Le “professioni” nell'Unione Europea. Nel passato un professionista, in possesso di un diploma acquisito nel proprio paese di origine, poteva vedersi precluso l’accesso e l’esercizio di un’attività professionale nel territorio dell’Unione europea perché sprovvisto del titolo riconosciuto dallo Stato di destinazione. Per porre rimedio a ciò, fu riconosciuta la competenza all’Unione di emanare direttive intese al reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli (art. 53 § 1 TFUE). Tale percorso di revisione ha preso le mosse dal Consiglio europeo di Stoccolma del marzo 2001, ove fu dato mandato alla Commissione di intraprendere le iniziative necessarie per l’instaurazione di «un sistema più uniforme, trasparente e flessibile di riconoscimento delle qualifiche professionali». A tal fine la Commissione elaborò, nel marzo del 2002, una proposta di direttiva, che fu adottata (direttiva 2005/36/CE) ed il cui termine di recepimento negli ordinamenti interni scadeva il 20 ottobre 2007. Tale direttiva si proponeva di raggruppare in un unico testo legislativo le direttive generali e settoriali, nonché di fissare le regole con cui uno Stato membro riconosce, per l’accesso alla professione e per il suo esercizio, le qualifiche professionali acquisite in Stati diversi. L’ambito di applicazione dello strumento normativo riguarda i cittadini comunitari che vogliano esercitare, come lavoratori subordinati o autonomi, una professione regolamentata in uno stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito le loro qualifiche professionali. Dall’applicazione della disciplina comunitaria in esame sono escluse le professioni non regolamentate ed i cittadini non comunitari, anche se stabiliti in un paese dell’Unione europea. 1 La direttiva 2005/36/CE non supera né stravolge il regime precedente ma codifica alcuni principi emersi nell’ambito della giurisprudenza comunitaria. Mentre permane l’obbligo, per lo Stato di accoglienza, di prendere in considerazione le qualificazioni ottenute dal soggetto in un altro Stato membro, al fine di valutarne l’eventuale equivalenza ed il principio di base per cui il riconoscimento delle qualifiche permette al beneficiario di accedere, nello stato membro ospitante, alla medesima professione per la quale è qualificato nel paese di origine, e di esercitarla alla medesime condizioni dei cittadini dello stato membro ospitante. Invece, la novità più significativa riguarda la previsione di una disciplina generale ad hoc per la libera prestazione di servizi professionali che abbia luogo in uno stato membro diverso da quello di provenienza del prestatore (titolo II, artt. 5-9). 2 La prima ipotesi di riconoscimento che tale direttiva prende in considerazione è quella relativa al professionista che presta occasionalmente servizi in uno stato diverso da quello di origine. Al riguardo, si prescrive che il prestatore possa esercitare la professione nello stato ospitante con il proprio titolo di origine e senza dover chiedere il riconoscimento. Ciò è possibile quando la prestazione ha carattere temporaneo ed occasionale ed il beneficiario è legalmente stabilito in uno stato membro o ha esercitato in esso la professione per almeno due anni nel corso dei dieci anni che precedono la prestazione di servizi (c.d.”principio del paese di origine”). Tale regime prevede due temperamenti: – il primo attiene alla valutazione dell’attività come temporanea ed occasionale, che è effettuata dal paese ospitante «in funzione della durata della prestazione stessa, della sua frequenza, della sua periodicità e della sua continuità» (art. 5.2., II parte); – il secondo limite riguarda il rispetto delle norme «di carattere professionale, legale o amministrativo, direttamente connesse alle qualifiche professionali. Tuttavia l’autorità dello Stato membro ospitante può esercitare altre forme di controllo sullo svolgimento della prestazione di servizi. Infatti, può esigere una dichiarazione scritta che riporti alcune informazioni sulla esistenza di una copertura assicurativa per la responsabilità professionale, nonché documenti attestanti la sussistenza dei requisiti per l’esercizio della professione; può procedere ad una verifica preventiva delle qualifiche professionali in possesso del prestatore al fine di evitare danni gravi per la salute o la sicurezza del destinatario del servizio (art. 7.4.) che possono concludersi con la necessità di sottoporre il prestatore ad una prova attitudinale. Infine, per garantire trasparenza e sicurezza, è previsto che lo Stato ospitante possa attivarsi per ottenere una serie di informazioni circa la legalità dello stabilimento e la buona condotta del prestatore, nonché l’assenza di sanzioni disciplinari o penali di carattere professionale. 