interdetta.

Va, infine, chiarito che la sostituzione commissariale opera solo con riguardo alle sanzioni interdittive temporanee: quelle che comportano l'interruzione in via definitiva dell'attività si fondano - come si vedrà tra breve - su presupposti applicativi che restituiscono l'immagine di un ente ormai irrecuperabile ad un prospettiva di legalità

6.1. I casi di esclusione dell'applicazione di sanzioni interdittive conseguenti a condotte riparatorie.

L'articolo 16 individua le condotte di riparazione delle conseguenze del reato che permettono all'ente di evitare l'applicazione delle sanzioni interdittive temporanee. La norma - lo si è anticipato - trasuda chiare finalità specialpreventive, accordando un premio all'ente che pone in essere un comportamento che integra un "controvalore" rispetto all'offesa realizzata. Comportamento successivo all'illecito e da tenere prima dell'apertura del giudizio, che attenua il bisogno di pena, e che, in particolare, controagisce rispetto ai presupposti applicativi delle sanzioni interdittive, annullando la loro carica di disvalore. Ferma l'applicazione delle sanzioni pecuniarie, l'ente non soggiace alle sanzioni interdittive quando concorrono tre condizioni. Le prime due coincidono, in buona parte, con quelle di cui all'articolo 12, comma 2: si tratta, da un lato, delle condotte risarcitorie e riparatorie, da reputarsi integrate anche quando l'ente si sia efficacemente attivato in tal senso (in proposito, si rimanda al commento svolto, supra, per i casi di riduzione della sanzione pecuniaria); dall'altro lato, si richiede che l'ente abbia provveduto ad eliminare le carenze organizzative che hanno determinato il reato, mediante l'adozione e l'efficace attuazione dei modelli organizzativi. Tra le condizioni in esame sussiste un evidente sinergia funzionale: per evitare la sanzione interditttiva che, di regola, tende a paralizzare o a condizionare lo svolgimento dell'attività, non è sufficiente aver eliminato le conseguenze del reato e aver risarcito il danno: il modello di esonero dalla sanzione interdittiva diventa pienamente cofunzionale agli scopi di tali sanzioni solo se la condotta compensativa post-factum ricomprende anche l'eliminazione del fattore di rischio che ha provocato o agevolato la commissione del reato da cui dipende l'esistenza dell'illecito amministrativo. Di qui la necessità di ri-organizzare l'ente eliminando la causa dell'illecito e curando l'adozione e l'attuazione di efficaci modelli di prevenzione del reato.

Come terzo concorrente requisito, si prevede che l'ente metta a disposizione il profitto conseguito. La ratio della disposizione è trasparente: visto che il profitto costituisce, di regola, il movente che ispira la consumazione dei reati, l'inapplicabilità della sanzione interdittiva postula inevitabilmente che si rinunci ad esso e lo si metta a disposizione dell'autorità procedente.

In definitiva, le contro-azioni di natura reintegrativa, riparatoria e ri-organizzativa sono orientate alla tutela degli interessi offesi dall'illecito e, pertanto, la rielaborazione del conflitto sociale sotteso all'illecito e al reato avviene non solo attraverso una logica di stampo repressivo ma anche, e soprattutto, con la valorizzazione di modelli compensativi dell'offesa.

Il favore che viene ricollegato alla tenuta di queste condotte è altresì corroborato dalla circostanza, particolarmente significativa, che, anche se vengono tenute oltre il termine previsto, o in seguito alle vicende modificative dell'ente, danno luogo alla conversione della sanzione interdittiva in sanzione pecuniaria (v. art. 78).

6.2. Le sanzioni interdittive applicate in via definitiva.

Le sanzioni interdittive applicate in via definitiva sono disciplinate dall'articolo 17. Il modello prefigurato circoscrive molto l'orbita applicativa di tali sanzioni, indirizzandole essenzialmente verso quegli enti che nel corso del tempo hanno dimostrato una pervicace e non altrimenti contenibile tendenza alla commissione di illeciti particolarmente gravi. Il comma 1 si occupa della sanzione della interdizione dallo svolgimento dell'attività, prevedendone l'applicazione in via definitiva quando ricorre almeno uno dei seguenti casi. Il primo concerne le ipotesi in cui si ha a che fare con un ente, o con una sua unità organizzativa, intrinsecamente illecito, il cui oggetto sia proiettato in modo specifico e assorbente alla commissione di reati. In questa evenienza, pervero piuttosto infrequente nel contesto della tipologia di illeciti compresa nel decreto, l'interruzione in via definitiva dell'attività, mediante la sua interdizione, costituisce un inevitabile corollario: si tratta, infatti, di enti dimostratisi insensibili a qualsiasi prospettiva di ri-organizzazione in direzione di un rassicurante recupero di legalità.

Il secondo caso riguarda enti che, sebbene siano stati assoggettati alla sanzione in discorso per almeno tre volte negli ultimi sette anni, commettono un illecito dipendente da un reato da cui l'ente ha ricavato un profitto di rilevante entità. La definitività della sanzione interdittiva appare ampiamente giustificata, se solo si pensa che l'ente è rimasto sostanzialmente insensibile all'irrogazione di precedenti, identiche sanzioni interdittive, lasciando così trasparire l'impossibilità di rimanere sul mercato nel rispetto delle leggi. Pur non essendo intrinsecamente illecito, è tuttavia un ente strutturalmente incapace di rispettare le norme e di prevenire o di contenere in maniera apprezzabile il rischio-reato. Non residua, perciò, spazio per l'irrogazione di sanzioni temporanee: anzi, la vicende dell'ente nel corso del tempo comprovano inequivocabilmente una incontenibile propensione all'illecito.

Il comma 2 della norma disciplina l'applicazione in via definitiva della sanzione del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione. Anche in questo caso, ci si è orientati nel senso di conferire decisivo rilievo al numero di reiterazioni dell'illecito, nel senso che l'ente soggiacerà a detta sanzione quando l'abbia già riportata almeno tre volte negli ultimi sette anni. In questa ipotesi, il giudice può affiancare al divieto di contrattare con la pubblica amministrazione l'applicazione in via definitiva della sanzione del divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Da ultimo, va segnalato che, a differenza di quanto si è previsto per le sanzioni interdittive applicate in via temporanea, quelle definitive non sottostanno al regime di obbligatorietà applicativa. La discrezionalità riconosciuta al giudice è collegata al carattere estremo di tali sanzioni: di conseguenza, pur ricorrendone i presupposti applicativi, si rimette al giudice il compito di effettuare ogni ulteriore, utile apprezzamento in concreto: potrebbero, infatti, verificarsi ipotesi in cui la prognosi di irrecuperabilità dell'ente ad una prospettiva di legalità, cristallizzata in via astratta dalla norma, potrebbe trovare parziale smentita nei fatti.

7. Le altre sanzioni.

Gli articoli 18 e 19 prevedono le altre sanzioni applicabili nei confronti dell'ente. La sanzione della pubblicazione della sentenza di condanna, mutuata dall'arsenale penalistico, non solleva problemi interpretativi. Essa può essere applicata dal giudice quando l'ente soggiace all'irrogazione di una sanzione interdittiva: dunque, nelle ipotesi più gravi che ben possono legittimare un interesse del pubblico alla conoscenza della condanna.

Di particolare rilievo la sanzione della confisca, irrogabile con la sentenza di condanna, che si atteggia a sanzione principale e obbligatoria. Essa viene configurata sia nella sua veste tradizionale, che cade cioè sul prezzo o sul profitto dell'illecito, sia nella sua forma "moderna", quella "per equivalente", in vista di una più efficace azione di contrasto contro la criminalità del profitto.

La confisca "tradizionale" colpisce il prezzo del reato, costituito dalle cose, dal denaro o da altre utilità date o promesse per determinare o istigare alla commissione del reato, e il profitto del reato, da intendersi come una conseguenza economica immediata ricavata dal fatto di reato.

La confisca "per equivalente", già conosciuta nel nostro ordinamento, ha invece ad oggetto somme di denaro, beni o altra utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato. Essa opera, ovviamente, quando non è possibile l'apprensione del prezzo o del profitto con le forme della confisca tradizionale e permette così di evitare che l'ente riesca comunque a godere illegittimamente dei proventi del reato ormai indisponibili per un'apprensione con le forme della confisca ordinaria.

8. La reiterazione degli illeciti.

Un valore strategico nell'ambito del sistema sanzionatorio nei confronti degli enti collettivi è assegnato all'istituto della reiterazione, disciplinato nell'articolo 20. Come si è già avuto modo di notare, esso giuoca un ruolo determinate per l'irrogazione delle sanzioni interdittive, temporanee e definitive.

La natura amministrativa delle sanzioni e la loro riferibilità all'ente in dipendenza di un fatto reato ha reso necessario calibrare l'istituto secondo cadenze che tenessero conto del sostrato empirico-crimonologico in cui impinge.

La reiterazione è così destinata a "scattare" quando la precedente condanna abbia avuto ad oggetto anche un solo delitto doloso. Questa soluzione è imposta dal rilievo che i delitti previsti nel decreto, nella maggior parte dei casi riferibili a soggetti in posizione apicale, rivelano una sostanziale estraneità rispetto al rischio di impresa, dirigendosi verso il conseguimento di illeciti profitti che alterano le regole della concorrenza e che alimentano i circuiti della criminalità del profitto. Il messaggio che viene lanciato sul piano della politica criminale è oltremodo chiaro. Il rigore sanzionatorio viene modulato proprio sul tipo di illecito: se non è realisticamente possibile ignorare che l'attività di impresa sconta il rischio di commissione di illeciti strettamente collegati ai moderni processi produttivi, la criminalità del profitto segna, per contro, una frattura con i fondamentali precipitati di legalità che debbono conformare i sistemi economici dei paesi industriali avanzati e, pertanto, la minaccia non può conoscere cedimenti che ne affievoliscano l'efficacia preventiva.

9. La pluralità di illeciti.

La norma dell'articolo 21 detta disposizioni in tema di pluralità di illeciti.

Nel sistema dell'illecito amministrativo, opera come regola generale quella del concorso materiale delle violazioni, a cui si deroga, a mente dell'articolo 8 della legge n. 689 del 1981, nei casi di concorso formale omogeneo o eterogeneo.

Su questo versante, il Governo non ritiene di doversi discostare dai principi generali dell'illecito amministrativo, salvo che per la necessità di dover adattare anche in questo caso l'istituto del concorso formale alla peculiarità del contesto, in cui i destinatari delle sanzioni sono gli enti collettivi.

Il comma 1 della disposizione stabilisce che l'ente soggiace alla sanzione pecuniaria prevista per l'illecito più grave aumentata fino al triplo in relazione ad una pluralità di reati commessi con una azione od omissione, ovvero nello svolgimento della medesima attività. Il riferimento agli illeciti dipendenti da reati commessi nello svolgimento della medesima attività evoca il rapporto pertinenziale che deve intercorrere tra i reati e il settore o il ramo di attività dai quali essi dipendono. Il regime del cumulo giuridico non potrà pertanto trovare attuazione quando la pluralità di violazioni sia riconducibile ad attività diverse e, in ultima analisi, a diverse lacune organizzative.

E' indubbio peraltro che la nuova ipotesi soggetta all'applicazione del cumulo giuridico segna un'estensione che deve essere comunque circoscritta sotto il profilo temporale. L'ambito di ragionevole unificazione del trattamento sanzionatorio è quello di reati che siano giudicati con un'unica sentenza o anche con più sentenze, quando l'ente già condannato per una o più violazioni, riporti una nuova condanna per uno o più illeciti commessi prima della precedente sentenza di condanna. Ne deriva che non possono soggiacere al più favorevole regime del cumulo giuridico anche illeciti relativi a reati commessi successivamente, pena una sensibile caduta dell'efficacia generalpreventiva del sistema sanzionatorio. Pertanto, come soglia temporale oltre la quale non è possibile applicare il cumulo giuridico, è stata indicata, nel comma 1, la sentenza anche non definitiva di condanna.

Per quanto concerne le sanzioni interdittive da irrogare nei casi di concorso formale ovvero di illeciti dipendenti dalla medesima attività, è stato privilegiato il ricorso al criterio dell'assorbimento, nel senso che, se sussistono le condizioni per l'applicazione di sanzioni interdittive, si applica quella prevista per l'illecito più grave, da individuare attraverso una valutazione in concreto, che tenga conto della tipologia e della durata della sanzione inflitta.

Si è ritenuto, infine, non necessario dettare norme rivolte a disciplinare il concorso materiale delle sanzioni, nella convinzione che il sistema sia agevolmente ricostruibile sulla base dei principi generali. Così: le sanzioni pecuniarie si cumuleranno per una somma pari al loro importo complessivo; identiche sanzioni interdittive, aventi ad oggetto le medesime attività, si applicheranno per un tempo pari alla loro durata complessiva; qualora, invece, si sia in presenza di sanzioni interdittive di diversa specie ma aventi lo stesso oggetto, esse si applicheranno tutte distintamente e per intero; troveranno invece applicazione congiunta le sanzioni interdittive di diversa specie che colpiscono differenti attività.

Nessun particolare problema sembra insorgere per l'applicazione in via definitiva di una pluralità di sanzioni interdittive.

Peraltro, ove le Camere dovessero ritenere preferibile apprestare una disciplina anche con riferimento al concorso materiale di illeciti, alla norma dell'articolo 21 potrebbero aggiungersi i seguenti commi:

"3. Fuori dei casi previsti dal comma 1, se l'ente viene condannato in relazione ad una pluralità di reati con una o più sentenze, le sanzioni pecuniarie inflitte si cumulano per una misura pari all'importo complessivo delle sanzioni che dovrebbero infliggersi per ciascun illecito. Se ricorrono le condizioni per l'applicazione di identiche sanzioni interdittive aventi ad oggetto le medesime attività, esse si applicano per un tempo pari alla durata complessiva delle sanzioni che si dovrebbero infliggere per ciascun illecito.

4. Se gli illeciti importano sanzioni interdittive di specie diversa aventi ad oggetto le medesime attività, esse si applicano tutte distintamente e per intero; se le sanzioni interdittive hanno ad oggetto attività diverse, esse si applicano tutte congiuntamente e per intero.

5. Nel caso di una o più condanne per illeciti che importano l'applicazione in via definitiva di sanzioni interdittive di specie diversa ed aventi ad oggetto le medesime attività, si applica la sanzione più grave. Per stabilire quale sia la sanzione interdittiva più grave, si ha riguardo all'elencazione di cui all'articolo 9.

6. La disposizione del precedente comma si osserva anche quando concorrono illeciti che importano l'applicazione di misure interdittive temporanee che hanno lo stesso oggetto.".

10. La prescrizione.

L'articolo 22, in attuazione del criterio di delega di cui alla lettera r) dell'articolo 11, regola la prescrizione degli illeciti amministrativi dipendenti da reato. L'enunciato della delega replica in buona sostanza la disciplina contenuta nell'articolo 28 della legge n. 689 del 1981, salvo che per l'incipit, in cui è scomparso il riferimento al diritto alla riscossione delle somme dovute per la violazione, sostituito con il richiamo alle sanzioni amministrative a carico dell'ente. La scelta, invero, non pare delle più felici, visto che il rinvio ad una regolamentazione di stampo civilistico rischia di dilatare eccessivamente il tempo di prescrizione dell'illecito amministrativo dell'ente, potendo persino favorire deprecabili prassi dilatorie, specie nei casi in cui si proceda separatamente nei confronti dell'ente.

Tuttavia, non sembra possibile effettuare interventi di ortodossia, che rischierebbero fatalmente di esporsi alla censura di essere in contrasto con la volontà del legislatore delegante.

Il comma 1 della norma sancisce che le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato.

Il richiamo della disciplina civilistica è contenuto nei commi 3 e 4 e non presenta problemi di sorta.

