Uno dei casi che maggiormente hanno infiammato l’opinione pubblica negli ultimi tempi è quello dalla stampa definito “Il caso Englaro” dal nome dell’attrice principale di una triste vicenda. Di seguito riportiamo e commentiamo la sentenza che ha concluso l’iter giuridico che ha portato alla morte della paziente Eluana Englaro in coma da circa 17 anni: “Ai sensi e per gli effetti del principio enunciato da Cass. 16 ottobre 2007 n. 21748, qualora sia accertato processualmente, oltre ogni ragionevole dubbio, che una persona, da lunghi anni in coma vegetativo persistente ed irreversibile, a seguito di un incidente stradale subito (e perciò priva di ogni facoltà psichica superiore, di ogni funzione percettiva e cognitiva e di ogni capacità di avere contatti con il mondo esterno), con respirazione autonoma ma mantenuta in vita solo mercé un trattamento di sostegno forzato (alimentazione/idratazione con sondino naso-gastrico) rifiuterebbe senza alcuna esitazione, ove potesse pronunciarsi, di sopravvivere nelle condizioni or ora descritte, il giudice non può che accogliere la concorde richiesta del tutore (il papà del malato) e del curatore speciale di essere autorizzati ad interrompere il trattamento forzato di sopravvivenza, pur se l'interruzione avrebbe a determinare con certezza il decesso della persona in coma, decesso che dovrebbe, peraltro, essere preceduto ed accompagnato da ogni cautela ed accorgimento idonei ad alleviare il trapasso. (In Corte appello Milano, 09 luglio 2008, in Dir. famiglia 2008, 4 1943)”. *** La Corte di appello I Sez. civile 2008 stabilisce altresì che ove siano in gioco il diritto alla vita o alla salute e il rapporto tra medico e paziente bisogna tener presente le norme di rango costituzionale (art. 2, 3, 13, 32 Cost.), dalle quali emerge l’importanza della libertà di autodeterminazione terapeutica. - La prestazione del consenso informato del malato, il quale ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità o modalità di erogazione del trattamento medico ma anche di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla in tutte le fasi della vita, legittima il trattamento sanitario. - Il diritto all’autodeterminazione terapeutica non può essere negato neppure nel caso in cui il soggetto adulto non sia più in grado di manifestare la propria volontà a causa del suo stato di totale incapacità, con la conseguenza che, nel caso in cui, prima di cadere in tale condizione, egli non abbia specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza. al posto dell’incapace è autorizzato ad esprimere tale scelta il suo legale rappresentante (tutore o amministratore di sostegno), che potrà chiedere anche l’interruzione dei trattamenti che tengano artificialmente in vita il rappresentato. - Questo potere-dovere che fa capo al rappresentante legale dell’incapace non è incondizionato, ma soffre di limiti connaturati al fatto che la salute è un diritto “personalissimo” di chiunque anche dell’incapace e che la libertà di rifiutare presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte che trovano loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque anche extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive, che perciò stesso devono essere sempre riferibili al soggetto malato, anche se incapace. La corte di appello, riconosce, quindi, al legale rappresentante, nel nostro caso al padre, la facoltà di chiedere l’interruzione dei trattamenti che tengono in vita artificialmente la donna. Queste le motivazioni, ma passiamo a studiare ora i fatti e l’iter travagliato che ha portato a queste decisioni. Nel 1992, Eluana Englaro, a soli 20 anni, dopo un incidente di auto, entra in uno stato vegetativo permanente, con conseguente degenerazione definitiva della regione superiore del cervello e quindi, secondo la medicina, senza alcuna possibilità di recupero; viene alimentata e idratata attraverso un sondino naso gastrico. Nel 1999 il padre inizia la battaglia per interrompere l’alimentazione artificiale alla figlia e ottiene un primo rifiuto da parte del Tribunale di Lecco, nel 2003 e successivamente, nello stesso anno dalla Corte d’Appello di Milano. La richiesta viene reiterata e respinta da entrambe le assise nel 2006. Il caso viene sottoposto nel 2005 anche alla Cassazione che si allinea inizialmente sulla linea delle corti di merito. Il caso sembra chiuso ma il padre della ragazza non si arrende e insiste nel ricorso alla Suprema Corte che nel 2007, si distacca dalle precedenti decisioni e stabilisce che il processo vada rivisto e quindi rinvia la decisione alla Corte d’Appello di Milano, sostenendo che il giudice può autorizzare