Dopo i Patti Lateranensi del 1929 e fino agli anni ‘70, le sentenze ecclesiastiche di declaratoria di nullità matrimoniale canonica venivano recepite automaticamente dallo Stato Italiano ed erano riconosciute agli effetti civili, qualunque ne fosse la causa. Successivamente agli accordi di Villa Madama dell’84, recepiti dalla L. 25 marzo 1985, n. 121 le delibazioni delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale emesse da un Tribunale ecclesiastico, sono possibili oggi solo dopo che, sul provvedimento canonico vi sia stato un vaglio da parte della Corte d’Appello italiana (c.d. giudizio di delibazione). Infatti, in virtù dell'articolo 8, n. 2), dell'Accordo di revisione del Concordato (L.121/1985), le sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio possono essere rese esecutive nella Repubblica italiana attraverso uno speciale procedimento innanzi la Corte di appello territorialmente competente.

La domanda di delibazione, introdotta con citazione o ricorso a seconda che le parti siano discordi o meno circa l’efficacia civile della sentenza canonica di nullità, imporrà alla Corte d’Appello italiana di accertare che: a) "il giudice ecclesiastico era il giudice competente a conoscere della causa"; b) "nel procedimento davanti ai tribunali ecclesiastici è stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio"; c) "ricorrono le condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere".

Nel caso che ci occupa, per quanto concerne le “condizioni” di cui alla suddetta lettera c), occorre fare cenno al principio di “ordine pubblico” interno, e preme osservare che anche precedentemente al Concordato del 1984, in virtù delle sentenze della Corte Costituzionale n. 32/1971, 16 e 18 del 1982, sussisteva un procedimento ufficioso di controllo sulla sussistenza di detto limite che aveva trasformato l’ancora precedente automatismo recettivo della sentenza canonica in vero e proprio giudizio di delibazione, in cui il giudicante italiano aveva l’obbligo di verificare se il collega ecclesiastico avesse rispettato il diritto di difesa, e se avesse mantenuto una conformità con l'ordine pubblico. La Corte costituzionale con la sentenza 18/82 aveva definito il concetto di ordine pubblico come l'insieme «delle regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici di cui si articola l'ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all'evoluzione della società», chiarendo che i principi fondamentali essenziali e caratterizzanti l'ordinamento giuridico italiano sono posti non solo dalla Costituzione ma anche dalle leggi.

La Corte di Cassazione già dal lontano 1982 con la sentenza n. 5026/1982 ha ritenuto fare parte dell’ordine pubblico il principio della buona fede e dell’affidamento incolpevole sostenendo che non può essere resa esecutiva la sentenza ecclesiastica che dichiari la nullità del matrimonio concordatario per esclusione unilaterale dei bona matrimonii, laddove la riserva mentale sia rimasta nella sfera psichica del suo autore e non sia stata conosciuta o non era conoscibile dall’altro coniuge. Peraltro le SS. UU. con sentenza 6128/1985 hanno precisato che il limite dell'ordine pubblico così inteso non risulta invece travalicato laddove il coniuge incolpevole abbia rinunciato a far valere la sua buona fede, promuovendo egli stesso il giudizio di nullità, ovvero aderendo al giudizio promosso dall'altro coniuge, o non opponendosi alla declaratoria di esecutività; ciò in quanto il principio di tutela dell'affidamento «ancorché inderogabile (...) appartiene alla sfera di disponibilità del soggetto» .

Con la sentenza a SS. UU. 19809/08 la Cassazione, diversificandosi rispetto al precedente orientamento, dichiarava che costituisce ostacolo insormontabile per la delibazione della sentenza canonica la coabitazione o la convivenza intervenuta tra i coniugi dopo la celebrazione. In questi casi ci si troverebbe, cioè, di fronte a un caso di incompatibilità assoluta con l'ordine pubblico interno. Tale assunto era già stato affermato, con diverse e più ampie motivazioni, in alcune sentenze precedenti (5358/1987 5354/1987 5823/1987, tutte in «Il Foro italiano», 1988, I, pag. 474), il cui indirizzo è stato riconfermato dalla sentenza 1343/11. In detta pronuncia in cui stato richiamato quanto espresso dalla sentenza 19809/2008, è stato affermato il principio di diritto per cui l’ordine pubblico interno matrimoniale evidenzia un palese “favor” per la validità del matrimonio quale fonte del rapporto familiare incidente sulla persona e oggetto di rilievo e tutela costituzionali, con la conseguenza che i motivi per i quali esso si contrae, che, in quanto attinenti alla coscienza, sono rilevanti per l’ordinamento canonico, non hanno di regola significato per l’annullamento in sede civile. Si esplicita che non si può annullare il matrimonio allorquando la convivenza e già iniziata, e ancora di più se si è protratta per un certo tempo. Poiché riferita a date situazioni invalidanti dell’atto matrimonio, la successiva prolungata convivenza è considerata espressiva di una volontà di accettazione del rapporto che ne è seguito e con questa volontà è incompatibile il successivo esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione, altrimenti riconosciuta dalla legge.

Si tiene a precisare che la sentenza canonica di nullità prescinde dai principi di ordine pubblico suaccennati ed è fondata su un vizio del consenso esistente al momento del matrimonio (quod nullum est nullum producit effectum). Tale vizio del consenso non si prescrive mai con il decorso del tempo e dunque può essere rilevato dai giudici ecclesiastici, con debite risultanze istruttorie, anche a distanza di molti anni dalla celebrazione del matrimonio.

Pertanto nel momento in cui si è intenzionati ad introdurre una causa di nullità matrimoniale per simulazione ex can. 1101 c.i.c. con l’intento di fare delibare successivamente la sentenza nello Stato italiano, occorrerà valutare se l’altro coniuge era a conoscenza della riserva mentale, se intende opporsi ovvero presta il consenso alla causa. In difetto si rischia di ottenere un provvedimento canonico che non può esplicare alcun effetto civile, quale ad esempio il matrimonio putativo (art. 128 c.c.), ed i conseguenti diritti del coniuge in buona fede, quale la corresponsione di somme di denaro per un periodo non superiore a tre anni (art. 129 c.c.).