Nel comma 2, invece, si è provveduto ad indicare quali atti interrompono il corso della prescrizione, non potendosi sul punto fare rinvio al codice civile. Tali atti sono stati individuati nella richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e nella contestazione dell'illecito amministrativo a norma dell'articolo 59. La tipologia degli atti interruttivi, sensibilmente più ridotta rispetto a quella valevole per il reato, è parsa sufficiente in considerazione del regime giuridico degli effetti dell'interruzione che, in seguito alla contestazione dell'illecito, fa sì che la prescrizione non corra fino al passaggio in giudicato della sentenza.

11. La violazione delle sanzioni interdittive.

Con l'articolo 23, ottemperando al disposto di cui alla lettera p) dell'articolo 11 della delega, si introduce una nuova fattispecie penale destinata a sanzionare le violazioni agli obblighi o ai divieti inerenti alle sanzioni interdittive, anche se applicate in via cautelare durante il processo. Di rimbalzo, viene altresì prevista la responsabilità amministrativa dell'ente, nel cui interesse o vantaggio sia stato commesso il reato: in questo caso, la sanzione pecuniaria irrogabile è da duecento a seicento quote; inoltre, se dal reato l'ente ha tratto un profitto rilevante si applicano nei confronti dell'ente sanzioni interdittive, anche diverse da quelle in precedenza irrogate.

Queste disposizioni sanzionatorie, penali e amministrative, mirano evidentemente ad assicurare l'effettività delle sanzioni interdittive.

12. I reati che determinano la responsabilità amministrativa dell'ente.

La sezione III del capo I dello schema di decreto costituisce, parafrasando il linguaggio penalistico, la "parte speciale" del sistema di responsabilità degli enti. Essa si pone in attuazione della sola lettera a) dell'articolo 11 della legge-delega che si limita a stendere il catalogo dei reati che integrano il presupposto della responsabilità amministrativa dell'ente senza fornire indicazioni ulteriori in ordine ai criteri di formazione dei compassi edittali.

L'attuazione della delega viene pertanto limitata al novero dei reati che formano oggetto delle Convenzioni ratificate con la legge di delega: dunque, i reati di concussione, corruzione e frode. Questa scelta del Governo muove dal rilievo che, nel corso degli ultimi passaggi parlamentari che hanno preceduto l'approvazione della legge, la Camera e il Senato hanno votato due contrastanti ordini del giorno proprio sul versante dell'ampiezza del catalogo dei reati a cui legare la responsabilità amministrativa degli enti. Da un lato, l'ordine del giorno votato dalla Camera il 27 luglio 2000 impegnava il Governo a contenere l'esercizio della delega con riguardo ai soli reati indicati negli strumenti internazionali oggetto di ratifica. Dall'altro lato, invece, il successivo ordine del giorno approvato dal Senato impegnava il Governo a dare integrale attuazione alla delega, quindi con riferimento a tutti i reati indicati nelle lettere b), c) e d) dell'articolo 11, sul presupposto che altri strumenti internazionali (oggetto di futura ratifica) contemplano la responsabilità sanzionatoria degli enti nelle materie della tutela ambientale, del territorio e della sicurezza del lavoro.

In ragione di un così marcato contrasto, il Governo reputa preferibile attestarsi su una posizione "minimalista", che coincide con quella dell'ordine del giorno votato dalla Camera. Del resto, la legge delega ha ad oggetto la ratifica delle Convenzioni PIF e OCSE, sì che pare opportuno limitare l'intervento in tema di responsabilità sanzionatoria degli enti ai reati indicati nei citati strumenti internazionali e comunitari.

Il Governo non ignora che, sul piano generale, il catalogo dei reati di cui all'articolo 11, lettere a), b), c) e d), ricostruisce, in modo più completo, la cornice criminologica della criminalità d'impresa, nel cui ventre distingue, da un lato, gli illeciti collegati a delitti precipuamente indirizzati al conseguimento di ingiustificati profitti, di regola espressione di una politica aziendale che mira ad aggirare i meccanismi di legalità che regolano la concorrenza e l'esercizio dell'attività produttiva; dall'altro lato, le violazioni che conseguono a reati espressivi di una colpa di organizzazione, che rappresentano una (e senz'altro la più grave) forma di proiezione negativa derivante dallo svolgimento dell'attività di impresa (il rischio-reato come una delle componenti del rischio di impresa). Nondimeno, occorre realisticamente prendere atto del maggiore equilibrio della scelta cd. minimalista: poiché l'introduzione della responsabilità sanzionatoria degli enti assume un carattere di forte innovazione del nostro ordinamento, sembra opportuno contenerne, per lo meno nella fase iniziale, la sfera di operatività, anche allo scopo di favorire il progressivo radicamento di una cultura aziendale della legalità che, se imposta ex abrupto con riferimento ad un ampio novero di reati, potrebbe fatalmente provocare non trascurabili difficoltà di adattamento.

L'esistenza del segnalato, profondo contrasto tra le Camere, induce comunque il Governo, che pure ha motivatamente prescelto la soluzione "ridotta", a sottoporre la questione all'attenzione delle Camere in vista del definitivo scioglimento di questo delicato nodo della delega.

12.1. I criteri di formazione degli editti sanzionatori.

Su questo aspetto, pure rilevante, la legge delega non offre indicazioni, fatta eccezione per quelle relative alla previsione di sanzioni interdittive nei casi di particolare gravità (si rinvia, sul punto, al relativo commento). Non resta, dunque, che affidarsi, nella costruzione del sistema, ai precipitati empirico-criminologici che contrassegnano le forme di devianza dell'ente e ai principi enucleati nella parte generale.

Sul piano strettamente criminologico, gli illeciti dell'ente si risolvono in massima parte in una colpa di organizzazione e, di conseguenza, la colpa, come deficit di controllo o di vigilanza (anche verso i soggetti in posizione apicale), assume un ruolo centrale nel sistema di responsabilità. A ciò si deve aggiungere, sul piano generale, che la colpevolezza dell'ente è intrinsecamente normativa e sfugge, pertanto, alla possibilità di scandagliare a fondo il legame psicologico con il fatto illecito.

Venendo, ora, ai criteri concretamente seguiti per assicurare l'uniformità e la coerenza interna del sistema delle cornici edittali, sono state selezionate tre fasce alle quali corrispondono altrettanti livelli di gravità degli illeciti penali, alla cui stregua sono stati poi disegnati gli editti delle sanzioni pecuniarie. Livelli di gravità che ovviamente sono stati concepiti come criteri regolatori "tendenziali" e non già come rigide e non altrimenti adattabili paratie.

La prima fascia comprende i delitti puniti con la reclusione fino a tre anni e, perciò, riconducibili nell'orbita dei reati di bassa gravità: in relazione ad essi, per l'illecito amministrativo che vi accede è stata stabilita la sanzione pecuniaria fino a duecento quote, ritenuta idonea a "fotografare" il non elevato livello di gravità dell'illecito.

La seconda fascia concerne i delitti in cui la reclusione oscilla tra tre e dieci anni: si ha a che fare, in questo ambito, con una fascia di criminalità di media gravità. Per gli illeciti amministrativi dipendenti da tali reati, ci si è orientati verso una sanzione pecuniaria che, di regola, va da duecento a seicento quote: un editto, quindi, che si colloca in posizione mediana.

All'interno di questa fascia, peraltro, è stata prevista la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote per quei delitti puniti con una pena superiore nel massimo a tre anni di reclusione ma che non oltrepassa tendenzialmente i cinque anni e che sono sprovvisti di un significativo minimo edittale (si pensi, ad esempio, ai reati puniti con la reclusione da uno a cinque anni). L'attenuazione è parsa opportuna proprio in considerazione dell'esistenza di minimi edittali non particolarmente gravi, che permettono, così, di prevedere sanzioni pecuniarie più lievi.

La terza fascia comprende i reati puniti con la reclusione da quattro-cinque nel minimo e superiore a dieci anni nel massimo, in relazione ai quali l'ente soggiace alla sanzione pecuniaria da trecento a ottocento quote, che ben riflette la gravità degli illeciti.

Quanto, infine, alle sanzioni interdittive, la loro previsione è stata calibrata sul tipo di reato da cui dipende l'illecito amministrativo dell'ente. Così, per quanto concerne i reati di indebita percezione di erogazioni e di truffa in danno dello Stato, di cui all'articolo 24 dello schema, risulteranno applicabili, sempre che ricorrano le condizioni di cui all'articolo 13, soltanto le sanzioni interdittive dell'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti o l'eventuale revoca di quelli già percepiti e il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Nel caso in cui l'illecito dell'ente dipenda dalla consumazione dei reati di concussione e corruzione (v. articolo 25), il giudice, una volta accertata la sussistenza dei requisiti di cui all'articolo 13, applicherà una o più delle sanzioni interdittive previste dall'articolo 9, comma 2. La maggiore gravità di tali reati rende inevitabile la scelta di ricorrere all'intero ventaglio sanzionatorio, fatta eccezione per le meno gravi ipotesi di corruzione "impropria", per le quali non sono applicabili sanzioni interdittive (v. articolo 25, comma 1 e 5).

12.2. La disciplina del tentativo.

Non sussistono dubbi sulla necessità di prevedere che la responsabilità amministrativa dell'ente debba essere estesa anche alle ipotesi di reato tentato. Lo si ricava dalla delega che, pur non nominando il tentativo, fa riferimento ai "reati", la cui forma di manifestazione è quella consumata o tentata.

La norma dell'articolo 26 stabilisce che, in presenza di un delitto tentato, le sanzioni pecuniarie e interdittive applicabili all'ente sono ridotte da un terzo alla metà.

Nel delineare la disciplina, il Governo ha ritenuto di doverla caratterizzare in modo diverso da quella penale per quanto concerne le ipotesi di recesso attivo. L'ultimo comma dell'articolo 56 del codice penale prevede, in questo caso, una sensibile riduzione di pena, mentre il Governo è dell'avviso che debba essere esclusa la "punibilità" dell'ente. Questa scelta è intimamente collegata alla filosofia preventiva che percorre trasversalmente l'intero decreto legislativo. Come si ricorderà, alle condotte riparatorie, che si atteggiano come "controvalore" rispetto all'offesa e che, quindi, si muovono in direzione della tutela del bene protetto, è stata riconosciuta un'efficacia attenuante rispetto al carico sanzionatorio pecuniario, mentre escludono l'applicazione delle sanzioni interdittive. Nel tentativo, come è noto, il bene protetto viene posto in pericolo: di conseguenza, l'ente che volontariamente impedisce l'azione o la realizzazione dell'evento compie una inequivocabile scelta di campo in favore della legalità, disinnescando la fonte di rischio o comunque impedendo che la stessa sprigioni definitivamente i suoi effetti dannosi. Qui la contro-azione dell'ente è tempestiva ed interna alla dinamica del fatto e ne scongiura la consumazione. Il bisogno di pena che, nel caso delle condotte riparatorie successive al reato risulta attenuato, nel caso del recesso attivo viene completamente meno. La scelta di non far rispondere l'ente costituisce, quindi, la conferma di un sistema di responsabilità estremamente dosato, che esclude o gradua la risposta sanzionatoria in funzione dell'intensità e della tempestività con le quali si assicura la salvaguardia del bene protetto. Se la responsabilità è attenuata in presenza di un post-fatto che reintegra per quanto possibile l'offesa, a maggior ragione deve essere esclusa quando ricorre un'azione che impedisce lo stesso accadimento dell'illecito.

Non è stata dettata alcuna disposizione con riguardo alla "desistenza volontaria", sul presupposto, ormai unanimemente condiviso, della sostanziale superfluità di cui è intrisa la norma dell'articolo 56, secondo capoverso, del codice penale: che l'ente quindi, nel caso in questione, non debba rispondere, se non limitatamente agli atti compiuti a condizione che costituiscano un reato per il quale sia prevista la sua responsabilità, è agevolmente ricavabile sul piano dell'interpretazione e dei principi.

13. Il concorso di sanzioni interdittive.

La disposizione dell'articolo 83, collocata nell'ambito delle disposizioni di attuazione e di coordinamento, disciplina un fenomeno di convergenza di sanzioni interdittive, la cui ricorrenza può pronosticarsi come tutt'altro che virtuale. Il fenomeno è legato alla possibile applicabilità di sanzioni interdittive (sovente qualificate come accessorie) stabilite da leggi speciali nei confronti dell'ente in presenza di una sentenza di condanna per uno dei reati previsti nel decreto legislativo. In altre parole, può accedere che si profili una "convergenza" verso il medesimo fatto-reato, per il quale è intervenuta la condanna, di sanzioni interdittive previste dal presente decreto e di sanzioni di analogo contenuto stabilite da diverse disposizioni di legge.

La norma dell'articolo 83, segnatamente il comma 1, sancisce che nei confronti degli enti si applicano solo le sanzioni previste dal decreto legislativo, sul presupposto che questo, come legge successiva, introduce la "nuova" disciplina organica della responsabilità sanzionatoria degli enti, destinata perciò a prevalere sulle diverse disposizioni della legislazione speciale.

In altre parole, la norma intende riconoscere al presente decreto la dignità di autentico statuto della responsabilità sanzionatoria degli enti, ai quali si applicheranno, pertanto, solo le sanzioni interdittive ivi previste.

La disposizione del comma 2 contempla il caso in cui, per effetto della commissione dell'illecito da parte dell'ente, quest'ultimo abbia già risentito dell'applicazione di sanzioni amministrative di identico o analogo contenuto rispetto a quelle irrogate dal giudice penale che accerta la responsabilità dell'ente.

Per fronteggiare simili evenienze, la norma stabilisce che la durata della sanzione già sofferta dovrà essere computata ai fini della determinazione della durata della sanzione interdittiva dipendente da reato, irrogata dal giudice penale.

II - RESPONSABILITA' PATRIMONIALE E VICENDE MODIFICATIVE DELL'ENTE

14. Responsabilità patrimoniale.

L'articolo 27, dando attuazione al criterio di delega di cui alla lettera h), stabilisce che dell'obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria risponde soltanto l'ente con il suo patrimonio o con il fondo comune, escludendo, così, che possano essere chiamati a risponderne anche i singoli soci od associati, secondo la disciplina valevole in rapporto alle altre obbligazioni dell'ente (si pensi, tipicamente, ai soci illimitatamente responsabili di società personali). La medesima disposizione estende, altresì, ai crediti dello Stato connessi alla responsabilità dell'ente per fatti di reato il privilegio che assiste, a norma del codice di procedura penale (v., in particolare, l'articolo 320, comma 2), i corrispondenti crediti dipendenti da reato.

14.1. Vicende modificative dell'ente.

I successivi articoli da 28 a 32 regolano l'incidenza sulla responsabilità dell'ente delle vicende modificative connesse ad operazioni di trasformazione, fusione o scissione. Nella relativa disciplina si è tenuto conto di due esigenze contrapposte: da un lato, quella di evitare che tali operazioni si risolvano in agevoli modalità di elusione della responsabilità; dall'altro, quella di escludere effetti eccessivamente penalizzanti, tali da porre remore anche ad interventi di riorganizzazione privi degli accennati intenti elusivi. Il criterio di massima al riguardo seguito è stato quello di regolare la sorte delle sanzioni pecuniarie conformemente ai principi dettati dal codice civile in ordine alla generalità degli altri debiti dell'ente originario, mantenendo, per converso, il collegamento delle sanzioni interdittive con il ramo di attività nel cui ambito è stato commesso il reato. Si è riconosciuta, peraltro, all'ente interessato la possibilità di ottenere la sostituzione di tali ultime sanzioni con una sanzione pecuniaria, allorché la riorganizzazione aziendale, solitamente profonda, che segue alla fusione o alla scissione sia valsa ad eliminare le cause che avevano determinato o reso possibile la commissione del reato.