3 Sono previsti tre regimi di riconoscimento delle qualifiche: 1. Per le professioni sanitarie e di architetto, il riconoscimento avviene in modo automatico (art. 21). 2. Per le qualifiche connesse ad attività industriali, commerciali ed artigianali il riconoscimento si ha in base al parametro dell’effettiva esperienza professionale maturata dal migrante nel paese di origine. 3. Per le professioni che non beneficiano dei regimi appena descritti , il legislatore comunitario configura un sistema che riconosce qualsiasi titolo di studio in base alla durata dello stesso. È stato introdotto, nel sistema della direttiva del 2005, un metodo basato sulla definizione, a livello europeo, di «piattaforme comuni», adottate con provvedimento della Commissione. Si tratta di insiemi di criteri caratterizzanti le qualifiche professionali ed idonei a colmare le differenze sostanziali individuate tra i requisiti in materia di formazione esistenti nei vari Stati membri per una determinata professione. La direttiva sul riconoscimento delle qualifiche professionali ha ricevuto attuazione nell’ordinamento italiano alla fine del 2007 attraverso il d.lgs. n.206/2007, il quale ha abrogato il d.lgs. 27.1.1992, n. 115 , il d.lgs. 2.5.1994, n.319 e il d.lgs. 20.9.2002, n. 229, che avevano recepito rispettivamente, le direttive 89/48/CEE, 92/51/CEE e 99/42/CEE. Il decreto, come la direttiva, contiene la disciplina relativa al riconoscimento delle qualifiche per lo stabilimento in Italia dei cittadini comunitari in possesso di titoli professionali che li abilitano, nello Stato di origine, all’esercizio della professione, nonché il regime per l’espletamento della libera prestazione di servizi. Attraverso il riconoscimento, il cittadino comunitario, se in possesso dei requisiti specificatamente previsti, può accedere in Italia alla professione per la quale è qualificato nel paese di origine ed esercitarla alle stesse condizioni previste dall’ordinamento italiano. Competenti a ricevere le domande di riconoscimento e a prendere le decisioni sono le autorità indicate nell’art. 5 tra le quali figurano alcuni Dipartimenti incardinati presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (Politiche giovanili e Turismo) e i Ministeri competenti per materia (ad es. il Ministero della Salute per le professioni sanitarie; il Ministero dell’Università per la professione di architetto). Quanto al regime della prestazione di servizi temporanea ed occasionale, il legislatore italiano conferma la possibilità che possa essere svolta da un professionista legalmente stabilito in un altro Stato membro; questi deve fornire alle autorità competenti, all’atto della prima prestazione, una dichiarazione scritta, che ha validità annuale, contenente informazioni sulla prestazione di servizi che intende svolgere e la copertura assicurativa. Nel caso di professioni regolamentate aventi ripercussioni in materia di pubblica sicurezza o di sanità pubblica è previsto che le medesime autorità possano procedere, all’atto della prima prestazione, ad una verifica delle qualifiche professionali del prestatore, nonché richiedere il superamento di una specifica prova attitudinale qualora vengano riscontrate differenze sostanziali tra la qualifica posseduta dal professionista e la formazione richiesta dalle norme italiane. Il decreto dà attuazione alla direttiva anche sotto il profilo del regime della libertà di stabilimento. Qui giova sottolineare che lo Stato italiano ha optato per subordinare il riconoscimento delle qualifiche per l’accesso alle professioni di avvocato, dottore commercialista, ragioniere e perito commerciale, consulente per la proprietà industriale, consulente del lavoro, attuario e revisore contabile, di maestro di sci e di guida alpina, al superamento di una prova attitudinale (art.22, d.lgs. n. 206/2007). Il sensibile aumento della domanda