La responsabilità contrattuale del medico, e quella dell'ente ospedaliero, trovano titolo nella disciplina dettata dall’inadempimento contrattuale prevista dall'art. 1218 c.c. (Cass. civ., sez. III, sent. n. 8826/07), ciò si badi anche in assenza della sottoscrizione di uno specifico contratto. Il Tribunale Venezia (sez. III, 07 agosto 2006, in Corriere del merito, 2006, 12, 1397), a riguardo ha così deciso: “Dei danni conseguenti all'errato intervento chirurgico rispondono, in via contrattuale, sia l'ospedale che il medico dipendente che ha effettuato l'intervento, dovendo essere ricondotta la responsabilità di quest'ultimo al rapporto contrattuale di fatto da "contatto sociale" che si instaura con il paziente”. Da quanto esposto se ne ricava che, anche in assenza di uno specifico accordo scritto, il contratto tra le parti si presume in virtù dell’obbligo sociale e solidale a cui il medico deve conformarsi e questo è naturale, perchè talvolta il paziente può essere in stato di incoscienza o non in grado di intendere e volere, essendo quindi impossibile pretendere, in questi casi, un espresso consenso. Entrando nello specifico la norma cardine che regola la responsabilità contrattuale è dettata dall’articolo 1218 c.c., che a riguardo così stabilisce: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta [1176, 1181, 1197] è tenuto al risarcimento del danno [1223 ss., 2740], se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione [1256 comma 1] derivante da causa a lui non imputabile [1176 comma 1; 160 trans.]”. La norma parla di “debitore”, ma il concetto va inteso nel senso che l’obbligato, per giustificare il proprio operato deve dimostrare nel nostro caso che l’inadempimento è derivato dall’impossibilità di poter offrire una prestazione migliore rispetto a quella realizzata e che l’eventuale esito non ottimale è derivato da una causa allo stesso non imputabile, mentre al paziente spetterà provare il danno e il relativo nesso causale. Sull’argomento è intervenuta anche la Suprema Corte per precisare che: “In tema di responsabilità dell'ente ospedaliero per inesatto adempimento della prestazione sanitaria, inquadrabile nella responsabilità contrattuale, è a carico del danneggiato la prova dell'esistenza del contratto e dell'aggravamento della situazione patologica (o dell'insorgenza di nuove patologie), nonché del relativo nesso di causalità con l'azione o l'omissione dei sanitari, restando a carico di questi ultimi la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile.” (Cass. civ., sent. n. 12362/06. Conforme Cass. civile , sent. n. 9085/06). Va però precisato che, la valutazione della colpa del professionista è soggetta a un regime più gravoso rispetto a quella esigibile da un obbligato generico, infatti come stabilito dall’art. 1176 c.c., II° comma: “Nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata [1838 comma 4, 2104 comma 1,2145 comma 2, 2174 comma 2, 2224,2236]”. Ciò comporta che il medico, essendo un esperto, nella sua materia, risponderà del suo operato anche in presenza di una colpa lieve, qualora tale intervento sia considerato di routine, mentre ex art. 2236 c.c., nel caso in cui la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il professionista sarà responsabile solo in presenza di dolo o di colpa grave. Norma quest’ultima, che si applica secondo la prevalente dottrina, soltanto quando sia in discussione la perizia del professionista e non allorché, ci si trovi di fronte a imprudenza o negligenza. Auspicandosi, in relazione a queste ultime, giudizi improntati a criteri di normale severità come suggerito anche dalla prevalente giurisprudenza (Cass. civ. sent. n. 6937/06). Gli stessi criteri si applicano anche alle altre prestazioni d’opera intellettuale, perchè tali obbligazioni vengono qualificate usualmente come “obbligazioni di mezzi e non di risultato”, in quanto il professionista si impegna a cercare di raggiungere il risultato, ma non a conseguirlo. Ciò era assodato da parte di dottrina e di giurisprudenza, fino a poco tempo fa, ma attualmente ciò non è più scontato, in quanto già nel 1985 la Suprema Corte (Cass. civ., sent n. 4394/85) aveva stabilito che “Il dovere d'informazione, gravante sul chirurgo estetico, ha contenuto più ampio rispetto al corrispondente dovere a carico del terapeuta, in quanto dev'essere esteso alla possibilità di conseguire un miglioramento effettivo dell'aspetto fisico, che si ripercuota favorevolmente nella vita professionale e in quella di relazione.” Sebbene non si arrivi mai a considerare l’obbligazione del chirurgo come obbligazione di risultato, come ribadito da una recente sentenza della Cassazione (Cass. civ. , sent. n. 8826/07): “Trattandosi di obbligazione professionale, la misura dello sforzo diligente necessario per il relativo corretto adempimento va considerata in relazione al tipo di attività dovuta per il soddisfacimento dell'interesse creditorio, secondo quanto stabilito dall'art. 1176, comma 2, c.c., senza che possa trovare applicazione la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato.”, tuttavia nella sostanza ci si trova spesso di fronte a una vera e propria inversione del regime probatorio a favore dei pazienti fino ad arrivare a sentenze di merito come quella che di seguito riportiamo, che di fatto intendono l’obbligazione del medico alla stregua di quelle di risultato: “In tema di responsabilità medica, ed anche in materia di chirurgia estetica, una volta provato da parte del danneggiato il graveinadempimento d'un contratto concernente obbligazioni non di attività, ma di risultato, grava sul medico (o sulla struttura sanitaria) la prova liberatoria che la prestazione è mancata nonostante l'impiego dell'ordinaria diligenza professionale qualificata.” (Tribunale Padova, 10 marzo 2003, R.C. c. Soc. PML e altro, in Giur. merito 2005, 1, 85).