Va segnalato, sotto diverso profilo, come la disciplina in esame - analogamente a quanto avviene per le sanzioni amministrative tributarie (articolo 15 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472) - risulti indistintamente riferita a tutti gli enti cui il decreto è applicabile, e non alle sole società. Sebbene, infatti, gli istituti della trasformazione, fusione e scissione trovino regolamentazione generale e "tipica" in rapporto a queste ultime, il loro ambito di operatività è più vasto, potendo i corrispondenti fenomeni interessare anche enti di diversa natura (si pensi, ad esempio, alla vicenda della "trasformazione" degli enti pubblici economici in società per azioni di diritto privato).

In tale prospettiva, l'articolo 28 precisa, anzitutto, che nel caso di trasformazione resta ferma la responsabilità dell'ente trasformato per i fatti di reato anteriormente commessi: previsione, questa, coerente con la natura dell'istituto della trasformazione, il quale implica un semplice mutamento del modulo organizzativo, che non incide sull'identità dell'ente.

Con riferimento all'ipotesi di fusione, l'articolo 29 prevede che l'ente che ne risulta (ivi compreso l'ente incorporante, nel caso di fusione per incorporazione) risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti all'operazione. Anche tale soluzione si giustifica agevolmente alla luce della considerazione che l'ente in parola, non solo assume tutti i diritti ed obblighi degli enti estinti (articolo 2504-bis, primo comma, del codice civile), ma ne accorpa le attività aziendali, comprese necessariamente, dunque, quelle nell'ambito delle quali sono stati posti in essere i reati di cui tali ultimi enti dovevano rispondere.

Ad evitare che, con particolare riguardo alle sanzioni interdittive, la regola ora enunciata determini una "dilatazione" di dubbia opportunità della misura punitiva - coinvolgendo aziende "sane" in provvedimenti diretti a colpire aziende "malate" (si pensi al caso in cui una modesta società, responsabile di un illecito sanzionabile con il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, venga incorporata da una grande società con azioni quotate in borsa) - provvedono, per vero, da un lato, la disposizione generale che limita comunque le sanzioni interdittive all'attività o alle strutture in cui l'illecito è stato commesso (articolo 14, comma 1, dello schema); e, dall'altro, la già ricordata facoltà dell'ente risultante dalla fusione di chiedere, nei congrui casi, la sostituzione delle sanzioni stesse con sanzioni pecuniarie.

Maggiormente articolata risulta la disciplina dettata per l'ipotesi della scissione, la quale tiene conto delle differenti forme che questa può assumere. L'articolo 30 esordisce, in particolare, stabilendo che, nel caso di scissione parziale - quando, cioè, la scissione avvenga mediante trasferimento di una frazione soltanto del patrimonio della società scissa, la quale pertanto sopravvive - tale società rimane responsabile per i reati commessi anteriormente alla data in cui l'operazione ha avuto effetto, salva la speciale regola in tema di sanzioni interdittive cui poco più oltre si farà cenno. In linea con la generale previsione dell'art. 2504-decies, secondo comma, del codice civile, il comma 2 dell'articolo 30 dello schema stabilisce, poi, che - nei casi di scissione tanto parziale che totale - gli enti beneficiari sono solidamente obbligati al pagamento delle sanzioni pecuniarie dovute dall'ente scisso per reati anteriormente commessi, nel limite nel valore effettivo del patrimonio netto trasferito a ciascuno di essi: limite che tuttavia non opera rispetto agli enti ai quali risulta devoluto, anche solo in parte, il ramo di attività nel cui ambito è stato commesso il reato. Una regola particolare è dettata in ordine alle sanzioni interdittive, le quali risultano applicabili ai soli enti cui è rimasto (nel caso di scissione parziale) o è stato trasferito (in ogni ipotesi di scissione), anche solo in parte, il ramo di attività che ha dato luogo alla commissione del reato.

Il successivo articolo 31 - dettando disposizioni comuni tanto alla fusione che alla scissione, con riferimento all'eventualità che esse siano intervenute prima della conclusione del giudizio - chiarisce, al comma 1, che nella commisurazione della sanzione pecuniaria il giudice deve far riferimento in ogni caso alle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente originariamente responsabile, e non a quelle (spesso significativamente diversificate) dell'ente cui la sanzione stessa fa carico dopo la fusione o la scissione.

L'ente risultante dalla fusione e l'ente che, in caso di scissione, risulterebbe esposto ad una sanzione interdittiva possono ovviamente evitarne in radice l'applicazione provvedendo alla riparazione delle conseguenze del reato, nei sensi e nei termini indicati in via generale dall'articolo 16. Si è ritenuto tuttavia opportuno prevedere, per le ragioni dianzi evidenziate, che quando l'operatività della citata disposizione risultasse preclusa dal superamento del limite temporale dell'apertura del dibattimento, l'ente interessato abbia comunque facoltà di richiedere al giudice la sostituzione della sanzione interdittiva con una sanzione pecuniaria di ammontare pari da una a due volte quella inflitta all'ente per il medesimo reato. La sostituzione è ammessa alla condizione che, a seguito della fusione o della scissione, si sia realizzata una modifica organizzativa idonea a prevenire la commissione di nuovi reati della stessa specie e che, inoltre, l'ente abbia risarcito il danno o eliminato le conseguenze del reato e messo a disposizione per la confisca il profitto eventualmente conseguito (s'intende, per la parte riferibile all'ente stesso). Resta salva, in ogni caso, la facoltà di chiedere la conversione anche in executivis a norma dell'art. 78.

L'articolo 32 prevede che il giudice possa tener conto delle condanne già inflitte nei confronti degli enti partecipanti alla fusione o dell'ente scisso al fine di ritenere la reiterazione in rapporto agli illeciti dell'ente risultante dalla fusione o beneficiario della scissione, correlati a reati successivamente commessi. La reiterazione, in tal caso, non opera peraltro automaticamente, ma forma oggetto di valutazione discrezionale da parte del giudice, in rapporto alle concrete circostanze. Nei confronti degli enti beneficiari della scissione, essa può essere inoltre ravvisata solo quando si tratti di ente cui è stato trasferito, anche in parte, il ramo di attività nel cui ambito è stato commesso il precedente reato.

L'articolo 33 si occupa delle diverse fattispecie della cessione e del conferimento di azienda. Si intende come anche tali operazioni siano suscettive di prestarsi a manovre elusive della responsabilità: e, pur tuttavia, maggiormente pregnanti risultano, rispetto ad esse, le contrapposte esigenze di tutela dell'affidamento e della sicurezza del traffico giuridico, essendosi al cospetto di ipotesi di successione a titolo particolare che lasciano inalterata l'identità (e la responsabilità) del cedente o del conferente. Adattando, quindi, alle peculiarità della materia la generale previsione dell'articolo 2560 del codice civile, in tema di debiti relativi all'azienda ceduta - anche alla luce della disciplina in vigore per le sanzioni amministrative tributarie (articolo 14 del decreto legislativo n. 472 del 1997) - si stabilisce che nel caso di cessione dell'azienda nella cui attività è stato commesso il reato, il cessionario è solidalmente obbligato, salvo il beneficio della preventiva escussione del cedente e nei limiti del valore dell'azienda ceduta, al pagamento della sanzione pecuniaria correlata al reato stesso: purché, peraltro, il relativo debito emerga dai libri contabili obbligatori, ovvero il cessionario fosse comunque a conoscenza dell'illecito amministrativo dell'ente cedente (non, dunque, del solo reato) dal quale la sanzione stessa scaturisce. Resta esclusa, di contro, in ogni caso, l'estensione al cessionario delle sanzioni interdittive inflitte al cedente. La medesima disciplina vale anche per il caso di conferimento di azienda.

14.2. La mancata attuazione della delega in ordine agli effetti civili conseguenti all'accertamento di responsabilità dell'ente.

Lettere t), u), v) e z) dell'articolo 11 dettano altrettanti criteri di delega in tema di effetti civili conseguenti all'accertamento della responsabilità dell'ente: nella lettera t) si prevede di riconoscere all'associato, al socio o al consorziato il diritto di recedere dall'associazione, dalla società o dal consorzio nell'ipotesi in cui sia stata dichiarata la responsabilità dell'ente per un illecito dipendente da reato, a condizione che il soggetto che intenda recedere non abbia svolto, neppure in via indiretta o di fatto, funzioni di amministrazione o di gestione, né abbia dato causa o prestato adesione alla commissione dell'illecito; nella lettera u) si delega il Governo a prevedere un'agevolazione nel promovimento dell'azione sociale di responsabilità ex articolo 2393 del codice civile per i danni provocati dall'accertamento dell'illecito correlato a fatti di reato, da realizzare attraverso la riduzione della frazione di capitale richiesta per l'adozione della relativa deliberazione assembleare; nelle lettere v) e z) vengono impartite direttive in tema di esercizio dell'azione individuale del socio o del terzo per il risarcimento del danno.

Il Governo è dell'avviso che i suindicati criteri di delega non debbano trovare attuazione per due ragioni.

La prima è di ordine tecnico-giuridico: l'insieme delle disposizioni della delega, in specie quelle sul recesso e l'esercizio dell'azione individuale per il risarcimento del danno, oltre a denotare una preoccupante nebulosità interpretativa (si pensi alla previsione in cui si stabilisce che "il riconoscimento del danno ... non sia vincolato alla dimostrazione della sussistenza di un nesso di causalità diretto tra il fatto che ha determinato l'accertamento della responsabilità ... e il danno subito"), sembrano difficilmente compatibili con i principi del diritto societario, visto che sono essenzialmente protese a rafforzare l'efficacia general-preventiva del sistema sanzionatorio, accordando forme di tutela sinora sconosciute al socio che sia rimasto estraneo all'illecito, a discapito degli interessi dei creditori sociali e, più in generale, agli stessi profili di solvibilità dell'impresa.

Proprio quest'ultimo rilievo si salda con la seconda ragione - di ordine squisitamente politico - posta a fondamento del mancato esercizio della delega in parte qua.

Gli effetti di natura civilistica, prefigurati nella delega, esporrebbero - come si è detto - le imprese a gravi rischi di instabilità, atteso che il recesso dei soci e le azioni di responsabilità potrebbero di fatto comportare lo "smantellamento" dell'ente, con grave e irreparabile giudizio delle ragioni dei creditori. Ma non basta. Un sistema di tal fatta assumerebbe, in concreto, una valenza ulteriormente sanzionatoria nei confronti delle imprese, che non viene prevista in nessuno dei numerosi ordinamenti che hanno introdotto la responsabilità sanzionatoria (amministrativa o penale) delle società, riconosciute e non. Sia nei paesi di common law che in quelli di civil law, non vengono in alcun modo disciplinate forme di tutela civilistica in favore dei soci rimasti estranei all'illecito, proprio per evitare possibili fenomeni di pratica dissoluzione dell'ente. Di conseguenza, la normativa contenuta nella delega, se attuata, snaturerebbe le stesse condizioni della concorrenza economica a danno delle nostre imprese, che si troverebbero sottoposte ad un regime sanzionatorio di eccezionale intensità, sconosciuto negli altri paesi continentali e non. Sembra, quindi, pressoché inevitabile, oltre che opportuno, limitare le conseguenze dell'illecito dipendente da reato alla sola inflizione delle sanzioni pecuniarie e interdittive, già provviste di una non trascurabile forza dissuasiva.

III - PROCEDIMENTO DI ACCERTAMENTO E DI APPLICAZIONE DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE

15. Disposizioni generali sul procedimento

Gli articoli 34 e 35 dettano disposizioni generali sul procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative. Le due norme assumono un rilievo fondamentale, perché stabiliscono, da un lato, che per il procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative si osservano, oltre che le norme del decreto, quelle del codice di procedura penale, in quanto applicabili; dall'altro lato, che all'ente si applicano le disposizioni processuali relative all'imputato, in quanto compatibili.

In coerenza con quanto previsto, molto stringatamente, dalla lettera q) dell'articolo 11 della delega, la scelta del Governo è stata, dunque, quella di privilegiare il procedimento penale come luogo di accertamento e di applicazione delle sanzioni, collocando l'ente nella stessa condizione dell'imputato.

La ragione di questo intervento è duplice e deriva dalla necessità di coniugare le esigenze di effettività e di garanzia dell'intero sistema. Per un verso, infatti, si è preso atto dell'insufficienza dei poteri istruttori riconosciuti alla pubblica amministrazione nel modello procedimentale delineato nella legge n. 689 del 1981 rispetto alle esigenze di accertamento che si pongono all'interno del sistema di responsabilità degli enti. Poiché l'illecito penale è uno dei presupposti della responsabilità, occorre disporre di tutti i necessari strumenti di accertamento di cui è provvisto il procedimento penale, nettamente più incisivi e penetranti rispetto all'arsenale di poteri istruttori contemplato nella legge 689/1981.

Per altro verso, la natura penale-amministrativa degli illeciti dell'ente, documentata dall'applicabilità di penetranti sanzioni interdittive derivate dall'armamentario penalistico e dalla stessa vicinanza con il fatto-reato, rende necessario prefigurare un sistema di garanzie molto più efficace rispetto a quello, per vero scarno, della legge 689. Di conseguenza, si è deciso di equiparare sostanzialmente l'ente all'imputato, così da metterlo nella condizione di poter fruire di tutte le garanzie che spettano a quest'ultimo.

15.1. Competenza, riunione e separazione dei processi. Casi di improcedibilità

Il sistema processuale per l'accertamento degli illeciti amministrativi degli enti esordisce con una disposizione, quella dell'articolo 36, in cui si stabilisce che il giudice penale competente a conoscere gli illeciti dell'ente è quello competente per i reati a cui accede l'illecito amministrativo. Poiché quest'ultimo, come fattispecie complessa, presuppone l'esistenza di un fatto- reato, la scelta operata dal Governo in punto di competenza si staglia alla stregua di un prevedibile corollario.

Ma v'è di più. La norma dell'articolo 38, comma 1, prevede, come regola generale, ispirata ad intuibili ragioni di effettività, di omogeneità e di economia processuale, il simultaneus processus: il processo nei confronti dell'ente dovrà, cioè, rimanere riunito, per quanto possibile, al processo penale che ha ad oggetto il reato presupposto della responsabilità dell'ente. Ovviamente, la regola non può valere in ogni caso: di conseguenza, nel comma 2 della stessa disposizione, vengono individuati i casi in cui occorre procedere alla separazione, senza che questa scissione del procedimento comporti una frattura con i principi generali del sistema che, come è noto, stabilisce la piena autonomia della responsabilità della persona fisica rispetto a quella dell'ente. La disposizione dell'articolo 37 prevede che nei confronti dell'ente non si possa procedere quando l'azione penale risulta improcedibile per la mancanza, originaria o sopravvenuta, di una condizione di procedibilità. La norma non merita particolari commenti, vista la sua coerenza con i principi generali del sistema e delle relazioni che intercorrono fra i due tipi di illecito.

15.2. La rappresentanza dell'ente nel processo.

L'ente non può partecipare al processo se non attraverso una persona fisica che la rappresenti: il problema è quello della natura della partecipazione.

In altre esperienza giuridiche il ruolo del rappresentante viene accostato a quello del testimone, prevedendosi, ad esempio nella legislazione francese, che non possa essere sottoposto ad alcuna misura coercitiva diversa da quelle applicabili al testimone. Tale accostamento presuppone che il rappresentante può essere costretto a comparire in giudizio con la forza pubblica e può essere condannato al pagamento di una multa in caso di mancata comparizione. Si tratta di una soluzione che ha provocato alcuni "imbarazzi" nella giurisprudenza francese che, in un caso, ha ritenuto che il rappresentante legale di una società inquisita non dovesse prestare giuramento come testimone, disponendo che fosse sentito solo come persona informata dei fatti.