di servizi legali transnazionali ed il conseguente allargamento del mercato interno dei servizi e del relativo bacino di utenza hanno determinato la necessità di procedere, a livello comunitario e dei singoli ordinamenti nazionali, ad un ripensamento della figura dell’avvocato e della professione forense in genere. La liberalizzazione comunitaria di questa categoria si è dimostrata sin dall’inizio, di difficile attuazione ed ha conosciuto un percorso non scevro da incertezze ed ostacoli. Ciò in ragione delle peculiarità che connotano la professione forense rispetto alle altre professioni liberali sotto il profilo dei contenuti. Sin dalla formazione accademica l’Avvocatura è radicata nei rispettivi sistemi giuridici nazionali, tra loro spesso profondamente differenti (nell'Unione sono compresenti ordinamenti di civil law e common law). Questa evidenza ha reso impossibile al legislatore comunitario di seguire un approccio analogo a quello attuato per le professioni mediche e paramediche, la cui prima fase di liberalizzazione è avvenuta attraverso una armonizzazione degli standards di formazione. Le differenze sul piano professionale relative ai requisiti di accesso e di esercizio della professione, alle attività che la caratterizzano nonché alla organizzazione degli ordini professionali, non hanno facilitato un intervento del legislatore comunitario. Questo contesto ha indotto il legislatore a procedere in modo cauto, liberalizzando, in un primo momento, attraverso la direttiva 77/249/CEE, lo svolgimento della prestazione di servizi dell’avvocato europeo, la quale presenta un «minor impatto socio-economico», dal punto di vista della concorrenza, con i professionisti nazionali. In un secondo momento è stata introdotta la disciplina relativa al diritto di stabilimento dell’avvocato. La libertà di stabilimento e di prestazione di servizi sono state applicate grazie alla giurisprudenza comunitaria che ha riconosciuto effetto diretto agli artt. 49 e 56 TFUE con superamento delle barriere discriminatorie fondate sulla cittadinanza.4 L’attuazione della libertà di circolazione degli avvocati è avvenuta attraverso la direttiva 22.3.1977, n. 249, che impone agli Stati membri di riconoscere la qualifica di avvocati, limitatamente all’esercizio delle attività in regime di libera prestazione, a coloro che sono abilitati alla professione nel paese di provenienza. E’ precisato l’obbligo dell’avvocato-prestatore di servizi di operare avvalendosi del titolo professionale espresso nella lingua dello Stato di provenienza, con indicazione dell’organizzazione o dell’ordine cui si è iscritti (art. 3). Il legislatore delinea un regime diverso a seconda delle attività svolte. In ordine alle attività giudiziali è previsto che siano esercitate in ogni Stato membro ospitante alle condizioni previste per gli avvocati stabiliti in questo Stato, ad esclusione di ogni condizione di residenza o d’iscrizione ad un’organizzazione professionale nello stesso Stato. Nell’ipotesi di esercizio di attività stragiudiziali, l’avvocato resta sottoposto alle condizioni dello Stato membro di provenienza. Per le attività giudiziali il rigore è maggiore, essendo recepito il principio della c.d. «doppia deontologia»: l’avvocato è tenuto a rispettare le regole professionali dello Stato membro ospitante, nonché gli obblighi imposti dallo Stato membro di provenienza. Il suddetto principio subisce un temperamento nel caso di esercizio di attività extragiudiziali: al professionista continuano ad applicarsi le norme di condotta dello stato di origine, fatto salvo il rispetto delle norme che disciplinano la professione nello Stato membro ospitante (l’incompatibilità fra l’esercizio delle attività di avvocato e quello di altre attività, il segreto professionale, il carattere riservato dei rapporti tra colleghi, il divieto per uno stesso avvocato di assistere parti che abbiano interessi contrapposti e la pubblicità). Il cumulo delle regole professionali genera non poche difficoltà interpretative, soprattutto qualora le disposizioni degli Stati siano in contrasto tra loro. Con riferimento alle attività giudiziali, l’art. 5 della direttiva identifica altri obblighi che gli Stati membri hanno la facoltà di imporre all’avvocato comunitaro: l’«essere introdotto» presso il presidente della