l’interruzione della terapia in presenza di due circostanze concorrenti: lo stato vegetativo irreversibile del paziente e l’accertamento che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento. Nel 2008 la Corte d’appello di Milano riesamina la vicenda, alla luce delle direttive sopra indicate e autorizza la sospensione dell’alimentazione. Il 16 luglio dello stesso anno, Camera e Senato sollevano un conflitto di attribuzione contro la Cassazione; il caso finisce in Corte Costituzionale. A ottobre La Corte si allinea alle ragioni indicate dalla Cassazione e dalla Corte d’Appello di Milano, che avevano stabilito le condizioni per l’interruzione dell’alimentazione, ritenendo che “il potere giudiziario ha piena facoltà di intervenire su una materia come il diritto alla vita e alla morte, che trova i suoi presupposti legislativi nella Costituzione e nel codice civile”. In base a quest’ultima decisione, mentre il Governo si affretta a varare un provvedimento per impedire la morte della giovane, il sondino che tiene in vita Eluana viene staccato e la donna viene “accompagnata” con specifiche cure mediche alla fine della sua vita. Il caso è singolare e implica riflessioni sia sul piano etico, religioso, sia su quello giuridico, divulgato dai media, presto coinvolge appassionatamente l’opinione pubblica e impegna un dibattito infinito di contrapposte opinioni che si formano in relazione ai diversi aspetti che la dolorosa vicenda porta con sé. Prima di tutto si discute se si può chiamare “vita” quella di una persona che in stato comatoso permanente ha perso qualsiasi rapporto col mondo; secondo, se sia lecito interrompere anche una forma di vita, ritenuta simile a quella di un vegetale; poi, se sia da considerarsi accanimento terapeutico l’alimentazione con sondino nasogastrico e infine, ma certamente non per ordine di importanza, qual’è la posizione della giurisprudenza italiana di fronte a tali casi. Le riflessioni che ci competono riguardano in particolare le sentenze emanate sul caso, anch’esse, ora in favore di una tesi ora dell’altra, a testimoniare che, niente è assoluto, in una materia così delicata e sulla quale non esiste ancora in Italia una normativa di riferimento. Esaminiamo la tesi esposta dalla Cassazione nella sentenza n. 21748 del 16 ottobre 2007 nella parte in cui recita: “Se è indubbio che, in forza del diritto alla salute e alla autodeterminazione in campo sanitario, il soggetto capace possa rifiutare anche le cure indispensabili a tenerlo in vita, nel caso di soggetto incapace (di cui non sia certa la volontà), per il quale sia in atto solo un trattamento di nutrizione, che indipendentemente dalle modalità invasive con cui viene eseguito (sondino nasogastrico) è sicuramente indispensabile per l’impossibilità del soggetto di alimentarsi altrimenti e che, se sospeso, condurrebbe lo stesso a morte, il giudice – chiamato a decidere se sospendere o meno detto trattamento – non può non tenere in considerazione le irreversibili conseguenze cui porterebbe la chiesta sospensione (morte del soggetto incapace), dovendo necessariamente operare un bilanciamento tra diritti parimenti garantiti dalla Costituzione, quali quello alla autodeterminazione e dignità della persona e quello alla vita”. Questa sentenza andava a riformare il diverso orientamento giurisprudenziale, sposato dalla sentenza della Corte D’appello del Corte appello Milano (sentenza del 16 dicembre 2006, in Guida al diritto 2007, 1 39) che aveva stabilito che detto bilanciamento:“non può che risolversi a favore del diritto alla vita, ove si osservi la collocazione sistematica (art. 2 Cost.) dello stesso, privilegiata rispetto agli altri (contemplati dagli artt. 13 e 32 Cost.), all’interno della Carta costituzionale; tanto più che, alla luce di disposizioni normative interne e convenzionali, la vita è un bene supremo, non essendo configurabile l’esistenza di un “diritto a morire” (come ha riconosciuto la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 29 aprile 2002 nel caso Pretty c. Regno Unito)”. La sentenza è in favore del diritto alla vita come bene supremo: se il sondino nasogastrico mantiene in vita una persona, non può essere staccato, non essendoci nella normativa italiana il diritto a morire; inoltre trattandosi di soggetto incapace di esprimere una volontà, e non essendoci dati certi di una volontà espressa, non si può presumere alcuna volontà da parte del paziente in coma irreversibile a non essere curato. In presenza dei due requisiti della irreversibilità delle condizioni e del mancato consenso del paziente alla continuazione del trattamento il giudice può autorizzare la