Tali esperienze sono sintomatiche di una obiettiva difficoltà a considerare il rappresentante della persona giuridica come testimone, dal momento che la sua posizione è più vicina a quella di un imputato, sebbene sui generis, in quanto ad esso spetta il compito di assicurare le prerogative difensive alla persona giuridica, che è il vero imputato del processo.

In realtà, la parificazione all'imputato viene effettuata con riferimento all'ente in quanto tale, non al rappresentante legale, per il quale è previsto un regime peculiare che non lo esclude dalle garanzie riservate all'imputato, ma in taluni casi lo considera anche un testimone (v. art. 44).

Ed è proprio la peculiarità della relazione che, con riferimento all'ambito processuale, lega il rappresentante all'ente che ha portato a delineare una speciale forma di partecipazione nel processo da parte dell'ente.

L'art. 39 pone il principio base, secondo cui l'ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, prevedendo inoltre una formalizzazione della partecipazione che richiama i modi di partecipazione al processo delle altre parti private, piuttosto che dell'imputato. Infatti, l'ente che intenda partecipare al procedimento deve costituirsi depositando una dichiarazione contenente la denominazione dell'ente, le generalità del rappresentante legale e del difensore, la dichiarazione o l'elezione di domicilio; è inoltre previsto che alla dichiarazione sia allegata la procura conferita nelle forme di cui all'art. 100 c.p.p.

La partecipazione al procedimento è in ogni caso inibita al rappresentante legale che sia imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo. In tale ipotesi, l'ente che voglia partecipare ugualmente al procedimento dovrà nominare un rappresentante per il processo e indicarlo nella dichiarazione di cui all'art. 39 comma 2.

Peraltro, anche il modo in cui l'ente è presente nel processo si differenzia dalla analoga situazione prevista per l'imputato: infatti, qualora il rappresentante legale dell'ente regolarmente costituito non sia presente non si verifica né una ipotesi di contumacia, né di assenza, ma l'art. 39 comma 4 prevede che l'ente sia rappresentato dal difensore. Viene quindi proposta una forma di partecipazione non eccessivamente onerosa per l'ente, che potrà scegliere le modalità e i tempi di partecipazione, senza rinunciare ad alcuna delle garanzie che gli derivano dalla sua parificazione all'imputato. La contumacia si avrà per l'ente solo in mancanza della costituzione (art. 41).

Inoltre, si prevede che all'ente privo di difensore ne venga nominato uno di ufficio e che l'ente che non si costituisce è dichiarato nella fase processuale contumace (artt. 40 e 41).

Per quanto attiene le vicende modificative dell'ente, è chiarito che il processo comunque prosegue nei confronti dell'ente o degli enti risultanti dalle stesse che intervengono nella fase in cui processo si trova (art. 42).

15.3. Notificazioni all'ente.

L'art. 43 disciplina le modalità delle notificazioni all'ente. Si richiamano le regole che l'art. 154 comma 3 c.p.p. prevede per le notifiche alle pubbliche amministrazioni e alle persone giuridiche, rinviando alla disciplina stabilita per il processo civile (artt. 144, 145 c.p.c.). Al fine di evitare disfunzioni nelle notifiche, si è stabilito espressamente che la notifica eseguita mediante consegna al legale rappresentante, anche se imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo, è comunque valida. In caso di dichiarazione o di elezione di domicilio si osservano le disposizioni generali di cui all'art. 161 c.p.p.

Una disciplina particolare si è invece prevista nel caso di "irreperibilità" dell'ente. Non può escludersi, infatti, che la notifica non riesca ad andare a buon fine per la difficoltà di rintracciare il legale rappresentante ovvero per la impossibilità di acquisire informazioni sulla sede della società o dell'ente: in tali casi il comma 4 dell'art. 43 impone all'autorità di disporre nuove ricerche, ma se queste dovessero dare esito negativo non si procederà ad una improbabile dichiarazione di irreperibilità dell'ente, che peraltro potrebbe anche non esistere più, ma il giudice sospenderà il procedimento. In sostanza, per l'ente è ammesso il processo contumaciale, ma nello stesso tempo si esclude che possa essere celebrato un processo senza la prova che l'ente ne abbia avuto una effettiva conoscenza.

16. Incompatibilità con l'ufficio di testimone.

La norma dell'articolo 44 sancisce l'incompatibilità dell'ufficio di testimone delle persone imputate del reato da cui dipende l'illecito dell'ente nonché della persona che rappresenta l'ente nel procedimento penale, e che ne era rappresentante al momento della commissione del reato da cui l'illecito dipende.

L'incompatibilità sancita nel primo caso si fonda su ragioni facilmente intuibili: le persone che hanno commesso il reato potrebbero vantare interessi in conflitto con quelli dell'ente (si pensi ad un amministratore che tende a scaricare la responsabilità sull'ente o viceversa). La seconda ipotesi di incompatibilità discende dalla circostanza che all'ente è riconosciuta la condizione di imputato nel procedimento e, pertanto, la persona fisica che lo rappresentava al momento della commissione del reato che radica la responsabilità amministrativa e continua a rappresentarla nel processo non può essere assunta come teste. In questo secondo caso, peraltro, la posizione del rappresentante è equiparata a quelle dell'imputato in procedimento connesso e pertanto potrà essere sentito ed esaminato negli stessi casi e con i medesimi effetti di questi.

17. Misure cautelari.

L'esigenza di apprestare un sistema di cautele con riferimento all'illecito imputabile alla persona giuridica ubbidisce a un duplice scopo: evitare la dispersione delle garanzie delle obbligazioni civili derivanti dal reato; "paralizzare" o ridurre l'attività dell'ente quando la prosecuzione dell'attività stessa possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato ovvero agevolare la commissione di altri reati.

Si tratta di esigenze che possono essere soddisfatte ricorrendo agli strumenti del sequestro conservativo e preventivo, ma è indubitabile l'opportunità di una regolamentazione autonoma che tenga conto della specificità dell'intervento.

La legge delega sembra far riferimento a meccanismi di applicazione anticipata della sanzione, dal momento che contempla come misure cautelari le stesse sanzioni previste dalla lett. l) dell'art. 11. Tuttavia, anche in considerazione del tenore letterale del criterio di delega, che parla di sanzioni applicabili in sede cautelare (art. 11 lett. o), si è preferito operare la scelta a favore dell'introduzione di un sistema propriamente cautelare, con alcuni correttivi. D'altra parte, l'esigenza di anticipare alcuni effetti della decisione definitiva che riguardano l'ente, attraverso il ricorso alle misure cautelari, è in funzione dell'effettività dell'accertamento giurisdizionale. Anche per l'accertamento della responsabilità dell'ente, le misure cautelari si caratterizzano per la loro strumentalità e provvisorietà, in quanto destinate a "servire" la decisione definitiva; inoltre l'inserimento dell'accertamento dell'illecito amministrativo nel processo penale determina l'estensione del processo di giurisdizionalizzazione delle misure cautelari anche a favore dell'ente.

Sulla scelta delle misure cautelari la delega non ha lasciato alcuno spazio al legislatore delegato ed infatti l'art. 45 dello schema di decreto si limita a richiamare l'art. 9, che menziona i diversi tipi di sanzioni interdittive applicabili, all'esito del procedimento, all'ente. Si è così operata una sostanziale sovrapposizione tra le sanzioni interdittive e le misure cautelari, attuando la direttiva contenuta nella legge-delega. Peraltro, non tutte le sanzioni della lett. l) sembrano prestarsi in modo adeguato a svolgere funzioni di cautela, in particolare la pubblicazione della sentenza (che l'art. 9 non menziona tra le sanzioni interdittive) è apparsa sanzione intrinsecamente inidonea ad essere utilizzata per esigenze cautelari a causa della forte valenza afflittiva e stigmatizzante della condotta posta in essere, per cui si è preferito escluderla dal novero delle misure cautelari. Desta qualche perplessità anche l'inclusione della sanzione del divieto di pubblicizzare beni o servizi, tuttavia non sembra potersi escludere la possibilità di una sua utilizzazioni per finalità cautelari. In ogni caso si rimette al Parlamento ogni eventuale indicazioni al riguardo.

Per l'applicazione delle misure, l'art. 45 richiede la sussistenza di una serie di presupposti, in parte mutuati dalla corrispondente disciplina codicistica. Innanzitutto, si prevede che debbano sussistere "gravi indizi" sulla responsabilità dell'ente per l'illecito amministrativo, replicando in parte la disposizione sulle condizioni generali di applicabilità delle misure di cui all'art. 273 c.p.p. La vasta casistica relativa agli elementi che possono trasformarsi in indizi della responsabilità dell'ente giustificanti l'adozione di una misura cautelare, viene bilanciata dal riferimento alla gravità, che riduce l'ambito applicativo di misure che, naturalmente, non hanno ad oggetto il bene della libertà personale. In ogni caso, per individuare il connotato della gravità potrà farsi ricorso alla giurisprudenza formatasi con il nuovo codice, secondo cui la valenza probatoria dei gravi indizi può essere inferiore a quella necessaria per giustificare il giudizio dibattimentale o l'affermazione della responsabilità, nel senso che deve trattarsi comunque di indizi che devono essere valutati nell'ottica di un giudizio prognostico per verificare - allo stato degli atti - il fumus commissi delicti, cioè una probabilità di colpevolezza alta, qualificata, ragionevole e capace di resistere ad interpretazioni alternative (Cass., sez. un., 21 aprile 1995, Costantino; Cass., 3 marzo 1992, Biacca; Cass., 26 gennaio 1994, Damiani). Il requisito della gravità puntualizza la capacità dimostrativa del dato rispetto al thema probandum, con la conseguenza della inutilizzabilità dell'indizio al quale sia attribuibile un significato diverso da quello di inferenza. Ciò significa che prima deve essere verificata la sussistenza della circostanza probatoria, escludendo che la misura possa fondarsi su un mero sospetto o una congettura, per poi individuare il diretto collegamento con l'oggetto dell'accertamento.

Naturalmente la verifica dei gravi indizi riferiti all'applicabilità delle misure deve considerare la particolare natura e struttura dell'illecito amministrativo in questione, per cui la responsabilità dell'ente è per così dire "derivata" da quella dell'imputato-persona fisica. Pertanto, la gravità degli indizi dovrà riguardare il complesso meccanismo di imputazione della responsabilità all'ente di cui all'art. 5: in sostanza, la valutazione in ordine alla sussistenza dei gravi indizi andrà riferita al reato posto in essere, alla verifica dell' interesse o del vantaggio derivante all'ente e al ruolo dei soggetti indicati nelle lett. a) e b) del citato art. 5.

L'accertamento del fumus relativo alla sussistenza dell'illecito deve essere accompagnato dalla verifica del periculum e, quindi, delle esigenze cautelari che giustificano l'adozione di una misura. L'art. 45 richiama i presupposti per l'applicazione, con la sentenza di condanna, delle sanzioni interdittive (art. 13 comma 1), adattandoli alla fase della cautela. Gli elementi che possono giustificare una prognosi di periculum devono essere fondati e specifici. Il riferimento alla concretezza del pericolo rivela l'esigenza di una probabilità effettiva ed attuale, riscontrata attraverso elementi oggettivi e specifici, circa il verificarsi della commissione di illeciti della stessa indole di quello per cui si procede. Il riferimento è alla pericolosità dell'ente, desunta dalla condotta recidivante. In questo caso le esigenze di cautela devono considerare la "personalità" dell'ente, o meglio la sua politica imprenditoriale: in presenza di reiterazione degli illeciti si giustifica l'adozione di una misura. Presupposto è anche qui un pericolo concreto, inteso non come realizzazione delittuosa in itinere, ma come dato da desumere da fatti e condotte già accaduti o posti in essere.

Per il procedimento applicativo si è replicato il sistema previsto dal codice di rito per le misure cautelari nei confronti della persona fisica, con i necessari adattamenti. E' il giudice che, su richiesta del pubblico ministero, può disporre con ordinanza la misura cautelare. L'ordinanza è quella dell'art. 292 c.p.p., norma che viene richiamata espressamente nell'art. 45 e che trova applicazione anche per quanto riguarda la nullità di cui al comma 2-ter. Inoltre, in considerazione della natura delle misure, si è previsto che debbano esserne indicate anche le modalità applicative, nonché che il giudice possa, in luogo della misura interdittiva, provvedere alla nomina di un commissario giudiziale a norma dell' art. 15 per un periodo pari alla durata della sanzione applicabile in via cautelare.

Se, sotto il profilo dell'individuazione del giudice legittimato alla applicazione della misura cautelare, l'art. 47 non ipotizza sostanziali novità rispetto al sistema codicistico, visto che assegna il compito della deliberazione al giudice che procede, ovvero, in fase di indagini, al giudice delle indagini preliminari, operandosi inoltre un esplicito richiamo all'art. 91 del d. lgs. 28 luglio 1989, n. 271, una consistente innovazione è da riconnettere ad altro aspetto della procedura applicativa della cautela. Si allude a quanto previsto dal comma 2 dell' art. 47 che introduce, in materia, una forma di contraddittorio anticipato sull'applicazione della misura, per certi versi analoga a quella prevista dal vigente art. 289, comma 2, c.p.p. e, di conseguenza, individua i modi attraverso i quali esso è deputato a realizzarsi mediante un richiamo alle disposizioni, adattate, dell'art. 127 c.p.p. Risulta, così, chiarito che l'applicazione della misura cautelare nei confronti delle persone giuridiche avviene sempre in udienza, dovendosi, qui, distinguere esclusivamente tra udienza pubblica ovvero camerale.

Nel sistema delle misure cautelari personali, l'orizzonte conoscitivo del giudice, ai fini della decisione, è definito dalla richiesta del pubblico ministero e le "ragioni" della persona raggiunta dal provvedimento coercitivo trovano ingresso nel procedimento attraverso l'interrogatorio a norma dell'art. 294 c.p.p., funzionale alla verifica sull'esistenza delle condizioni che ne hanno legittimato l'adozione. Ne deriva, pertanto, che la decisione del giudice sulla richiesta del pubblico ministero non costituisce l'esito di un procedimento in contraddittorio; al contrario, le determinazioni delle parti si dispiegano attraverso diverse scansioni temporali: dapprima il pubblico ministero pone il tema cautelare indicando le ragioni che militano per l'accoglimento della domanda, dando conto anche degli elementi favorevoli all'indagato; solo a misura adottata, quest'ultimo potrà far valere le proprie difese nel contesto di un interrogatorio "di garanzia" diretto ad accertare la permanenza dei presupposti che avevano legittimato l'adozione del provvedimento de plano.

Il comma 2 dell'art. 47 dello schema muove, invece, dalla convinzione che proprio la natura e le caratteristiche dell'ente giustificano il ricorso al previo contraddittorio in vista della decisione sulla domanda del pubblico ministero. La dialettica tra le parti costituisce lo strumento più efficace per porre il giudice nella condizione di adottare una misura interdittiva, che può avere conseguenze particolarmente incisive sulla vita della persona giuridica; in questo modo, la richiesta cautelare del pubblico ministero viene a misurarsi con la prospettazione di ipotesi alternative dirette a paralizzare o attenuare l'iniziativa accusatoria, con l'effetto di ampliare l'orbita cognitiva del giudice e di evitare i rischi di una decisione adottata sulla scorta del materiale unilaterale.