giurisdizione e, eventualmente, presso il presidente dell’ordine degli avvocati competente nello Stato membro ospitante, e l’«agire di concerto» con un avvocato che eserciti dinanzi alla giurisdizione adita e che sarebbe in caso di necessità responsabile nei confronti di tale giurisdizione. Quanto all’ipotesi di inadempienza agli obblighi vigenti nello Stato membro ospitante, è previsto che l’autorità competente di quest’ultimo ne determini le conseguenze, secondo le proprie norme di diritto e di procedura; tale autorità può altresì farsi comunicare informazioni professionali utili sul prestatore, nonché esigere documenti comprovanti la qualità di avvocato (art. 7). Nella direttiva in esame le istituzioni comunitarie si sono impegnate per facilitare l’accesso e l’esercizio della professione forense attraverso il riconoscimento della autorizzazione ad esercitare, lasciando considerevoli spazi di manovra agli Stati membri. Questi, nel recepire la direttiva, hanno per lo più tenuto un atteggiamento prudente verso la liberalizzazione, avvalendosi di ogni eccezione prevista dalla disciplina comunitaria: in particolare tutte le legislazioni nazionali hanno introdotto l’obbligo di concertazione, che è stato oggetto di alcuni interventi della Corte di Lussemburgo. 5 La normativa italiana di recepimento della direttiva 77/249/CEE, di cui alla l. 9.2.1982, n. 31, ha impegnato la Corte di Giustizia europea nella nota sentenza Gebhard. La controversia traeva origine dalla vicenda del sig. Gebhard il quale, dopo aver lavorato per un certo periodo di tempo all’interno di uno studio legale di Milano, decideva di aprire un proprio studio. Dopo qualche tempo, Gebhard, veniva sottoposto ad un procedimento disciplinare avviato dal competente Consiglio dell’Ordine per violazione dell’art. 2, 2° c., l. n. 31/1982 che stabiliva che l’avvocato straniero che intendeva prestare servizi in Italia non poteva stabilire nel territorio della Repubblica né uno studio né una sede principale o secondaria. La Corte ritenne che il carattere temporaneo delle attività professionali deve essere valutato non soltanto in rapporto alla durata della prestazione, ma anche tenendo conto della frequenza, periodicità o continuità di questa. Ciò implica che il carattere temporaneo della prestazione non esclude la possibilità per il prestatore di dotarsi, nello Stato membro ospitante, di una determinata infrastruttura (ivi compreso un ufficio o uno studio) «se questa infrastruttura è necessaria al compimento della prestazione di cui trattasi». La norma intendeva vietare la presenza permanente di un complesso di elementi organizzativi che, pur nei periodi di assenza fisica dell’avvocato ne garantivano la «costante presenza sul mercato». La Corte affronta una seconda questione relativa alle condizioni ed ai limiti dello stabilimento del professionista, i giudici chiariscono che l’attività svolta da Gebhard rientrava senza dubbio nel campo di applicazione delle disposizioni del Trattato comunitario relative alla libertà di stabilimento; egli era soggetto alla regola del trattamento nazionale, in virtù della quale era equiparato, per tutti gli aspetti connessi all’esercizio della professione, ai cittadini dello Stato ospitante. Tale considerazione è la base che permette alla Corte di Giustizia di affermare il principio per cui «la possibilità per un cittadino di uno Stato membro di esercitare il suo diritto di stabilimento e le condizioni dell’esercizio di questo diritto devono essere valutate in funzione delle attività che egli intende esercitare nel territorio dello Stato membro ospitante». A questo punto, continua l’organo giudicante, occorre distinguere tra attività non soggette ad alcuna disciplina nello Stato ospitante, per l’esercizio delle quali il cittadino migrante avrà diritto di stabilirsi nel territorio senza dover dimostrare alcun requisito e attività il cui esercizio è subordinato al rispetto di alcune condizioni che devono essere soddisfatte dal cittadino di un altro Stato membro. 