sospensione delle cure. Quanto al codice di deontologia medica (vedi art. 14), il medico deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita. In questo si rispecchiano l’idea di non accanirsi in trattamenti “futili”, presente nell’esperienza anglosassone, o le prescrizioni della riforma del Codice della salute francese introdotte dalla legge 2005-370 del 22 aprile 2005, sulla sospensione e la non erogazione, a titolo di “ostinazione irragionevole”, di trattamenti “inutili, sproporzionati o non aventi altro effetto che il solo mantenimento artificiale della vita. Da quanto esposto se ne deve dedurre che, se il trattamento è inutile, nel senso che non può restituire la salute o portare a un miglioramento delle condizioni esistenziali, sicuramente esso esula da ogni più ampio concetto di cura e di pratica della medicina, ed il medico, come professionista, non può praticarlo, se non invadendo ingiustificatamente la sfera personale del paziente (artt. 2, 13 e 32 Cost.). Su tale principio la bioetica clinica contemporanea accoglie unanimi consensi  nel ritenere che  "il medico ha la responsabilità clinica ed etica di porre un limite alle cure in appropriate condizioni". Si tratta di quelle condizioni in cui si configura il cosiddetto "accanimento terapeutico" (per brevità in seguito: AT), cui si fa espresso riferimento, con una connotazione di condanna morale dello stesso, anche negli art. 14 e 37 del codice di deontologia medica (di seguito CDM) e nel documento sulle "Questioni Bioetiche relative alla fine della vita umana" del Comitato Nazionale della Bioetica. In quest’ultimo è riportato testualmente che si intende per AT la "persistenza nell'uso di procedure diagnostiche come pure di interventi terapeutici, allorché è comprovata la loro inefficacia e inutilità sul piano di un'evoluzione positiva e di un miglioramento del paziente, sia in termini clinici che di qualità della vita". Nella pratica, il non sottoporre il paziente ad accanimento terapeutico si traduce nella decisione di limitare le cure, o nel senso di una loro “mancata applicazione", cioè della rinuncia a intraprendere determinati provvedimenti o della "sospensione" di determinate terapie. Tra esse è da annoverare la stessa nutrizione artificiale. Nel caso del paziente "capace" c’è tuttavia da fare un’altra considerazione: il rifiuto di alimentarsi per via naturale o il rifiuto di essere sottoposto a nutrizione artificiale, si può configurare come una situazione in cui l'obbligo di rispettare la libertà del paziente stesso può entrare in conflitto con il principio morale del conseguimento del suo bene, inteso dal medico come necessità di salvaguardare la vita. Il problema che al medico si pone è se possa non tener conto della volontà del paziente al fine di salvaguardare la sua stessa vita. In risposta a ciò, riportiamo quanto stabilito dal Comitato nazionale per la bioetica (CNB) del 1992 intitolato: "Informazione e consenso all'atto medico", in cui si precisa che: "al centro dell'attività medico-chirurgica si colloca il principio del consenso, il quale esprime una scelta di valore nel concepire il rapporto medico-paziente, nel senso che tale rapporto pare fondato prima sui diritti del paziente che sui doveri del medico. Sicché sono da ritenere illegittimi i trattamenti sanitari extraconsensuali, non sussistendo un dovere di curarsi, se non nei definiti limiti dei trattamenti sanitari obbligatori". Lo stesso CDM afferma all'art. 32 che: "In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona...”. Il rifiuto consapevole di nutrirsi viene avvalorato anche dall'articolo 51 CDM che testualmente chiarisce: "Quando una persona, sana di mente, rifiuta consapevolmente di nutrirsi, il medico ha il dovere di informarla sulle conseguenze che tale decisione può comportare sulle sue condizioni di salute. Se la persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale, ma deve continuare ad assisterla". In ambito medico prevale quindi il principio dell'autodeterminazione del paziente, quando questi è adeguatamente informato della sua attuale situazione e sulle conseguenze del suo rifiuto. Il medico continuerà a prestare la sua opera come assistente, ma si asterrà dal costringere il paziente a nutrirsi. Il caso Englaro è tuttavia particolare in quanto, la volontà della paziente non risultava espressa in nessuna forma, se non da quanto riferito da persone sue conoscenti o amiche, invitate dal padre (nominato tutore della ragazza già nel 1997), a testimoniare. Proprio in base ai due principi della irreversibilità dello stato vegetativo e del consenso, la Cassazione, ha concesso al padre la facoltà di