Avanzata la richiesta, il giudice è chiamato a decidere secondo i criteri normativamente individuati dall'art. 46: a ben vedere, si tratta di criteri di scelta delle misure non dissimili da quelli che il codice di rito disciplina con riferimento alle cautele personali, con gli opportuni adattamenti. Il primo criterio che viene in considerazione, dunque, è quello di idoneità, dovendo il giudice valutare la specifica funzionalità della misura richiesta a scongiurare i pericula sussistenti nel caso concreto; in secondo luogo, la valutazione del giudice dovrà essere guidata da un criterio di proporzione rispetto al fatto contestato ed alla sanzione per esso applicabile all'ente in via definitiva; infine, si dovrà tener conto dell'adeguatezza della cautela, con riferimento all'interdizione dall'esercizio dell'attività. La gravità di quest'ultima sanzione e la sua attitudine ad incidere sulla stessa vita dell'ente giustifica la sua possibilità di applicazione come extrema ratio, rappresentando, per traslato, il massimo grado di cautela applicabile nella specie, come lo è la custodia cautelare nei confronti dell'imputato persona fisica. Plausibile appare infine la previsione, tenuto conto ancora una volta della "consistenza" delle cautele, che queste non possano essere applicate congiuntamente.

Emessa la misura, si tratterà di curarne gli aspetti esecutivi. Da tal punto di vista la disciplina prevista dall'art. 48 si ispira alle corrispondenti previsioni codicistiche; l'esecuzione del provvedimento è infatti curata dal pubblico ministero, che provvede a notificare all'ente l'ordinanza applicativa della misura.

L'assenza di ogni riferimento al giudice che ha emesso il provvedimento si giustifica sulla scorta della considerazione che tale organo non è chiamato a svolgere, qui, quegli adempimenti "di garanzia" normalmente riconnessi all'applicazione delle cautele personali e, segnatamente, l'interrogatorio del soggetto sottoposto alla misura personale, che appare ipotesi non riproponibile -per evidenti ragioni di compatibilità- nella materia in questione.

Per quanto attiene alla "vita" della misura, vengono in gioco le disposizioni contenute negli artt. 50 e 51. La prima norma prevede i casi di revoca e sostituzione della cautela: come nei casi di applicazione delle misure coercitive personali, anche qui il fenomeno estintivo o attenuativo della misura è espressione degli stessi criteri che governano il momento introduttivo della cautela medesima. Si è ritenuto, peraltro, opportuno distinguere tra la revoca tout court della cautela applicata e la sua mera attenuazione. Nel primo caso, i cui presupposti risiedono nel venir meno, anche per fatti sopravvenuti, delle condizioni di applicabilità della cautela o della possibilità di applicazione delle sanzioni interdittive quando ricorrano i presupposti elencati nell'art. 16, si è riconosciuta al giudice la possibilità di revocare officiosamente il provvedimento, ferma restando, ovviamente, la facoltà delle parti di sollecitarne l'intervento in tal senso, anche mediante allegazione, appunto, di quei "fatti sopravvenuti" che non necessariamente devono essere conosciuti dall'organo giudicante. Si è invece previsto che la meno drastica ipotesi di sostituzione della misura, che appare praticabile laddove vi sia una corrispondente attenuazione delle esigenze cautelari, ovvero ove la misura in atto si riveli sproporzionata rispetto all'entità del fatto o della sanzione che si ritiene possa essere applicata, il giudice debba procedere su richiesta di parte. L'art. 51, invece, disciplina i termini di durata massima delle misure cautelari distinguendo tra due ipotesi: in assenza di un provvedimento di merito che affermi la responsabilità della persona giuridica in primo grado, la durata della misura può estendersi negli stessi limiti temporali della sanzione applicata, salva la previsione di un termine massimo; se la decisione non è ancora intervenuta, la misura non può invece superare la metà del termine indicato nell'art. 13, comma 2. Per quanto riguarda poi il decorso del termine di durata delle misure cautelari, questo è fissato, in sintonia con quanto s'è visto in tema di esecuzione del provvedimento cautelare, con la data di notifica del tale provvedimento.

Infine, il comma 4 dell'art. 51 prevede che si tenga conto della durata delle cautele nel computo della durata delle sanzioni applicate in via definitiva.

Collegato all'argomento in questione, ma in una prospettiva del tutto originale, si colloca l'art. 49 che prevede il caso della sospensione delle misure cautelari secondo cadenze procedimentali così riassumibili: se l'ente chiede di poter realizzare gli adempimenti che, a norma dell'art. 16, implicano l'esclusione della applicazione delle sanzioni interdittive, il giudice che ritenga di accogliere la richiesta dispone la sospensione della misura in atto, determina la cauzione da prestare, e fissa un termine per la realizzazione delle condotte riparatorie; il tutto, previo parere del pubblico ministero. In tal caso, se le condotte riparatorie vengono poste in essere realizzando le condizioni di cui all'art. 16, la misura viene revocata ed il giudice dispone la restituzione della cauzione (se vi è stata iscrizione di ipoteca ne viene disposta la cancellazione e, se si è prestata fideiussione, questa si estingue). Qualora invece le attività non vengano eseguite nel termine fissato, ovvero vengano eseguite in modo incompleto o inefficace, si realizza un ripristino della misura e la cauzione è devoluta alla Cassa delle ammende.

Quanto al regime delle impugnazioni delle misure cautelari, l'art. 52 prevede un unico strumento avverso tutti i provvedimenti cautelari emessi nei confronti di enti. Si tratti o meno di provvedimenti introduttivi della cautela stessa, ovvero che incidono in seconda battuta sopra una cautela già in atto, il mezzo di impugnazione previsto, sia per la parte pubblica che per l'ente, è quello dell'appello con indicazione contestuale dei motivi. Mediante il richiamo all'art. 322-bis commi 1-bis e 2 c.p.p., si chiarisce poi che l'organo deputato a conoscere di tale impugnazione è il tribunale "circondariale" in composizione collegiale e che le regole di svolgimento di quell'incidente sono le medesime, in quanto compatibili, che governano l'appello in materia di misure cautelari reali. Contro le decisioni emesse dal tribunale "circondariale" è poi ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge secondo le modalità e la disciplina di cui all'art. 325 del codice di procedura penale, la cui applicazione è espressamente richiamata dal comma 2 dell'art. 66.

Discorso a se stante meritano, infine, le previsioni di cui agli artt. 53 e 54. Queste introducono due ipotesi di cautele autonome rispetto all'apparato di misure interdittive irrogabile alle persone giuridiche. Per quanto non espressamente previsto dalla legge delega, si è ravvisata la necessità di disciplinare le ipotesi di sequestro preventivo a scopo di confisca e del sequestro conservativo, posto che la loro operatività in ragione del generale rinvio alle regole processuali ordinariamente vigenti -questo espressamente previsto dalla delega- non si sarebbe potuta mettere seriamente in discussione in ragione di una incompatibilità con le sanzioni interdittive irrogabili nei confronti delle persone giuridiche, in realtà non ravvisabile se non in relazione al sequestro preventivo in senso proprio, che pertanto è da ritenersi ipotesi non applicabile nella specie. Da qui la disciplina sopra richiamata che consente il sequestro preventivo in funzione di confisca con conseguente richiamo di parte della disciplina codicistica, nonché l'altra previsione, che appunto rende possibile il sequestro conservativo -anche qui con richiamo della disciplina codicistica in quanto applicabile- dei beni o delle somme dovute o che garantiscano il pagamento della sanzione pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all'erario.

18. Indagini preliminari e udienza preliminare.

Lo svolgimento della procedura di accertamento della responsabilità è, in parte, conseguenza della scelta di equiparare la posizione dell'ente a quella dell'imputato. Pertanto, nella sezione V, si sono disciplinate soprattutto le deroghe rispetto alla disciplina in materia di indagini e di udienza preliminare.

Per quanto riguarda le indagini, l'art. 55 pone a carico del pubblico ministero l'onere di annotare immediatamente nel registro di cui all'art. 335 c.p.p. la notizia dell'illecito amministrativo dipendente da reato, realizzando una disposizione analoga a quella prevista dal codice di rito. Dall'annotazione decorre il termine per l'accertamento dell'illecito amministrativo, che l'art. 56 individua in relazione al termine per lo svolgimento delle indagini del reato da cui l'illecito stesso dipende, comprese le proroghe. In questo modo, l'accertamento dell'illecito amministrativo deriva la sua durata direttamente dal reato che rappresenta il suo presupposto. Nel registro dovrà essere annotato l'illecito amministrativo, la cui struttura complessa comporta anche l'indicazione del reato da cui dipende; inoltre, si farà menzione degli elementi identificativi dell'ente e, se possibile, delle generalità del legale rappresentante.

Il comma 2 dell'art. 55 consente la comunicazione dell'annotazione all'ente che ne faccia richiesta negli stessi limiti in cui è possibile la comunicazione delle iscrizioni della notizia di reato, rinviando, in sostanza, alla disciplina di cui all'art. 335 commi 3 e 3-bis c.p.p. Così, ad esempio, qualora il pubblico ministero, ai sensi dell'art. 335 comma 3-bis c.p.p., abbia disposto il segreto sulle iscrizioni riguardanti il reato, la segretazione spiegherà effetto anche sulla comunicazione dell'annotazione dell'illecito amministrativo.

L'art. 57 contiene una semplice integrazione al contenuto dell'informazione di garanzia che, ai sensi dell'art. 369 c.p.p., deve essere inviata all'ente. Si prevede, infatti, che debba necessariamente contenere l'invito a dichiarare ovvero ad eleggere il domicilio per le notificazioni, con l'avvertimento che l'eventuale partecipazione al procedimento dovrà avvenire attraverso il deposito della dichiarazione di cui all'art. 39 comma 2.

Nello schema nulla si dice sulla possibilità di sottoporre ad interrogatorio l'ente attraverso il proprio rappresentante legale, tuttavia deve ritenersi che tale evenienza sia del tutto plausibile, dal momento che è stata operata una piena parificazione dell'ente all'imputato. Il rappresentante legale sarà sottoposto ad interrogatorio "per conto dell'ente", con tutte le facoltà ed i diritti riconosciuti all'imputato, compresa la facoltà di non rispondere: la parificazione del rappresentante alla figura dell'imputato ha come conseguenza quella della applicabilità delle regole previste dall'art. 63 c.p.p. E' ovvio che quanto più la persona giuridica sarà avvicinata alla figura dell'imputato, tanto maggiori saranno le garanzie di cui potrà godere.

Gli artt. 58-61 disciplinano gli epiloghi delle indagini preliminari, a conclusione delle quali il pubblico ministero deve scegliere se disporre l'archiviazione o richiedere il giudizio dell'ente.

Per l'archiviazione si è previsto un procedimento semplificato senza controllo del giudice, sull'esempio di quanto prevede l'art. 18 comma 2 legge 689/1981. Si tratta, infatti, di un illecito amministrativo, per il quale non sussiste l'esigenza di controllare il corretto esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero. E' sembrata, pertanto, del tutto estranea a questa materia la procedura di archiviazione codicistica. Le esigenze di verifica dell'operato del pubblico ministero in relazione alla contestazione di queste violazioni sono assicurate attraverso un meccanismo meno articolato, che prevede una comunicazione al procuratore generale, il quale può sostituirsi al pubblico ministero e contestare direttamente l'illecito amministrativo.

Per il caso non debba procedersi ad archiviazione, l'art. 59 prevede che il pubblico ministero formalizzi la contestazione dell'illecito amministrativo dipendente da reato all'ente. La contestazione deve contenere, ovviamente, tutti gli elementi idonei ad identificare l'ente, nonché l'enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto che si addebita, con l'indicazione del reato dal quale l'illecito stesso dipende e delle fonti di prova a carico. La contestazione svolge la stessa funzione dell'imputazione rispetto alla persona fisica: addebitare ad un soggetto collettivo un illecito amministrativo a struttura complessa, con lo scopo di definire l'oggetto del processo, delimitando i confini dell'accertamento del giudice, e di mettere in grado l'ente di esercitare il diritto di difesa.

Si è previsto che la contestazione dell'illecito sia sempre formalizzata in uno degli atti indicati dall'art. 405 comma 1 c.p.p. con cui il pubblico ministero esercita l'azione penale, anche nel caso in cui si proceda soltanto nei confronti dell'ente: in quest'ultima ipotesi, peraltro, non vi sarà esercizio dell'azione penale e l'atto conterrà solo la contestazione dell'illecito amministrativo. Pertanto, nei casi in cui sia richiesta l'udienza preliminare l'atto contestativo sarà contenuto nella richiesta di rinvio a giudizio; qualora, invece, si tratti di illecito attratto nella competenza del giudizio monocratico senza udienza preliminare, l'atto di contestazione sarà contenuto nel decreto di citazione diretta a giudizio; per i giudizi speciali la contestazione sarà, anche qui, contenuta nei diversi atti attraverso cui si esercita l'azione penale.

L'art. 60 prevede un termine finale per l'esercizio da parte del pubblico ministero del potere di contestare all'ente l'illecito amministrativo dipendente da reato, decorso il quale non può più procedersi alla contestazione stessa.

La legge delega non ha fornito in merito precise indicazioni, prevedendo solo che le relative sanzioni amministrative si prescrivono decorsi cinque anni dalla commissione del reato presupposto e che l'interruzione della prescrizione è regolata ai sensi del codice civile (lett. r).

Tuttavia, è apparsa opportuna l'introduzione anche di una specifica ipotesi di decadenza.

Invero, anche la legge 24 novembre 1981, n. 689, che, come è noto, enuclea la disciplina generale dell'illecito amministrativo, contempla, accanto alla prescrizione della sanzione (art. 28), regolata in modo del tutto analogo al criterio di delega, l'estinzione dell'obbligazione del pagamento della somma dovuta a titolo di sanzione per la persona nei cui confronti non viene eseguita, nei termini assai brevi ivi previsti, la contestazione della violazione amministrativa (art. 14, ultimo comma).

Una disposizione di tal genere, che avesse fatto dipendere l'improcedibilità dall'omessa contestazione entro un termine rigido (e verosimilmente breve), avrebbe tuttavia frustrato l'esigenza di poter svolgere indagini approfondite volte a verificare l'ipotesi di responsabilità a carico dell'ente.

Inoltre, in tutti i casi di procedimento cumulativo per il reato e per l'illecito dell'ente, la necessità di contestare la responsabilità amministrativa in tempi rapidi - non coincidenti con la durata delle indagini in ordine al reato - poteva determinare l'effetto di imporre al pubblico ministero una forzata discovery anticipata con ricadute anche per la posizione dell'imputato.

Peraltro, l'esigenza di stabilire tempi di contestazione dell'illecito tendenzialmente più ridotti rispetto a quelli di prescrizione della sanzione, evitando che fatti assai risalenti potessero comunque dar luogo al procedimento di accertamento a carico dell'ente, è apparsa meritevole di una apposita previsione normativa.

Tenuto conto della struttura binomica dell'illecito (composto da un fatto reato e dalla possibilità di imputazione del medesimo all'ente), si è ritenuto di individuare proprio nel termine di prescrizione del reato presupposto, quello oltre il quale, in assenza di contestazione, non sembra ragionevole che il procedimento per l'accertamento dell'illecito possa essere proseguito.

In sostanza, una volta che sia estinto per prescrizione il reato da cui l'illecito dipende senza che all'ente quest'ultimo sia stato contestato, viene meno la potestà sanzionatoria amministrativa.

Non vi è, d'altronde, totale sovrapposizione tra questa previsione e la norma che regola la prescrizione dell'illecito amministrativo.

Infatti, la richiesta di applicazione della misura cautelare (che ai sensi dell'art. 22, comma 2, interrompe la prescrizione dell'illecito) non dà luogo a contestazione. Pertanto, in assenza di una disposizione sulla decadenza dalla contestazione, sarebbe possibile evitare la prescrizione dell'illecito con reiterate richieste di applicazione di misure cautelari, formulate prima del maturarsi del nuovo termine quinquennale, senza mai contestare l'illecito all'ente.

Inoltre, la contestazione dell'illecito in tempi non eccessivamente lontani dal fatto è anche funzionale a consentire all'ente il pieno esercizio delle proprie facoltà difensive evitando, nel contempo, rilevanti difficoltà in ordine alla ricostruzione degli elementi che radicano la responsabilità amministrativa.