6 La sentenza Gebhard ha visto la Corte di Giustizia aderire ad una interpretazione estensiva del concetto di stabilimento dei cittadini di altri Stati membri, che trae spunto dalla considerazione dei limiti che allora caratterizzavano la libertà di stabilimento degli avvocati all’interno dell’Unione europea; infatti, le problematiche giuridiche ad essa sottese saranno recepite dalla direttiva 98/5/CE, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica. Tale direttiva è una importante tappa verso l’affermazione della figura dell’avvocato europeo. L’adozione di questo strumento rappresenta, infatti, il punto di arrivo di un lento, ma necessario procedimento di liberalizzazione della professione forense a livello comunitario, cui ha contribuito soprattutto la giurisprudenza comunitaria. L’esigenza di una regolamentazione del diritto di stabilimento degli avvocati era nota da tempo, ed era stata soddisfatta, solo in parte, con l’emanazione della direttiva 89/48/CEE sul reciproco riconoscimento dei diplomi. La direttiva del 1989, sostituita dalla direttiva 2005/36/CE, consentiva ai professionisti, dopo un periodo di tirocinio e previo superamento di una prova attitudinale, di acquisire il titolo professionale dello Stato membro ospitante, integrandosi completamente nell’ordine professionale, ed ivi di esercitare liberamente la propria attività. Sennonché questo apparato non rispondeva alle aspirazioni degli avvocati di svolgere in modo stabile la professione in un paese diverso da quello ove avevano acquisito il titolo professionale. Il sistema generale di reciproco riconoscimento dei diplomi, non regolamentava l’esercizio permanente della libera professione con il titolo del paese di origine, e la prova attitudinale, svolgendosi in modo differente nei vari Stati membri, dava luogo a forti discriminazioni. La direttiva 98/5/CE colma le lacune evidenziate e si pone come obiettivo quello di facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato, come libero professionista o come lavoratore subordinato, in uno Stato membro diverso da quello nel quale è stata acquisita la qualifica professionale, utilizzando il titolo di origine. L’art. 2, direttiva 98/5/CE sancisce il diritto degli avvocati di esercitare stabilmente la professione in tutti gli Stati membri avvalendosi del proprio titolo professionale di origine, previa iscrizione presso l’autorità competente dello Stato ospitante. Pertanto, il professionista, dopo aver acquisito il titolo professionale, può stabilirsi per l’esercizio dell’attività in uno Stato membro diverso, spendendo il titolo già acquisito. Si parla in proposito di «avvocato stabilito», il quale svolge le stesse attività professionali dell’avvocato in possesso del titolo rilasciato dal paese di accoglienza e può offrire consulenza legale sul diritto del proprio Stato membro d’origine, sul diritto comunitario, sul diritto internazionale e sul diritto dello Stato membro ospitante. Sennonché pare eccessivo che il soggetto in questione possa, fin da subito, prestare consulenza legale sul diritto del Paese ospitante, senza che gli venga imposto di formarsi in tale settore, né che la sua preparazione venga precedentemente valutata. La liberalizzazione non è però completa, poiché il legislatore riconosce agli Stati la possibilità di introdurre due limitazioni all’esercizio professionale. In primo luogo, i paesi che autorizzano una determinata categoria di avvocati a redigere sul loro territorio atti che conferiscono il potere di amministrare i beni dei defunti o riguardanti la costituzione o il trasferimento di diritti reali immobiliari, che in altri Stati membri sono riservati a professioni diverse da quella dell’avvocato (i notai), possono escludere da queste attività l’avvocato che esercita con il titolo professionale di origine. In secondo luogo, per quanto riguarda l’esercizio delle attività relative alla rappresentanza ed alla difesa di un cliente in giudizio, e nella misura in cui il diritto nazionale riservi tali attività agli avvocati che esercitano con un titolo professionale dello Stato membro ospitante, è data facoltà agli Stati membri di imporre l’obbligo di agire di concerto con un avvocato locale, chiamato ad assumere le responsabilità nei confronti della giurisdizione adita. 