La responsabilità medica usualmente è di natura contrattuale, indipendentemente dalla sottoscrizione di un contratto reale, in virtù della teoria accolta dalla giurisprudenza prevalente del cosiddetto “contatto sociale” ovvero dell’obbligo sociale e solidale a cui il medico deve conformarsi, indipendentemente dall’esistenza di un espressa volontà del paziente, il quale talvolta può essere in stato di incoscienza o non in grado di intendere e volere, essendo quindi impossibile pretendere, in questi casi, di ottenere una dichiarazione di consenso, dandosi quindi per presunto.

 

L’obbligazione assunta dal medico, viene tuttora qualificata, almeno a parole, dalla maggioranza della giurisprudenza come obbligazione di mezzi e non di risultato, ma di fatto, in particolare nell’ambito ad esempio della chirurgia estetica, i giudici, realizzando una vera è propria inversione della prova, pongono spesso a carico del chirurgo estetico danni, che non sarebbero attribuibili allo stesso secondo le teorie tradizionali delle obbligazioni di mezzi.

 

Questa situazione è particolarmente grave in quanto molte volte l’assicurazione non risponde della copertura di tali danni, che restano quindi totalmente a carico dell’operatore sanitario, usualmente in via solidale con la casa di cura in cui si è operato (se questa viene chiamata in causa), senza alcuna specifica ripartizione o particolare indagine sulle rispettive colpe.

 

Chi scrive si è trovato spesso a difendere i medici chirurghi estetici e si è battuto e si batte per far sì che si giunga in accordo anche con le compagnie assicurative a qualificare definitivamente l’obbligazione del chirurgo estetico, almeno in alcuni casi (da includersi nella chirurgia correttiva), inequivocabilmente, come obbligazione di risultato.

 

Tale interpretazione comporterebbe di fatto a introdurre in ambito medico, una disciplina simile, per natura, all’appalto, ma avrebbe il vantaggio di usufruire della decadenza e prescrizioni brevi dell’azione fissate rispettivamente in 8 giorni dal momento in cui si è scoperto il fatto e in un anno dal momento in cui è avvenuto l’intervento, non si capisce infatti il motivo per cui in ambito assicurativo si consentano prescrizioni brevi (ad esempio al massimo 2 anni in caso di sinistri stradali), mentre nella RCP medica, specie con l’accoglimento della teoria dei danni “lungo latenti” (di cui diremo a breve), si arrivi a prescrizioni addirittura ultradecennali, senza più alcuna certezza del diritto e soprattutto con il rischio che l’assicurazione non copra più tali danni eccependo dal suo canto la prescrizione decennale.

 

L’interpretazione da noi indicata (precisiamo relativa alla sola “chirurgia estetica correttiva”) sarebbe comunque giustificata dal fatto che se ci si sottopone a un’operazione di chirurgia estetica, non necessaria per la salute, se è corretto pretendere il risultato promesso, tuttavia, poiché ci si è sottoposti volontariamente a un operazione chirurgica non necessaria dal punto di vista della salute, non si potrà poi chiedere il danno esistenziale (perché nella fattispecie, a fronte della firma di un corretto consenso informato, non è riscontrabile alcuna violazione di una norma o principio costituzionalmente, garantito, quale il diritto alla salute ex art. 32 Cost.), e conseguentemente, non si potrà richiedere neppure la prescrizione decennale, come inequivocabilmente stabilito in caso di obbligazioni di risultato dalla lettera dell’art. 2226 c.c..

 

Attualmente peraltro la figura del danno esistenziale sembra scomparsa dal nostro Ordinamento giuridico, ma le ultimissime sentenze in materia, sembrano riesumarlo semplicemente chiamandolo con altri nomi o facendolo confluire nel cosiddetto danno non patrimoniale. In ogni caso, anche in presenza di una prescrizione breve, tale limitazione sarebbe attenuata dalla considerazione che oggi la giurisprudenza fa coesistere assommandola la responsabilità civile e quella di natura contrattuale. In caso di responsabilità civile (o extracontrattuale o altrimenti detta aquiliana), opererebbe in ogni caso il paracadute della prescrizione quinquennale.