Dunque, ai sensi dell'art. 60, non è possibile procedere alla contestazione quando il reato da cui dipende l'illecito amministrativo dell'ente è estinto per prescrizione.

L'art. 61 indica i provvedimenti che possono essere assunti nell'udienza preliminare. Innanzitutto, si considera l'ipotesi in cui il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere, replicando, in parte, il contenuto dell'art. 425 c.p.p. Vengono in esame i casi di estinzione o di improcedibilità dell'illecito amministrativo, nonché l'ipotesi base in cui l'illecito amministrativo sia ritenuto insussistente (per l'ambito applicativo di questa formula si rinvia al commento sub art. 66). Inoltre, viene accolto il principio, contenuto nelle disposizioni di cui all'art. 425 c.p.p., secondo cui all'esistenza della prova di "non colpevolezza" viene equiparata la mancanza della prova di "responsabilità", nel senso che se il pubblico ministero non ha adempiuto all'onere di dimostrare l'esistenza di elementi idonei a sostenere in giudizio la responsabilità dell'ente, il giudice, ferma la possibilità di indicare ulteriori indagini o di procedere all'attività di integrazione probatoria, è tenuto a pronunciare la sentenza di non luogo a procedere. Per quanto riguarda i requisiti della sentenza viene operato un integrale rinvio alle disposizioni dell'art. 426 c.p.p. Il decreto che dispone il giudizio, previsto dal comma 2, è emesso nei casi in cui il giudice non pronunci la sentenza di non luogo a procedere. Come per l'art. 429 c.p.p., non viene indicato il parametro in base al quale si procede alla emissione del decreto, ma lo si desume, indirettamente, dai criteri previsti per la sentenza di non luogo a procedere. Conseguentemente, il giudice disporrà il rinvio a giudizio dell'ente quando gli elementi forniti dal pubblico ministero a sostegno della richiesta e le prove eventualmente acquisite nel corso dell'udienza preliminare dimostrino la necessità del dibattimento. Qualora dovesse rimanere un dubbio sulla attendibilità e credibilità degli elementi di accusa, oppure se questi dovessero rivelarsi contraddittori, il giudice potrà respingere la richiesta ed emettere la sentenza di non luogo a procedere. Il decreto deve contenere, a pena di nullità, tutti gli elementi della contestazione dell'illecito amministrativo dipendente da reato (enunciazione del fatto, nonché l'indicazione del reato, degli articoli di legge e delle fonti di prova), e gli elementi identificativi dell'ente.

19. Procedimenti speciali.

Nella sezione VI sono disciplinati i procedimenti speciali. Nel silenzio della delega, che non detta specifici criteri al riguardo, si è ritenuto, anche in ragione della essenziale funzione deflattiva, di mantenere, adattandoli al procedimento di accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato, i riti alternativi disciplinati nel codice di procedura penale.

In particolare, non sono sembrati di ostacolo né la previsione della delega (lett. g) che esclude il pagamento in misura ridotta per le sanzioni pecuniarie, né il particolare istituto, delineato alla lett. n.

Quanto al primo profilo, il preciso criterio di delega che impedisce il pagamento in misura ridotta per le sanzioni pecuniarie, se esclude il ricorso ad istituti modellati sull'oblazione (specie obbligatoria, che comporta la riduzione del pagamento di una somma sulla base della semplice volontà dell'interessato), non sembra potere coinvolgere differenti istituti, di natura prettamente processuale, che collegano ad esigenze deflattive e di rapidità nell'accertamento riduzioni della sanzione da applicarsi.

D'altro canto, il generale criterio (lett. q), in base al quale per il procedimento di accertamento degli illeciti amministrativi dipendenti da reato devono osservarsi, nei limiti della compatibilità, le disposizioni del codice di procedura penale, depone nel senso della possibile estensione dei riti alternativi al dibattimento.

Per quanto poi concerne la disciplina cui fa riferimento la lett. n), in base alla quale l'adozione da parte degli enti di comportamenti idonei ad assicurare un'efficace riparazione o reintegrazione rispetto all'offesa realizzata determina la riduzione delle sanzioni pecuniarie e l'esclusione di quelle interdittive, la stessa si riferisce ad un caso di diminuzione della responsabilità (e della sanzione), avente dunque natura sostanziale.

Gli istituti processuali in oggetto, invece, assolvono ad una diversa funzione e non comportano, come si vedrà, alcuna trasformazione della sanzione da applicare, ma solo una sua riduzione.

In particolare, l'art. 62 disciplina il giudizio abbreviato richiesto dall'ente.

Per la celebrazione del giudizio si osservano regole processuali ordinarie: e dunque le disposizioni contenute nel titolo I del libro sesto del codice di procedura penale (artt. 438 ss. c.p.p.) in quanto applicabili, ovvero, se manca l'udienza preliminare, le regole dettate per il procedimento monocratico dagli articoli 555 comma 2 e 557.

Tuttavia, a differenza del giudizio abbreviato - ammesso, dopo le modifiche processuali apportate dalla legge n. 479 del 1999, anche per i procedimenti relativi a reati puniti con la pena dell'ergastolo - si è qui espressamente previsto (comma 4) che il rito alternativo non è consentito se il giudice debba applicare in via definitiva una sanzione interdittiva. In tale ipotesi, infatti, la trasformazione della sanzione da definitiva a temporanea frustrerebbe l'esigenza a fondamento della previsione della definitiva inibizione di attività di enti che abbiano commesso, in via reiterata, gravissimi illeciti.

Al comma 3 è invece chiarito come debba essere effettuata la diminuente processuale in caso di riconosciuta responsabilità dell'ente per l'illecito dipendente da reato.

Come per la pena irrogata in ordine al reato, la riduzione ai sensi dell'articolo 442 comma 2 del codice di procedura penale sarà operata sulla durata della sanzione interdittiva e sull'ammontare della sanzione pecuniaria.

Il rito alternativo non sarà, come detto, ammissibile, e non si pone dunque un problema di trasformazione della sanzione, laddove sia applicabile, in via definitiva, una sanzione interdittiva.

La sentenza emessa in sede di giudizio abbreviato è, per il resto, in tutto equiparata alla sentenza applicativa delle sanzioni, ad eccezione del regime delle impugnazioni, come chiarito più innanzi.

Più complessa la disciplina dettata per l'applicazione all'ente della sanzione su richiesta (art. 63) istituto modellato, con gli opportuni adattamenti che si andranno ad evidenziare, sulla falsariga del procedimento di cui all'art. 444 c.p.p.

Nel regolare i presupposti di ammissibilità, si sono dovute considerare talune peculiarità. Anzitutto si è ritenuto di consentire la definizione attraverso il rito alternativo in tutti i casi in cui l'illecito dipendente da reato risulti, in concreto, sanzionato solo in via pecuniaria. Trattasi dei casi di che non rivestono maggiore gravità e, d'altro canto, l'applicazione della pena su richiesta è consentita senza limiti nei casi della sola pena della multa o dell'ammenda.

Viceversa, non è sembrato possibile trasporre automaticamente il limite edittale di pena detentiva che consente la definizione del processo nei confronti dell'imputato tramite il patteggiamento (due anni di reclusione) in un analogo limite di sanzione interdittiva prevista per l'illecito di cui risponde l'ente.

Ne sarebbe derivato un sistema macchinoso e poco coerente, specie se si considera che nel processo penale il limite dei due anni di pena detentiva individua una categoria di reati, la cui modesta gravità è manifestata dalla possibilità di concedere per essi la sospensione condizionale della pena inflitta.

Si è, invece, percorsa una strada diversa.

Infatti, al di fuori dei casi di illecito amministrativo per il quale è prevista la sola sanzione pecuniaria, la richiesta di applicazione è comunque ammessa se il procedimento penale avente ad oggetto il reato presupposto dell'illecito è definito o definibile attraverso il patteggiamento.

Dunque tanto nell'ipotesi in cui, in concreto, il giudizio nei confronti dell'imputato è stato definito a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale; quanto nell'ipotesi in cui - pur non addivenendosi, per le più varie ragioni, ivi compresa la celebrazione del giudizio solo a carico dell'ente, al patteggiamento - per il reato da cui dipende l'illecito amministrativo il giudice (sulla base degli elementi allegati dall'ente stesso) ritenga che non via sarebbero ragioni per rigettare la richiesta ex art. 444 c.p.p..

In tal modo, da un lato si àncora l'ammissibilità al rito alternativo ad un dato oggettivo (la ridotta gravità del reato presupposto, che si riflette in una concreta minore gravità dell'illecito dallo stesso dipendente) derivante dalla disciplina positiva, dall'altro lato, si incentiva la definizione cumulativa (del reato e dell'illecito amministrativo) attraverso la contestuale applicazione concordata della pena e della sanzione amministrativa.

Per il resto, si osservano le disposizioni del codice di procedura penale, in quanto applicabili. In particolare, restano immutati i termini per la presentazione della richiesta (diversi se è celebrata l'udienza preliminare ovvero questa manca), nonché i poteri del giudice in ordine alla richiesta concordata. Dunque, se dagli atti risulta che non sussiste l'illecito contestato all'ente, il giudice dovrà pronuncerà la relativa sentenza. Peraltro, il giudice laddove ritenga applicabile la sanzione interdittiva in via definitiva dovrà rigettare la richiesta, che può avere dunque ad oggetto, oltre a sanzioni pecuniarie, solo sanzioni interdittive temporanee.

Allo scopo di evitare possibili dubbi interpretativi, è sembrato opportuno chiarire che in caso di applicazione della sanzione, la diminuente processuale di cui all'articolo 444 comma 1 del codice di procedura penale dovrà operare sulla durata della sanzione interdittiva e sull'ammontare della sanzione pecuniaria, concretamente irrogate.

Un importante profilo premiale del rito (che omologa il nuovo istituto al patteggiamento disciplinato nel codice processuale penale) è la non iscrizione della sentenza nel certificato rilasciato dall'anagrafe nazionale delle sanzioni amministrative su richiesta dell'ente (v. art. 81 comma 4).

All'art. 64 è dettata la disciplina del decreto applicativo della sanzione pecuniaria.

Il pubblico ministero, se ritiene che per l'illecito dipendente da reato di cui debba rispondere l'ente sia, in concreto, applicabile la sola sanzione pecuniaria (trattandosi, dunque, di un fatto di non eccessiva gravità) può presentare al giudice per le indagini preliminari, richiesta motivata di emissione del decreto di applicazione della sanzione pecuniaria, indicandone la misura.

La richiesta deve essere presentata nel termine (da ritenersi comunque ordinatorio, atteso l'orientamento della Cassazione in ordine all'omologa disciplina dettata per il decreto penale di condanna) di sei mesi dalla data dell'annotazione dell'illecito amministrativo nel registro di cui all'art. 55 e accompagnata dalla trasmissione del fascicolo.

Nella richiesta, il pubblico ministero può chiedere l'applicazione di una sanzione pecuniaria diminuita sino alla metà rispetto al minimo dell'importo applicabile nel caso concreto, e dunque tenuto conto dei casi di diminuzione della responsabilità dell'ente.

Di fronte alla richiesta di decreto, il giudice per le indagini preliminari mantiene gli stessi poteri previsti nel procedimento per decreto penale di condanna.

Può quindi accogliere la richiesta, emettendo decreto motivato applicativo della sanzione pecuniaria nella misura richiesta dal pubblico ministero.

Se, invece, dagli atti risulta che non sussiste l'illecito contestato all'ente, pronuncerà la relativa sentenza camerale. Altrimenti (ad esempio ritenendo la sanzione pecuniaria richiesta non congrua, per eccesso o per difetto, o l'illecito non sanzionabile solo in via pecuniaria, o, infine, necessari ulteriori accertamenti) restituirà gli atti al pubblico ministero per l'ulteriore corso del procedimento.

Così come per la sentenza applicativa della sanzione su richiesta, anche per il decreto in oggetto è prevista (art. 82, comma 4) la non iscrizione nel certificato dell'anagrafe nazionale delle sanzioni richiesto dall'ente.

Per il resto (e dunque anche per il giudizio di opposizione) si osserva, in quanto compatibile, l'ordinaria disciplina processuale dettata per il decreto penale di condanna (in particolare, le disposizioni del titolo V del libro sesto c.p.p., ovvero dell'articolo 557 del codice di procedura penale se il procedimento per l'accertamento dell'illecito dipendente da reato segue le cadenze del procedimento monocratico).

Per quanto riguarda il giudizio immediato e il giudizio direttissimo non sono state dettate regole particolari.

In caso di processo simultaneo, qualora sussistano (nei confronti dell'autore del reato e dell'ente) i presupposti per l'accesso a tali giudizi e non debba disporsi la separazione dei procedimenti, anche la posizione dell'ente in ordine all'illecito dipendente da reato verrà valutata secondo i relativi moduli processuali.

Nell'ipotesi, invece, di accertamento della sola responsabilità dell'ente, certamente praticabile sarà il giudizio immediato, fondato sull'evidenza probatoria che rende inutile l'udienza preliminare. Per quanto concerne il giudizio direttissimo lo stesso sarà applicabile nell'ipotesi in cui l'ente - a mezzo del proprio rappresentante - abbia confessato la commissione dell'illecito dipendente da reato, mentre, ovviamente, non potrà farsi riferimento ai casi di direttissimo conseguente ad arresto.

20. Giudizio.

Nella sezione VII sono contenute le regole peculiari dettate per il giudizio, per il resto trovando applicazione, nei limiti della compatibilità, le disposizioni del codice di procedura penale.

Nell'art. 65 è dettata la disciplina relativa alla concessione, da parte del giudice, di un termine funzionale a consentire all'ente di apprestare le condotte riparatorie delle conseguenze del reato.

In particolare, il giudice, su richiesta dell'ente il quale dichiari di voler provvedere alle attività di cui all'art. 16, può disporre la sospensione del processo.

Presupposto per l'ammissibilità della richiesta è che la stessa venga formulata prima dell'apertura del dibattimento di primo grado.

Tale termine costituisce la cesura tra il momento processuale deputato alla risoluzione delle questioni preliminari e l'inizio dell'istruzione dibattimentale e da un lato evita lo svolgimento di attività probatorie che potrebbero esser rese inutili dalla riparazione, dall'altro consente all'ente un adeguato spatium temporis per la richiesta, specie ove si pervenga alla fase processuale in assenza di udienza preliminare.

Inoltre, l'ente deve dimostrare di essere stato nell'impossibilità di effettuare le condotte riparatorie in un momento precedente.

Deve trattarsi di vera impossibilità, e non anche di difficoltà in qualche modo superabili. Si vuole, cioè, che l'ulteriore termine di grazia con connessa sospensione del processo, sia accordato non all'ente che abbia fatto spirare il termine ordinario per scelta o per negligenza, ma solo se, per ragioni obiettive, non sia stato possibile realizzare le condotte riparatorie tempestivamente.

Il giudice, se ritiene di poter accogliere la richiesta, determina una somma di denaro a titolo di cauzione. In ordine alla somma determinata quale cauzione si osserva la stessa disciplina dettata per la cauzione imposta in sede cautelare (art. 49).

E, dunque, il primo effetto della decisione positiva del giudice sarà la sospensione della misura cautelare interdittiva eventualmente applicata all'ente.

Inoltre, la somma, da depositare presso la Cassa delle ammende, non potrà comunque essere inferiore alla metà della sanzione pecuniaria prevista per l'illecito per cui si procede.

Anche in tal caso, allo scopo di evitare all'ente immobilizzi di somme cospicue, è consentita, al posto del deposito, la prestazione di una garanzia mediante ipoteca o fideiussione solidale. Laddove si verifichi una mancata, incompleta o inefficace esecuzione delle attività riparatoria nel termine fissato, il processo riprenderà.