7 La disciplina che regola l’esercizio stabile dell’attività dell’avvocato presenta un altro punto di contatto con quella prevista per l’avvocato-prestatore di servizi: si tratta dell’applicazione del principio c.d. della “doppia deontologia”. L’art. 6, direttiva 98/5/CE, stabilisce che l’avvocato che esercita con il proprio titolo professionale d’origine è soggetto alle stesse regole professionali e deontologiche cui sono soggetti gli avvocati che esercitano col corrispondente titolo professionale dello Stato membro ospitante, incluse quelle relative ai procedimenti disciplinari. Prima di avviare un procedimento disciplinare l’autorità competente dello Stato membro ospitante dovrà darne comunicazione a quella dello Stato membro di origine; tale obbligo vale anche nel caso inverso. La disciplina impone una stretta collaborazione tra autorità in materia di procedimenti disciplinari a carico degli avvocati. La grande innovazione contenuta nella direttiva è quella relativa alla creazione della figura dell’avvocato c.d. “integrato” o “assimilato”, intendendosi come tale colui che, già in possesso di un titolo professionale acquisito nel Paese di origine, acquista automaticamente il titolo dello Stato membro ospitante. Ciò può avvenire in tre casi. Nel primo caso l’avvocato che comprovi l’esercizio per almeno tre anni di un’attività effettiva e regolare nello Stato membro ospitante – riguardante il diritto di tale Stato, ivi compreso il diritto comunitario –, può accedere alla professione di avvocato dello Stato membro ospitante senza sottoporsi all’espletamento delle misure compensative (prova attitudinale o tirocinio di adattamento) previste dalla direttiva 89/48/CEE ed oggi riportare nell’art.14.1., direttiva 2005/36/CE. 8 L’avvocato comunitario che intenda avvalersi di questa procedura di assimilazione dovrà provare all’autorità competente dello Stato di accoglienza la sussistenza dei suindicati presupposti. A tal fine potranno essergli richiesti informazioni e documenti utili, in particolare sul numero e la natura della pratiche trattate. Questo meccanismo esclude ogni controllo sulla preparazione professionale dell’avvocato comunitario poiché si basa sulla presunzione che una pratica triennale del diritto nazionale sia garanzia sufficiente del grado di integrazione del professionista nell’ordinamento giuridico di accoglienza. Nel secondo caso, l’assimilazione può avvenire attraverso la procedura di riconoscimento del titolo di cui alla direttiva 89/48/CEE, che permette di accedere alla professione di avvocato dello Stato membro ospitante e di esercitarla con il titolo professionale corrispondente. Infine, potrà ottenere l’accesso alla professione nello Stato di accoglienza anche l’avvocato che vanti una pratica del diritto di detto Stato di durata inferiore a tre anni, ma che abbia complessivamente svolto attività effettiva e regolare per un triennio. In questo caso l’autorità competente dello Stato membro ospitante deve valutare – attraverso un colloquio di accertamento – il carattere regolare ed effettivo dell'attività esercitata dal professionista. L’avvocato che ha ottenuto l’accesso alla professione attraverso l’utilizzo di una delle tre forme di assimilazione previste dalla direttiva, acquisisce il diritto di fare uso del titolo professionale dello Stato ospitante, nonché di quello di origine nella lingua di detto Stato. Con l’istituto dell’integrazione si realizza l’obiettivo dell’attuazione del diritto di libertà di stabilimento degli avvocati europei. 9 La direttiva 98/5/CE e la relativa normativa di attuazione delineano la figura dell’avvocato europeo, il quale circola liberamente all’interno dell’Unione europea, si stabilisce in uno Stato membro diverso da quello di origine, e ivi esercita la professione con il titolo acquisito, ed eventualmente si assimila con i professionisti dello Stato ospitante, avvalendosi del loro titolo professionale. Le diverse ipotesi di stabilimento che la direttiva consente accentuano la frammentarietà delle forme di esercizio transfrontaliero della professione forense, che vanno dall’avvocato stabilito, a quello prestatore di servizi con o senza infrastruttura, oppure all’avvocato con stabilimento secondario. Tale diversificazione, se da un lato garantisce maggiore flessibilità ai professionisti, dall’altro aggrava il rischio di abusi e di elusioni della disciplina posta a tutela del destinatario finale del servizio.10 La procedura per la dispensa – che si svolge dinanzi al Consiglio dell’Ordine presso il quale l’avvocato stabilito è iscritto – esclude ogni momento di controllo sulla preparazione del professionista comunitario, e si basa sul presupposto che la pratica triennale del diritto nazionale offra sufficienti garanzie per l’integrazione del soggetto. Nel caso in cui l’attività svolta nel diritto nazionale dall’avvocato stabilito risulti essere di durata inferiore al triennio, la dispensa dalla prova attitudinale non è automatica ma è necessario che il professionista sia sottoposto ad un colloquio dinanzi al Consiglio dell’ordine finalizzato a valutare l’operato svolto, nonché le conoscenze e le esperienze professionali acquisite nel diritto italiano. 