 

Si puntualizza però che a differenza della responsabilità contrattuale, tale disciplina prevede che sia il danneggiato a fornire la prova della negligenza dell’operatore sanitario. Comunque i pazienti possono stare tranquilli sulla prescrizione, infatti questa teoria ad oggi è stata affossata dai Giudici a cui è stata sottoposta, i quali hanno asserito che non si può assimilare l’obbligazione del medico a quella di risultato, (sebbene siano gli stessi Giudici ad applicare nella sostanza tale disciplina, ma solo per gli aspetti svantaggiosi al medico), in quanto mancherebbe “l’opus”, ma questo in senso tecnico non è corretto, in quanto “l’opera”, nella fattispecie, esiste ed è data dalle suture, dall’applicazione di protesi o dall’asportazione di materiale organico. Quanto al consenso informato, da una parte si dice che deve essere particolareggiato, dall’altra si asserisce che se troppo particolareggiato diventi di difficile comprensione.

 

Chi scrive ha quindi messo a punto un nuovo tipo di consenso informato che sebbene richieda una compilazione interattiva tra paziente e cliente che necessita una ventina di minuti per l’ultimazione, tuttavia supera tutte le eccezioni fino qui evidenziate dalla giurisprudenza e crea chiarezza a favore del paziente.

 

Facciamo infine cenno ai danni “lungolatenti”, sulla base di una interpretazione datane dalla Suprema Corte di Cassazione, che fa decorrere la prescrizione (almeno in materia extracontrattuale), non dalla data dell’intervento, bensì dal momento in cui il paziente abbia una consapevolezza soggettiva che il danno accusato derivi dall’intervento medico subito, secondo il criterio della "conoscibilità del danno", da interpretarsi nel senso che, ai fini del decorso della prescrizione, non è sufficiente la mera consapevolezza della vittima di "star male", ma occorra che quest'ultima si trovi nella possibilità di apprezzare la "gravità" delle conseguenze lesive della sua salute anche con riferimento alla loro "rilevanza giuridica".

 

La Suprema corte ha quindi ritenuto che il termine di prescrizione del diritto risarcitorio (nel caso concreto, di chi assume di avere contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo) inizi a decorrere, ai sensi dell'articolo 2947, comma 1, cc, non dal momento in cui il terzo determina la modificazione che produce danno all'altrui diritto o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma: “dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento colposo o doloso di un terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche” (vedi Cassazione, sentenze nn. 685/82, 2645/03, 12287/04, 10493/06).

 

Questo indirizzo pur apprezzabile per la tutela del paziente comporta tuttavia il rischio di creare un incertezza sulla data iniziale di decorrenza della prescrizione con conseguente indeterminazione sull’assicurabilità di tali danni. Infatti già normalmente ci si chiede, se si debba far riferimento all’assicurazione che il medico aveva al momento in cui ha operato, oppure quella in essere al momento in cui viene fatta la richiesta di risarcimento da parte del paziente. L’indirizzo giurisprudenziale prevalente ha avallato la seconda ipotesi, resta tuttavia il fatto che l’assicurazione possa sempre eccepire la decorrenza della prescrizione decennale, o che a quella data il medico abbia cessato l’attività e si trovi scoperto a livello di coperture assicurative.

 

Alla luce di quanto esposto ci si chiede quindi se non sia il caso oggi di intervenire in via legislativa per porre un rimedio al proliferare di cause, o se quantomeno debbano intervenire accordi con le associazioni di tutela dei consumatori e degli operatori sanitari per regolare preliminarmente in via arbitrale le controversie insorte.

 

Resta infatti insostenibile per gli operatori sanitari sopportare le conseguenze dell’orientamento giurisprudenziale sopra delineato, in quanto la disciplina tratteggiata dai Giudici, comporta come risultato, a fronte dell’aumento dei premi assicurativi e delle conseguenti diminuzioni delle garanzie, una minore tutela dei pazienti.

 

In tali sentenze, infatti, succede a volte che l’assicurazione non venga condannata, al risarcimento, perché, o non ne vengono identificati i presupposti, o perché il danno si mantiene all’interno delle franchigie (sempre più elevate), o infine perché l’operatore viene assolto da qualsiasi colpa. Resta il fatto che ciò nonostante i premi continuano ad aumentare insieme alle franchigie lasciando il medico privo di adeguate coperture.

 

Tutto ciò comporta alla fine una minore tutela del paziente, poiché quest’ultimo non potendo aggredire l’assicurazione, se la prenderà con i soli medici, che loro malgrado, a fini cautelativi, saranno costretti a spogliarsi di ogni avere e ad attuare una terapeutica difensiva, il tutto a danno dello stesso paziente.