chiedere ai medici l’interruzione dell’alimentazione. Entrando nello specifico della motivazione della sentenza vediamo quelli che ne sono i tratti innovativi. Una prima considerazione va fatta relativamente al limite posto alla facoltà di scelta di chi rappresenta la paziente (nel nostro caso il padre come abbiamo già segnalato), determinato dal fatto che, tale scelta di decidere per la vita o la morte, sia sempre vincolata al rispetto del miglior interesse del rappresentato, si chiarisce infatti nelle motivazioni che ove il malato giaccia da moltissimi anni in stato vegetativo permanente con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno e sia tenuto artificialmente in vita mediante sondino nasogastrico, su richiesta del tutore che lo rappresenta e in contraddittorio col curatore speciale, il Giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario unicamente alla presenza di questi 2 presupposti, ovvero: “A) quando la condizione dello stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico irreversibile e non vi sia nessun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di un ritorno alla percezione del mondo esterno; B) e sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni, dal suo stile di vita, dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e volere del soggetto interessato e dalla percezione che gli altri, possano avere della qualità della vita stessa”. Nel caso di Eluana Englaro non è stata predisposta, quando era in stato di capacità di intendere e volere, alcuna dichiarazione anticipata sul trattamento terapeutico da intraprendere quindi a rigor di logica e di etica-morale non poteva essere sospesa l’alimentazione, così come, invece, è stato fatto. Nessuno in realtà, non vigendo nel nostro ordinamento l’eutanasia, può stabilire cosa sia la vita né il termine temporale della vita stessa, essendo la vita un valore di cui non si può disporre in modo assoluto. Ogni intervento che stabilisca un termine alla vita è da considerarsi omicidio, stante anche il disposto costituzionale del diritto alla vita. Solo se si riuscisse a dimostrare scientificamente che un corpo in stato vegetativo e attaccato a una macchina non è più vivo, allora si potrebbe fare breccia nel nostro ordinamento e considerare lecito l’atteggiamento medico utilizzato nei confronti di Eluana, ma finché ciò non accade sarà difficile aggirare il dettato costituzionale sulla inviolabilità e sacralità della vita umana. La vita rappresenta, infatti, una ricchezza oltre che un valore che bisogna difendere, promuovere in ogni momento e soprattutto in quello di maggior debolezza. Eluana è diventata un simbolo, oltre che una battaglia, ma soprattutto ha scosso le coscienze dei politici, dei laici e della chiesa tutta, perché ormai rappresenta il confine che separa la vita dalla morte. Ha posto inoltre l’urgenza di legiferare sull’argomento fine vita, richiamando l’attenzione dei politici sul cosiddetto “testamento biologico”, il cui testo di legge da poco approvato, potete trovare nella sezione leggi di questa guida. Altro aspetto su cui le opinioni si sono ampiamente divise è se l’alimentazione, consistente, nel caso della Englaro e di tanti altri pazienti in stato vegetativo permanente, in una sostanza nutriente e idratante, rappresenti o meno un accanimento terapeutico o semplicemente la somministrazione, con altro sistema che non quello naturale, di pane e acqua. Su questo punto fa chiarezza la nuova legge sopra citata, che specifica che impedisce la sospensione dell’alimentazione e idratazione artificiali. Le altre novità introdotte dalla legge sono le seguenti: a) Il trattamento sanitario è subordinato all’esplicito ed espresso consenso dell’interessato, prestato in modo libero e consapevole; b) la dichiarazione anticipata di trattamento non obbligatoria e comunque non vincolante; c) la limitata validità delle dichiarazioni anticipate di trattamento (3 anni); d) l’obbligo per le Regioni di assicurare l'assistenza domiciliare ai soggetti in stato vegetativo permanente. Da quanto se ne deduce, se la legge in questione fosse stata varata prima del decesso della paziente, questa non sarebbe morta. Volutamente non ci schieriamo con alcuna delle fazioni popolari, constatiamo tuttavia, leggendo i pareri espressi nei forum di discussione aperti in internet, inerenti tale caso, che le novità introdotte dalla Legge, non raccolgono il consenso della maggioranza significativa degli italiani, quindi riteniamo che la discussione rimanga aperta a prossimi sviluppi legislativi e giurisprudenziali. Avv. Massimo Colangelo (con il contributo della Dott.ssa Angela Ottavia Aragosa)