11 Note: 1) L’esclusione dal campo di applicazione della direttiva dei cittadini extracomunitari è opinabile, poiché ad essi, qualora abbiano soggiornato legalmente ed ininterrottamente per cinque anni nel territorio dell’Unione europea, la direttiva 2003/109/CE, garantisce parità di trattamento con i cittadini comunitari per quanto riguarda il riconoscimento di diplomi, certificati e altri titoli professionali. 2) Il legislatore identifica la «libera prestazione di servizi» sulla scorta di criteri individuati dalla Corte di Giustizia: durata, frequenza, periodicità e continuità della prestazione esercitata in via temporanea. Essa si distingue quindi dalla «libertà di insediamento», la cui disciplina è contenuta nel titolo III della direttiva. 3) La medesima esigenza sottende alla previsione per cui il prestatore deve fornire al destinatario del servizio particolari informazioni (iscrizioni a registri pubblici, partita I.v.a., copertura assicurativa – art.9, direttiva 2005/36/CE). 4) Il problema della libertà di stabilimento si è presentato nel caso Reyners conclusosi con l’affermazione della diretta applicabilità dell’art. 52 (poi art. 43) del Trattato e con il riconoscimento del diritto di stabilimento quale diritto immediatamente azionabile in giudizio. Il sistema delineato dal Trattato in tema di libertà di stabilimento dei professionisti e di libera prestazione di servizi ha dunque usufruito dell’apporto interpretativo della giurisprudenza comunitaria formatasi sulla professione forense; tuttavia la liberalizzazione di quest’ultima non poteva prescindere da un intervento delle istituzioni comunitarie. Al riguardo si sono sviluppati due filoni normativi, l’uno relativo al riconoscimento dei diplomi, l’altro volto a facilitare l’esercizio comunitario della professione di avvocato. 5) Per quel che concerne la nozione di «concerto», si segnala la pronuncia emanata nel procedimento avviato sul ricorso per infrazione promosso dalla Commissione europea nei confronti della Germania, all’esito del quale è stata ritenuta contraria agli obblighi previsti dalla direttiva la previsione, contenuta nella legge di recepimento tedesca, che imponeva all’avvocato dell’altro stato membro, per l’esercizio delle attività concernenti la rappresentanza e la difesa di un cliente in giudizio in regime di prestazione di servizi, di agire di concerto con un avvocato locale, anche nei casi in cui il diritto nazionale non prescriveva l’assistenza obbligatoria di un avvocato. 6) I provvedimenti nazionali che subordinano l’accesso ad alcune attività e che, di fatto, ostacolano l’esercizio delle libertà fondamentali del Trattato, sono tollerati se soddisfano quattro condizioni: devono applicarsi in modo non discriminatorio, essere giustificati da motivi di interesse pubblico, essere idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo. 7) Con l’imposizione della formula del «concerto» con il professionista locale il legislatore comunitario ha inteso evitare il sorgere di una disparità di trattamento tra questi ultimi e l’avvocato stabilito nello Stato membro ospitante, in merito alla possibilità di compiere attività di rappresentanza e difesa in giudizio. 8) Per attività effettiva e regolare il legislatore comunitario intende l’esercizio reale dell’attività senza interruzioni che non siano quelle dovute agli eventi della vita quotidiana. Tale definizione, che esclude un esercizio con carattere di «permanenza», appare coerente con la giurisprudenza della Corte di Giustizia che, nella sentenza Klopp, ha precisato che il diritto di stabilimento comporta la possibilità di istituire e mantenere più di un centro di attività per l’esercizio della professione legale in Europa. 