Inoltre, al fine di garantire la serietà della richiesta ed evitare strumentali sospensioni del processo e dilazioni dei tempi della decisione, la misura cautelare verrà ripristinata, con devoluzione alla Cassa delle ammende della somma depositata o per la quale è stata data garanzia. Al contrario, il giudice, verificata la realizzazione delle condotte riparatorie, ordinerà la restituzione della somma depositata o la cancellazione dell'ipoteca e la fideiussione prestata si estingue.

La disciplina contenuta negli da 66 a 70 è relativa alle pronunce terminative del giudizio nei confronti dell'ente in ordine all'illecito amministrativo dipendente da reato.

Rispetto all'articolazione delle formule assolutorie del processo penale, nel procedimento nei confronti dell'ente vi è spazio per una sola tipologia di sentenza, con la quale il giudice esclude la sussistenza della responsabilità (art. 66). Tale causa decidendi, infatti, ricomprende tutte le ipotesi di esclusione della responsabilità amministrativa, che incidono sia sull'elemento reato, sia sui profili relativi all'imputabilità dell'illecito all'ente. Naturalmente, il giudice deve pronunciare la sentenza di esclusione della responsabilità dell'ente, oltre che nei casi in cui emerga la prova positiva dell'insussistenza dell'illecito, anche quando, a contrario, manchi, o sia insufficiente o contraddittoria la prova della responsabilità dell'ente.

La regola di giudizio - analoga a quella contenuta nel secondo comma dell'art. 530 c.p.p.- è d'altronde codificata anche in sede di giudizio di opposizione all'ordinanza ingiunzione per gli illeciti amministrativi: l'art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, prevede infatti che l'opposizione è accolta quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell'opponente.

Nell'art. 67 sono invece disciplinate le ipotesi in cui ostacoli processuali non consentono al giudice di pronunciarsi sulla responsabilità dell'ente.

Trattasi, da un lato, del caso in cui la contestazione sia formulata quando il reato presupposto era già estinto per prescrizione, ovvero non può procedersi all'accertamento dell'illecito amministrativo in quanto l'azione penale relativa all'autore del reato presupposto non può essere iniziata o proseguita per mancanza di una condizione di procedibilità (il riferimento è all'autorizzazione a procedere per i reato commessi all'estero: art. 4); dall'altro, dell'ipotesi di intervenuta prescrizione della sanzione amministrativa. Se ricorrono queste condizioni il giudice pronuncerà sentenza di non doversi procedere.

Tenuto conto dei principi generali in ordine alla prevalenza delle pronunce assolutorie nel merito, laddove, pur sussistendo i presupposti per una declaratoria di non doversi procedere, il giudice rilevi dagli atti l'insussistenza dell'illecito amministrativo dovrà pronunciare sentenza di esclusione della responsabilità, più favorevole per l'ente.

In tutte le ipotesi di esclusione della responsabilità e di non doversi procedere il giudice nella sentenza dichiara (art. 68) la cessazione delle misure cautelari eventualmente disposte nei confronti dell'ente. Se, invece, all'esito del giudizio, questi risulta responsabile dell'illecito amministrativo contestato, il giudice pronuncerà sentenza di condanna, con la quale applica le sanzioni previste dalla legge, condannando altresì l'ente al pagamento delle spese processuali (art. 69).

Allo scopo di individuare con precisione l'oggetto delle sanzioni interdittive e di evitare questioni in sede esecutiva, al comma 2 si è stabilito che il giudice deve sempre indicare l'attività o le strutture oggetto delle medesime sanzioni. Naturalmente, nel decidere quali sanzioni applicare, nonché l'ammontare delle sanzioni pecuniarie e il numero e la durata di quelle interdittive, il giudice terrà conto dei diversi criteri contenuti nella disciplina sostanziale.

L'art. 70 disciplina l'efficacia della sentenza in caso di eventi modificativi dell'ente (trasformazione, fusione o scissione) intervenuti nel corso del processo.

Vengono distinte due ipotesi. Se gli enti interessati da tali vicende hanno partecipato al processo, o comunque il giudice ha notizia di tali eventi, la sentenza verrà pronunciata nei confronti dell'ente risultante dalla trasformazione o fusione ovvero beneficiario della scissione dell'ente originariamente responsabile, indicando quest'ultimo. In tal caso vi è dunque perfetta simmetria tra parti del processo e soggetti nei cui confronti la pronuncia è emessa.

Qualora, invece, gli enti risultanti dalla trasformazione, dalla fusione, ecc., non hanno partecipato al processo, né si è avuta conoscenza delle vicende modificative dell'ente, e dunque la sentenza venga dal giudice pronunciata nei confronti dell'ente originario, questa nondimeno avrà efficacia anche nei loro confronti. Questa disposizione (che in qualche si ispira al principio generale contenuto nell'art. 2907 del codice civile) è volta ad evitare che attraverso il meccanismo della mancata partecipazione al giudizio da parte di enti, la cui esistenza verosimilmente sarà perlopiù ignota al giudice e allo stesso pubblico ministero, possa essere facilmente eluso il giudicato.

D'altra parte, attesa la sostanziale continuità del soggetto risultante dalle predette vicende modificative, non può dirsi che l'ambito soggettivo degli effetti della sentenza configuri un fenomeno di res inter alios acta. In ogni caso, la possibilità per gli enti che non siano intervenuti (che comunque secondo la disciplina civilistica succedono nelle obbligazioni dell'ente originario, ivi comprese quelle derivanti da illecito amministrativo dipendente da reato) di ottenere la conversione della sanzione interdittiva in sede esecutiva (art. 78) sembra cautela sufficiente ad evitare ingiuste penalizzazioni.

21. Impugnazioni.

La disciplina delle impugnazioni delle sentenze relative alla responsabilità amministrativa dell'ente, contenuta nella presente sezione, ha tenuto conto di due distinti profili.

Da un lato, l'esigenza di evitare, fin dove possibile, l'insorgere di un possibile contrasto di giudicati tra l'accertamento penale e quello relativo all'illecito amministrativo dipendente dal medesimo reato, modulando la possibilità di impugnare dell'ente in modo simmetrico rispetto a quella riconosciuta all'imputato.

Dall'altro lato, la necessità di garantire all'ente - a prescindere dalle facoltà che l'ordinamento riconosce all'imputato del reato presupposto dell'illecito amministrativo - la più ampia possibilità di impugnare pronunce applicative delle sanzioni interdittive.

Sulla base di questi parametri, l'impugnazione dell'ente (art. 71) è stata così strutturata.

Anzitutto, nei confronti della sentenza che applica sanzioni amministrative diverse da quelle interdittive, l'ente può proporre impugnazione nei casi e nei modi stabiliti per l'imputato del reato dal quale dipende l'illecito amministrativo. La previsione copre tanto il caso di procedimento cumulativo, per il reato e per l'illecito dell'ente, ed allora nell'impugnazione potrà essere devoluto l'intero oggetto del giudizio, quanto l'ipotesi di trattazione della sola responsabilità dell'ente (derivante da separazione, o in caso di procedimento ab origine relativo al solo illecito amministrativo).

Inoltre, nei confronti della sentenza che applica una o più sanzioni interdittive, l'ente può comunque proporre appello. E ciò anche se il gravame non è consentito per l'imputato del reato dal quale dipende l'illecito amministrativo. Si potrebbe obiettare che la disciplina determini, in relazione allo stesso fatto di reato, una asimmetria nelle facoltà di impugnare, a vantaggio dell'ente che in fin dei conti risponde di un illecito amministrativo. Tuttavia, nel caso in cui l'imputato possa proporre solo ricorso per cassazione e l'ente, invece, possa appellare la sentenza, troverà applicazione il disposto dell'art. 580 c.p.p. Dunque, il ricorso dell'imputato si convertirà, ex lege, in appello: in tal modo, sia pure di riflesso, risultano amplificate anche le possibilità di impugnazione riconosciute all'imputato.

Meno complessa la disciplina relativa alle impugnazioni da parte del pubblico ministero

Contro la sentenza che riguarda l'illecito amministrativo, l'organo dell'accusa può proporre le stesse impugnazioni consentite per il reato da cui l'illecito amministrativo contestato all'ente dipende. Sempre allo scopo di evitare il più possibile il contrasto di giudicati eterogeneo, ossia tra la pronuncia relativa al reato presupposto e quella che attiene all'illecito dell'ente, è stata dettata una apposita disposizione che attiene all'estensione degli effetti delle impugnazioni presentate dai diversi soggetti (art. 72).Precisamente, le impugnazioni proposte dall'imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo e quelle proposte dall'ente giovano, rispettivamente, all'ente e all'imputato. Il limite all'effetto estensivo dell'impugnazione è, naturalmente, rappresentato dalla circostanza che le stesse non devono essere fondate su motivi esclusivamente personali. Il che vuol dire - tenuto conto della struttura complessa dell'illecito dell'ente - che le doglianze dell'imputato, che non attengono alla sussistenza del fatto illecito o ai profili dello stesso che valgono ad escludere la responsabilità dell'ente, ovvero relative all'estinzione del reato per cause diverse dall'amnistia o dalla remissione della querela, non possono riverberarsi a vantaggio dell'ente. Ugualmente, rimarranno confinate nella sfera della rilevanza solo penale le impugnazioni relative all'entità e alla specie della pena inflitta, alle circostanze del reato, alla concessione dei benefici di legge, etc.

Per converso, l'impugnazione dell'ente, nella quale non si contestino i profili relativi al reato, ma ci si dolga dell'imputazione del fatto di reato all'ente o si invochi l'intervenuta prescrizione della sanzione, ovvero si chieda un mutamento della sanzione applicata, non produrrà effetti nei confronti della statuizione relativa all'imputato.

Nonostante la disciplina introdotta, è pur sempre possibile che si verifichi un contrasto di giudicati in relazione all'accertamento della responsabilità penale della persona fisica e della responsabilità amministrativa dell'ente. Per tale ipotesi, l'art. 73 prevede, espressamente, la possibilità di revisione delle sentenze pronunciate nei confronti dell'ente. Quanto ai presupposti e al procedimento, è stata richiamata la relativa disciplina processuale penale, nei limiti di compatibilità.

Onde evitare possibili dubbi interpretativi, si è chiarito, infine, che al procedimento di accertamento della responsabilità amministrativa dell'ente non sono applicabili le disposizioni del codice di procedura che regolano la riparazione dell'errore giudiziario (che presuppongono la natura penale della condanna e, perlopiù, l'espiazione senza giusto titolo di una pena detentiva o di una misura di sicurezza).

22. L'esecuzione.

La disciplina dell'esecuzione assume, nel procedimento per l'accertamento della responsabilità degli enti per illeciti dipendenti da reato, un ruolo particolarmente significativo.

Nel dettare le regole per la fase esecutiva sono state prese in considerazioni due diverse esigenze: assicurare la rapidità ed efficacia dell'esecuzione delle sanzioni; apprestare, in conformità al criterio di delega, una concreta tutela giurisdizionale anche in executivis.

Inoltre, considerati i tempi anche lunghi che possono intercorrere tra la sentenza applicativa delle sanzioni e l'effettiva esecuzione della stesse, è proprio in questa fase che dovrà essere verificata la attualità della concreta applicazione del dictum del giudice, in riferimento agli eventi che si siano medio tempore verificati.

Da un lato, possono infatti venire in rilievo vicende oggettive, dovute a modificazioni subite dall'ente o al venir meno dell'oggetto della sanzione interdittiva, che ne renda impossibile l'applicazione.

Dall'altro lato, come si vedrà, l'intento di incentivare nella misura più ampia possibile il compimento da parte dell'ente dell'attività riparatoria ha suggerito di apprestare un particolare meccanismo per la conversione della sanzione interdittiva anche nella fase esecutiva.

22.1 Giudice e procedimento di esecuzione

L'art. 74 detta le regole relative all'individuazione del giudice dell'esecuzione e al relativo procedimento, mutuando la disciplina dell'esecuzione penale. Pertanto, competente a conoscere dell'esecuzione delle sanzioni amministrative dipendenti da reato è il giudice indicato nell'articolo 665 del codice di procedura penale. Il richiamo alla norma codicistica consente di concentrare nello stesso giudice l'esecuzione delle pene e delle sanzioni per illeciti dipendenti da reato irrogate contestualmente. Al fine di evitare possibili incertezze interpretative, si è stabilito espressamente che il giudice dell'esecuzione è anche competente per i provvedimenti relativi alla cessazione dell'esecuzione delle sanzioni nei casi previsti dall'art. 3, ossia in caso di abrogatio dell'illecito amministrativo o del reato presupposto, nonché per l'estinzione del reato presupposto per remissione della querela o per amnistia, che siano intervenute dopo l'irrevocabilità della sentenza nei confronti dell'ente; per la determinazione della sanzione amministrativa applicabile nell'ipotesi di cumulo delle sanzioni, nonché per la confisca e la restituzione delle cose sequestrate. Naturalmente, in virtù del rinvio generale alle disposizioni codicistiche, il giudice dell'esecuzione sarà anche competente in ordine ai provvedimenti in tema di pluralità di sentenze (art. 669 c.p.p.) e sul titolo esecutivo (art. 670 c.p.p.).

Per quanto concerne il procedimento di esecuzione, sono state richiamate le disposizioni di cui all'articolo 666 del codice di procedura penale, che disciplina la procedura ordinaria in camera di consiglio previo contraddittorio. Il limite della compatibilità esclude ovviamente le norme che hanno riguardo allo status detentionis del condannato. La procedura camerale dovrà applicarsi anche alle decisioni in ordine all'intervenuta abrogatio e al cumulo delle sanzioni in executivis (così come per gli omologhi provvedimenti in sede penale).

Invece - anche qui in modo speculare rispetto all'esecuzione penale - per la cessazione dell'esecuzione delle sanzioni per intervenuta estinzione del reato a causa di amnistia e remissione della querela e per la confisca e restituzione, si osserverà la procedura semplificata di cui all'art. 667 comma 4 del codice di procedura penale (ordinanza emessa de plano, con successivo, eventuale contraddittorio innanzi al medesimo giudice). L'indicata procedura semplificata è applicabile anche ai casi in cui, essendo in corso di esecuzione la sanzione della interdizione dall'attività, l'ente richieda al giudice l'autorizzazione al compimento di atti di gestione ordinaria che non comportino la prosecuzione dell'attività interdetta (si pensi, a titolo di esempio, a merce deperibile che sia stata in precedenza alienata e debba essere consegnata all'acquirente, ovvero ad attività di conservazione degli impianti).

22.2. L'esecuzione delle sanzioni.

L'esecuzione delle sanzioni applicate all'ente per l'illecito dipendente da reato è stata delineata in modo simile all'esecuzione delle pene pecuniarie e delle pene accessorie, ossia attraverso l'intervento del pubblico ministero e del giudice.

L'art. 75 è detta la disciplina dell'esecuzione delle sanzioni pecuniarie.

Il procedimento è scandito dalle stesse regole stabilite per l'esecuzione delle pene pecuniarie, e dunque attraverso il sistema della riscossione a mezzo dei ruoli esattoriali. Peraltro, al fine di apprestare un meccanismo più duttile che coinvolga in questa fase l'amministrazione finanziaria, si è stabilito che il pagamento rateale, la dilazione del pagamento e la sospensione della riscossione delle sanzioni amministrative pecuniarie sono disciplinate dalle disposizioni di cui agli articoli 19 e 19-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, come modificato dall'articolo 7 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46.

Anche l'esecuzione della sanzione della pubblicazione della sentenza che riconosce la responsabilità dell'ente è regolata dalle stesse norme previste per l'esecuzione dell'omologa pena accessoria (art. 76). Infatti, la pubblicazione è eseguita a spese dell'ente nei cui confronti è stata applicata la sanzione e si osservano le disposizioni dell'art. 694 commi 2, 3 e 4, c.p.p.

