L'art. 4 comma 6, invece, sanziona la violazione del divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione per coloro che siano sottoposti alla misura della quarantena perché risultati positivi al virus. La norma fa espresso rinvio al reato punito dall’art. 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, tuttavia è stata aumentata la pena per renderla congrua al fatto, oltre che per impedire l'accesso al beneficio dell'oblazione (arresto da 3 mesi a 18 mesi e ammenda da euro 500 ad euro 5.000).
L'articolo citato si apre con una clausola di riserva: "Salvo che il fatto costituisca violazione dell'articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato". Ciò significa che sarà contestato il reato prima richiamato, solo se il fatto commesso non integrerà il delitto di epidemia colposa di cui all’art. 452 c.p. o altro reato più grave (ad esempio, la forma dolosa di cui all’art. 438 c.p.). In questo modo il legislatore ha voluto distinguere la gravità dell’inosservanza del divieto di allontanamento: si pensi a colui che, sottoposto a quarantena e senza conviventi, scenda in strada la sera tardi per gettare la spazzatura o far fare i bisogni al cane. Questo comportamento sarà meno grave, ma soprattutto meno offensivo per la salute pubblica, rispetto a chi, nonostante la positività al virus, decida di uscire per andare a fare la spesa presso un supermercato. E' plausibile che il primo soggetto incorra nell'imputazione per la contravvenzione di cui all'art. 260 R.D. 27 luglio 1934, n. 1265 (arresto da 3 mesi a 18 mesi e ammenda da euro 500 ad euro 5.000), mentre l'altro sia perseguibile per il delitto di epidemia colposa (reclusione da 1 a 5 anni).
E' chiaro che queste sono solo previsioni accademiche, ogni caso dovrà essere valutato distintamente, anche sotto il profilo dell'elemento soggettivo del reato: il soggetto positivo a quarantena che decida di andare in un supermercato senza mascherina ed inizi a tossire e starnutire, potrebbe essere indagato per epidemia dolosa perchè voleva diffondere intenzionalmente il virus (art. 438 c.p.).
Il legislatore ha dunque introdotto e definito i contorni di varie e differenti condotte, alcune decisamente irresponsabili e pericolose, altre che possono ritenersi superficiali, ma comunque perseguibili. In questo quadro normativo, sono state adattate le sanzioni penali al grado di offensività, di queste condotte, alla salute pubblica.
A fronte di questo intervento, non è stato contestualmente introdotto alcun adeguamento della normativa penale per le condotte del personale medico e sanitario in questa situazione emergenziale. Questi soggetti sono spesso esposti al pericolo di contagio e possono diventare, a loro volta, i principali veicoli di diffusione del virus.
Pur in assenza di protezioni (mascherine, occhiali etc), molti medici ed infermieri hanno continuato a lavorare prestando il loro contributo, pur consapevoli dei rischi che stavano correndo, sia per loro salute che per quella dei loro familiari o terze persone. Sono stati assunti nuovi medici, appena laureati, probabilmente inesperti alle pratiche di igiene, nonchè richiamati quelli già in pensione. Tutto questo personale ha assunto volontariamente (coscientemente) il rischio conseguente alle loro azioni "non protette".
Ebbene, all'esito dell'emergenza, è plausibile e ragionevole aspettarsi denunce e richieste di risarcimento nei loro confronti?
In questo periodo, si è già diffusa una polemica circa future azioni giudiziarie per colpa da contagio nei confronti del personale sanitario, ritenute da molti immorali.
Si comprende che lo scenario appare assurdo, perchè i medici e gli infermieri sono visti come eroi dalla stragrande maggioranza degli italiani, tuttavia non potranno essere sottovalutati i diritti di coloro che hanno perso un familiare, purchè fondati.
Di seguito, si focalizzerà l'attenzione sulle conseguenze penali che potranno coinvolgere il personale sanitario ed in particolare l'art. 590 sexies c.p., introdotto con la legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco), rubricato come "Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario".
Questo articolo del codice penale ha abrogato l'art. 3, 1° co., D.L. 13.9.2012, n. 158, convertito in L. 8.11.2012, n. 189, che escludeva la responsabilità per colpa lieve dell'esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, si attenesse a linee guida e buone pratiche approvate dalla comunità scientifica. E' stata pertanto esclusa la rilevanza tra colpa lieve e colpa grave nell'ambito della responsabilità professionale sanitaria, di conseguenza, sono penalmente rilevanti anche le condotte contrassegnate da colpa lieve.
Il secondo comma dell'art. 590 sexies stabilisce che se l'evento (lesioni o morte) si sia verificato a causa di imperizia, il medico non è punibile purchè siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida, ovvero, in mancanza di queste, siano state seguite le buone pratiche clinico-assistenziali. Dunque, questo comma parrebbe confermare che non è configurabile una colpa per imperizia quando la condotta del medico abbia rispettato linee guida contenenti regole di perizia, adeguate al caso concreto, o comunque le buone pratiche.
Per superare le difficoltà interpretative del concetto di colpa, sono subito intervenute le Sezioni Unite della Cassazione ed hanno chiarito che: "L'esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall'esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l'evento si è verificato per colpa (anche lieve) da negligenza o imprudenza; b) se l'evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia, quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l'evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l'evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell'esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell'atto medico" "(Cass. pen. Sez. Unite, 21/12/2017, n. 8770).
Gli artt. 3 e 5 della L. 24/17 hanno poi istituito un sistema di riconoscimento formale delle linee guida e delle buone pratiche mediche che assumono rilevanza nella valutazione della responsabilità colposa. La Suprema Corte ha puntualizzato che "nelle more pubblicazione delle linee guida di cui all'art. 5 della legge n. 24 del 2017, la rilevanza penale della condotta ai sensi dell'art. 590-sexies cod. pen. può essere valutata con esclusivo riferimento alle buone pratiche clinico assistenziali adeguate al caso concreto" (Cass. pen. Sez. IV Sent., 22/06/2018, n. 37794).
Ciò considerato, parrebbe che nessuna delle condizioni previste dall’art. 590 sexies c.p. e nessuna delle ipotesi formulate dalle Sezioni Unite possano ritenersi idonee ad evitare la responsabilità penale dei sanitari nella specificità dell’emergenza Covid-19, dal momento che parrebbero assenti delle linee-guida certificate e le buone pratiche clinico-assistenziali sono primordiali, vista la novità della patologia e la mancanza di terapie certe.
In conclusione, è forse necessario introdurre un’apposita disciplina tesa ad ampliare l’area di esonero da responsabilità colposa dei medici? Ciò anche per evitare che molti sanitari inizino a riflettere e a preoccuparsi per la propria salvaguardia, sia giudiziaria che economica?

Avv. Corrado Cocchi