9) La direttiva n. 5 del 1998 si occupa altresì dell’esercizio in forma comune della professione. Sono esplicitate tre possibili forme di cooperazione. La prima riguarda l’ipotesi di uno o più avvocati, membri di uno stesso studio collettivo nello Stato membro di origine ed esercenti l’attività col proprio titolo professionale di origine in uno Stato membro ospitante. La seconda forma di cooperazione prevede che ogni Stato membro garantisca la possibilità a due o più avvocati provenienti dal medesimo studio collettivo o dallo stesso Stato membro d’origine di accedere con il titolo professionale di origine ad una forma d’esercizio in comune della professione, nonché a tutte le forme di esercizio in comune della professione consentite dall’ordinamento dello Stato membro ospitante, assoggettandosi alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che in esso disciplinano le modalità di esercizio in comune della professione. Infine lo Stato membro ospitante può autorizzare l’esercizio in forma associata fra più avvocati provenienti da Stati membri diversi che esercitano con il loro titolo professionale di origine, o fra uno di questi avvocati e uno o più avvocati dello Stato membro ospitante. 10) La Corte di Giustizia ha fornito un giudizio positivo sui contenuti della direttiva in questione, ribadendone la piena validità. La pronuncia è stata resa dai giudici comunitari nell’ambito di un procedimento avviato su ricorso del Granducato di Lussemburgo che riscontrava nella direttiva una disparità di trattamento tra avvocati cd. migranti e avvocati nazionali a sfavore di questi ultimi, nonché la lesione dell’interesse generale relativamente alla protezione dei consumatori e ad una buona amministrazione della giustizia. La Corte di Giustizia ha escluso la violazione del principio di uguaglianza giacché le posizioni dell’avvocato migrante che esercita con il suo titolo professionale d’origine e dell’avvocato locale, non sono paragonabili: al primo infatti, possono essere interdette alcune attività (art. 5.2., direttiva 98/5/CE) e possono essere imposti alcuni obblighi (art. 5.3.). L’attuazione della direttiva 98/5/CE nell’ordinamento italiano è avvenuta con il d.lgs. 2.2.2001, n. 96, emanato sulla base della delega contenuta nell’art. 19 della legge comunitaria 1999 (l. 21.12.1999, n. 526). Il testo approvato non si discosta dalle linee fondamentali tracciate in sede europea: l’esercizio permanente della professione forense in Italia è consentito a tutti i cittadini dell’Unione europea attraverso le figure dell’avvocato stabilito e dell’avvocato integrato. Il primo esercita la professione con il titolo professionale acquisito nello Stato di origine; egli è tenuto ad iscriversi in una sezione speciale dell’albo costituito nella circoscrizione del tribunale in cui ha fissato la residenza o il domicilio professionale e, nell’attività in giudizio, deve agire d’intesa con un professionista italiano abilitato a svolgere la professione di avvocato (artt. 6-11, d.lgs. n. 96/2001). Dopo tre anni di esercizio effettivo e regolare dell’attività forense in Italia, nonché di iscrizione alla sezione speciale dell’albo, l’avvocato stabilito può ottenere la dispensa dalla prova attitudinale prevista dall’art. 8, d.lgs. n. 115/1992, attuativo della direttiva 89/48/CEE sul riconoscimento dei titoli di studio (ora art. 11, direttiva 2005/36/CE) ed iscriversi all’albo degli avvocati. Egli dunque diventa «integrato» e può esercitare la sua attività anche con il titolo di avvocato italiano (artt. 12-15). Lussemburgo richiamando le disposizioni della direttiva che enunciano norme volte alla protezione dei consumatori e ad una buona amministrazione (artt. 4, 5.1., 5.2., 6.1., 6.3., 7). Peraltro, ha constatato la Corte, il legislatore comunitario non ha soppresso l’obbligo di conoscenza del diritto nazionale applicabile ma, per favorire la libertà di stabilimento degli avvocati, ha preferito adottare una formula che prevede una assimilazione progressiva delle conoscenze mediante la pratica, anziché un controllo preventivo del possesso di tali conoscenze. 11) La principale novità del d.lgs. n. 96/2001 è contenuta nel titolo II, nel quale si disciplina l’esercizio della professione di avvocato in forma societaria. 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