Diverso, invece, il procedimento per l'esecuzione delle sanzioni interdittive (art. 77).

La competenza ad eseguire tali sanzioni, che incidono in misura più rilevante sull'ente, è affidata al pubblico ministero. L'organo dell'esecuzione, acquisito l'estratto della sentenza irrevocabile che ha disposto l'applicazione di una sanzione interdittiva, provvede a notificarla all'ente. Naturalmente, per tale notificazione si osserveranno le disposizioni, di carattere generale, dettate dall'art. 43.

La notificazione dell'estratto, nel quale sono indicate le sanzioni interdittive applicate e il loro specifico oggetto (v. l'art. 69), è sufficiente per dare esecuzione alle sanzioni interdittive.

Infatti, da un lato, il rappresentante dell'ente, venuto a conoscenza dell'interdizione, sarà passibile, in caso di violazione del divieto contenuto in sentenza, della sanzione penale prevista dall'art 23.

Dall'altro lato, l'iscrizione della sanzione nell'anagrafe nazionale consentirà alle pubbliche amministrazioni ed enti incaricati di pubblico servizio, che debbano avere rapporti con l'ente, di accertarsi dell'eventuale interdizione.

La norma precisa infine il termine iniziale di decorrenza delle sanzioni interdittive (rilevante anche ai fini della sussistenza del reato di violazione delle sanzioni interdittive). Più precisamente, si ha riguardo alla data della notificazione dell'estratto della sentenza.

22.3. La conversione in sede esecutiva delle sanzioni interdittive e la nomina del commissario giudiziale.

Come si è già accennato, una delle caratteristiche del procedimento per l'esecuzione delle sanzioni applicate all'ente è la possibilità di convertire anche in questa fase la sanzione interdittiva applicata nel giudizio di cognizione. Peraltro, a differenza dell'ordinaria conversione, quella disposta in executivis determina un aumento della sanzione pecuniaria. Ciò dipende dall'ovvia necessità di non incentivare condotte strumentali dell'ente, che potrebbe altrimenti monetizzare a costo zero la sanzione maggiormente afflittiva.

L'art. 78 disciplina la conversione delle sanzioni interdittive dopo il passaggio in giudicato della sentenza che ne dispone l'applicazione.

Presupposto della conversione, di competenza del giudice dell'esecuzione, è che l'ente, che abbia posto in essere le condotte riparatorie di cui all'art. 16, tardivamente (ossia oltre il termine della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado), ma tuttavia entro venti giorni dalla notifica dell'estratto della sentenza, faccia richiesta di conversione della sanzione amministrativa interdittiva temporanea in sanzione pecuniaria. Con la richiesta deve essere presentata la documentazione che comprovi l'avvenuta esecuzione degli adempimenti richiesti dall'art. 16, nel termine indicato. Peraltro, attesa la rilevanza del rigetto della richiesta, si è previsto che sulla stessa debba necessariamente esplicarsi il contraddittorio delle parti: entro dieci giorni dalla presentazione della richiesta, il giudice deve quindi fissare l'udienza in camera di consiglio, dandone avviso alle parti e ai difensori. Inoltre, per evitare pregiudizi all'ente, si è previsto che il giudice, qualora la richiesta non appaia manifestamente infondata, possa sospendere l'esecuzione della sanzione. Il riferimento alla non manifesta infondatezza della richiesta evidenzia che il giudice deve disporre la sospensione se emerge anche un semplice fumus di accoglimento della richiesta. La sospensione è disposta con decreto motivato, non impugnabile, ma revocabile nel successivo corso del procedimento.

Se il giudice ritiene che la richiesta di conversione vada accolta, dispone, con ordinanza (naturalmente motivata, ai sensi dell'art. 125 c.p.p.), la conversione delle sanzioni interdittive. La norma precisa che l'importo della sanzione pecuniaria da determinare in seguito della conversione, deve consistere in una somma non inferiore a quella della sanzione pecuniaria inflitta con la sentenza (che, come è noto, deve sempre essere irrogata in caso di riconosciuta responsabilità dell'ente) e non superiore al doppio della stessa. In tal modo, l'adempimento tardivo degli obblighi di riparazione comporterà un rilevante aggravamento della somma complessiva da pagare (tenuto conto dell'originaria sanzione pecuniaria che si aggiunge a quella risultante dalla conversione). Peraltro, il giudice nel determinare l'importo della somma dovuta per la conversione, terrà conto, da un lato della gravità dell'illecito ritenuto in sentenza, dall'altro delle ragioni che hanno determinato il tardivo adempimento delle condizioni di cui all'art. 16. In tal modo, sarà possibile adeguare l'aggravamento sanzionatorio alla condotta dell'ente, dovendosi distinguere i casi di obiettiva difficoltà del tempestivo adempimento, da quelli che evidenzino la volontà dell'ente di ritardare il più possibile il momento della doverosa riparazione.

Infine, l'art. 79 disciplina la procedura per la nomina del commissario giudiziale, disposta con la sentenza applicativa della sanzione interdittiva, che, nel contempo abbia consentito la prosecuzione dell'attività dell'ente ai sensi dell'art. 15. La nomina del commissario giudiziale è di competenza del giudice dell'esecuzione, il quale vi provvede senza formalità e su richiesta del pubblico ministero.

L'attività del commissario è finalizzata, da un lato, alla realizzazione dei modelli organizzativi, dall'altro lato, a consentire la confisca del profitto derivante dall'illecito.

Concluso l'incarico, pertanto, il commissario dovrà trasmettere un'apposita relazione, nella quale darà conto dell'attività svolta, indicando in particolare le modalità attraverso le quali sono stati attuati i modelli organizzativi e l'entità del profitto da sottoporre a confisca.

Sulla confisca il giudice provvede de plano, con eventuale contraddittorio successivo, ai sensi dell'articolo 667 comma 4 del codice di procedura penale.

La norma precisa, infine, che le spese relative all'attività svolta dal commissario e al suo compenso sono poste a carico dell'ente.

22.4. L'anagrafe delle sanzioni amministrative.

Negli artt. da 80 a 82 è contenuta la disciplina relativa all'anagrafe nazionale delle sanzioni amministrative.

La legge delega ha previsto, nella lett. s) dell'art. 11, l'istituzione, senza nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato, di un'anagrafe nazionale delle sanzioni amministrative irrogate nei confronti degli enti.

La funzione dell'anagrafe, così come delineata nel presente schema di decreto, è quella di assicurare, a determinate condizioni, un sistema di conoscibilità delle sentenze irrevocabili a carico degli enti. In tal modo, da un lato sarà possibile per l'autorità giudiziaria e per le pubbliche amministrazioni avere un quadro completo dei precedenti amministrativi dipendenti da reato; dall'altro lato, si consentirà agli interessati di poter ottenere dall'ente medesimo l'attestazione della sua posizione in riferimento al sistema di accertamento di detti illeciti.

Preliminarmente, è stato necessario individuare dove collocare l'anagrafe, destinata a fungere da "raccoglitore" di tutte le sanzioni applicate ai sensi del presente decreto. La scelta è caduta sul casellario giudiziale centrale (che, come è noto, è insediato presso il Ministero della giustizia) per un duplice ordine di motivi.

Anzitutto, dal momento che il procedimento di accertamento della responsabilità dell'ente è di competenza del giudice penale ed è regolato, sia pur con alcune deroghe, dalla disciplina processuale penale, è apparso naturale che l'anagrafe sia strutturalmente inserita nel casellario centrale. In tal modo, inoltre, risulterà semplificato il sistema di comunicazione delle iscrizioni da parte delle cancellerie del giudice competente per gli illeciti dell'ente, che già si trovano a "colloquiare" con il casellario centrale per i provvedimenti in materia penale.

Inoltre, poichè la legge delega prevede espressamente che l'istituzione dell'anagrafe non deve comportare oneri per il bilancio dello Stato, l'utilizzazione di una struttura preesistente e già collegata con gli uffici giudiziari consentirà di evitare oneri aggiuntivi, non compatibili con il criterio di delega.

Infine, il sistema delineato evidenzia l'inserimento all'interno della giurisdizione, con tutte le conseguenti garanzie per l'ente, del sistema di iscrizione delle sanzioni amministrative dipendenti da reato.

Per quanto riguarda la concreta disciplina dettata per l'anagrafe delle sanzioni amministrative, essa ricalca sostanzialmente quella del casellario giudiziale. Nell'anagrafe (art. 80) sono dunque iscritti tutte le sentenze e i decreti, irrevocabili, che hanno applicato all'ente sanzioni amministrative per illeciti dipendenti da reato.

Inoltre, vanno iscritti nell'anagrafe anche i provvedimenti non più soggetti ad impugnazione emessi dagli organi giurisdizionali dell'esecuzione (e non quindi dal pubblico ministero). La regola, analoga a quella dettata per i provvedimenti penali (art. 686, lett. a, n. 2, c.p.p.), consente di iscrivere i provvedimenti relativi al cumulo delle sanzioni in executivis, alla cessazione delle sanzioni per intervenuta amnistia o remissione della querela, e quelli che comunque incidono sulla responsabilità amministrativa dipendente da reato.

Il comma 3 disciplina l'eliminazione delle iscrizioni.

Questo istituto, presente anche nel rito penale, è funzionale a contenere nel tempo la conoscibilità del precedente, in modo da non penalizzare in modo ingiustificato le esigenze collegate all'attività dell'ente.

Primo presupposto comune per l'eliminazione delle iscrizioni è che la sanzione abbia avuto esecuzione. In tal modo, si incentiva l'effettiva esecuzione delle sanzioni irrogate, dalla stessa decorrendo il termine iniziale per l'eliminazione del precedente dall'anagrafe. Diversi sono i tempi che devono trascorrere da tale esecuzione per farsi luogo all'eliminazione: cinque anni per i provvedimenti che hanno applicato solamente la sanzione pecuniaria (e che dunque connotano fatti meno gravi); dieci anni per quelli dai quali deriva anche l'applicazione di una sanzione diversa (interdittiva o pubblicazione della sentenza).

Ulteriore presupposto, volto a consentire l'eliminazione del precedente solo nei casi in cui l'ente non abbia dimostrato, attraverso una reiterazione della condotta illecita, una politica di impresa proclive alla violazione della legge, è che nei periodi indicati non sia stato commesso un ulteriore illecito amministrativo. La reiterazione, che costituisce un'ipotesi di maggior gravità dell'illecito, impedisce dunque l'eliminazione dell'iscrizione, con i conseguenti effetti negativi in tema di permanente stigmatizzazione dell'ente.

L'art. 81 reca le regole relative al rilascio dei certificati dell'anagrafe nazionale, anche in tal caso ispirandosi alla disciplina dei certificati penali.

Si prevedono dunque due distinti certificati. Il primo, rilasciato a richiesta dell'autorità giudiziaria competente in ordine alla responsabilità amministrativa dell'ente dipendente da reato e delle pubbliche amministrazioni ed enti incaricati di un pubblico servizio (sempre che il certificato sia necessario per provvedere ad un atto delle loro funzioni), comprende tutte le iscrizioni esistenti nei confronti dell'ente (non, ovviamente, quelle che siano state eliminate ai sensi dell'articolo precedente).

Il secondo, rilasciato all'ente, senza alcun onere di motivazione, non riporta le iscrizioni relative alle sentenze di applicazione delle sanzioni amministrative su richiesta e ai decreti di applicazione delle sanzioni pecuniarie. Viene così in rilievo uno dei più significativi benefici premiali collegati alla scelta dei citati riti alternativi.

Infine, l'art. 82 delinea il meccanismo di tutela giurisdizionale per tutte le controversie inerenti le iscrizioni (ovviamente comprensive delle questione connesse all'eliminazione delle stesse) e i certificati dell'anagrafe. Anche in questo caso,, mutuando la disciplina processuale penale (art. 690 c.p.p.), si prevede la competenza del tribunale di Roma (luogo ove si trova l'anagrafe nazionale), che decide in composizione monocratica osservando le disposizioni sul procedimento di esecuzione.

Il richiamo alla disciplina esecutiva assicura che nei confronti dell'ordinanza emessa dal tribunale è comunque esperibile ricorso innanzi alla Cassazione.

23. Disposizioni di attuazione.

Il Capo IV, infine, contiene alcune disposizioni, funzionali all'attuazione della disciplina processuale relativa all'accertamento dell'illecito dipendente da reato.

Si rappresenta che il decreto legislativo non comporta oneri di spesa a carico dello Stato.

IV - RELAZIONE TECNICO-NORMATIVA

Il presente decreto legislativo è adottato in esecuzione della legge 29 settembre 2000, n. 300, che contiene norme di ratifica ed esecuzione di Atti internazionali elaborati in base all'articolo K 3 del Trattato sull'Unione europea, e segnatamente della Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, nonché della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell'Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali. La citata legge 29 settembre 2000, n. 300, contiene, inoltre, una delega conferita al Governo avente ad oggetto la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle società, associazioni od enti privi di personalità giuridica che non svolgono funzioni di rilievo costituzionale, da esercitare secondo i principi e criteri direttivi contenuti nell'articolo 11.

In definitiva, dunque, l'intervento normativo appare giustificato dalla necessità di esercitare la delega suddetta e si pone in sintonia con l'ordinamento Comunitario, le cui linee di tendenza rimarcano appunto l'esigenza di prevedere forme di responsabilità delle persone giuridiche.

In tale direzione, e nel rispetto dei criteri formulati dal legislatore delegante, il decreto legislativo prevede la responsabilità delle persone giuridiche come conseguenza di determinate categorie di reato poste in essere a suo vantaggio da soggetti che rivestono incarichi di rappresentanza o amministrazione dell'ente attribuendo il compito del relativo accertamento al giudice penale, di regola nell'ambito dello stesso procedimento nel quale viene accertata la sussistenza o meno del reato presupposto.

La prospettiva, del tutto originale, nella quale si muove il decreto legislativo, chiarisce l'effetto dell'impatto della regolamentazione sulla disciplina, processuale e sostanziale, attualmente vigente che continuerà ad avere, rispetto al settore in esame, valenza applicativa generale, risultandone invece derogata per i peculiari aspetti disciplinati dal presente testo normativo.

Per le stesse ragioni il decreto legislativo non presenta aspetti di interferenza o di incompatibilità con le competenze costituzionali delle regioni.

V - VALUTAZIONE DI IMPATTO AMMINISTRATIVO

Il presente decreto legislativo, che è emanato in esecuzione della legge delega 29 settembre 2000, n. 300, ha l'obiettivo -oltre che di dare esecuzione a quanto disposto dal legislatore delegato- di apprestare forme di tutela nei confronti di peculiari categorie di reati quando ne siano autori i rappresentanti o i responsabili di enti che si avvantaggino della condotta illecita.

Prevedendo la nuova normativa una forma di responsabilità degli enti che viene accertata dal giudice penale nell'ambito del procedimento per il reato commesso dalla persona fisica, il presente decreto legislativo non implica modifiche dell'apparato amministrativo esistente e quindi alcun onere organizzativo aggiuntivo rispetto all'esistente.

La previsione di una responsabilità, seppure amministrativa, in capo alle persone giuridiche, chiamate a rispondere delle violazioni conseguenti ai fatti illeciti sopra indicati con sanzioni pecuniarie ovvero interdittive, implica un certo onere organizzativo funzionale a predisporre le strutture dell'ente secondo moduli idonei ad escludere, da parte dei soggetti aventi responsabilità di amministrazione o rappresentanza, la commissione di determinate categorie di reati (artt. 6 e ss.).

Ne discende un conseguente onere finanziario cui, ovviamente, va aggiunto quello direttamente derivante dall'applicazione, nei confronti dell'ente, delle sanzioni previste in caso di violazione.