Il caso non è infrequente. L'acquirente (che può essere privato o società)  stipula un preliminare con il costruttore (che può essere, o non essere, il proprietario dell’area) per la realizzazione di un immobile entro un certo termine; vi è la specifica pattuizione che qualora la costruzione non abbia raggiunto un dato stato di avanzamento (tipicamente l’ultimazione del grezzo) entro una certa data, stabilita in contratto come “essenziale” ai sensi dell’art.1457 c.c., si avrà automaticamente la risoluzione del contratto e quindi la restituzione della caparra già versata, e di un ulteriore pari importo a titolo di penale (artt.1385 e 1386 c.c.). A fronte della caparra, il promittente la vendita presta fideiussione ai sensi del d.lgs.122/05  a garanzia della corretta esecuzione finale di lavori.
I lavori procedono  a rilento e/o con lunghi intervalli (circostanza tutt’altro che rara); ad un certo punto l'acquirente, allertato dai suoi tecnici, arriva alla conclusione che la data di ultimazione dell'opera non potrà più essere rispettata, neppure per un’improvvisa (quanto improbabile) resipiscenza dell’impresa. L'accumulo dei ritardi (rispetto allo stato di avanzamento lavori previsto dalle parti) è dunque tale da rendere irrealistico il rispetto del termine “essenziale” indicato sopra.
In questo caso sarebbe naturale, per l’acquirente, recedere dal contratto e ottenere la restituzione del doppio della caparra (art. cit.). Senonchè il venditore si oppone in quanto il termine finale essenziale ivi previsto non è ancora decorso, e dunque l’invocato art. 1457 c.c. non sarebbe applicabile, mentre sarebbe illegittimo il recesso dell’acquirente, recesso che giustificherebbe, al contrario di quanto sperato dall’acquirente, la ritenzione della caparra a favore del venditore.  In questa prospettiva, all’acquirente non resterebbe altro che attendere l’inutile spirare del termine, e solo allora risolvere il contratto e agire in via monitoria per la restituzione del doppio della caparra. Il problema che si pone sul lato dell'acquirente, è quindi quello di disfarsi del vincolo contrattuale anche prima del termine pattuito (ultimazione del ‘grezzo’) senza perdere la caparra (e anzi, se possibile, lucrare il doppio della caparra a titolo risarcitorio).  
Nel frattempo, si può dare caso che il costruttore-venditore rischi di entrare in situazione pre-fallimentare, o che la fidejussione prestata risulti di fatto non utilizzabile contro l’istituto fidejussore, per via dei vincolismi tecnici inerenti le garanzie speciali previste dal cit. d.lgs.122/05.
A districare la situazione, occorre esumare alcuni principi civilistici spesso negletti. Innanzitutto, la differenza fra “mora semplice” e “mora qualificata”.  Quando il “termine essenziale” è scaduto, la risoluzione contrattuale è “automatica” (salvo gli effetti della dichiarazione del creditore, entro i 3 gg. successivi di cui all’art.1457 c.1): in tale caso, il momento estintivo del rapporto, nonché il sorgere del credito risarcitorio, sono entrambi effetti automatici e immediati; in questo senso il venditore è costituito in mora qualificata, cioè appunto definita nel suo sorgere e nella sua entità.  Quando il termine non è scaduto, non vi sarà inadempimento “qualificato”, ma questo non esclude tuttavia la possibilità di riconoscere un inadempimento “semplice”, ovvero privo di presupposti certi di tempo e di fatto; l’inadempimento semplice insomma impone una valutazione fattuale (tempo trascorso ed entità dell’inadempimento) che, se non riconosciuta concordemente dalle parti, necessiterà di una valutazione giudiziale (o peritale o arbitrale).
La particolarità della fattispecie che andiamo esaminando, tutta dentro a una zona grigia del codice civile (e a mente  della sopraestesa teorica delle due forme di inadempimento, “semplice” e “qualificato”) è che da una parte non vi è mora qualificata (il termine infatti non è ancora trascorso) dall’altra l’inadempimento, pur non essendosi ancora consumato, è tuttavia obiettivamente previsto come certo e ineludibile.
Intanto, non si può fare a meno di osservare che sarebbe del tutto irrazionale (ed economicamente dannoso) costringere l’acquirente ad attendere il termine previsto in preliminare, quando l’inadempimento (futuro) sia già certo.  Il codice civile non affronta specificamente questa criticità, ma un’ interpretazione logico-sistematica dei principi positivi permette di superare l’ostacolo e dare corretta tutela all’acquirente che voglia “sganciarsi” da un preliminare senza futuro.
Innanzitutto, il noto principio “inadimplenti non est adimplendum” (art.1460 c.c.) stabilisce un principio di “spegnimento” del contratto “anche prima” del naturale spirare di un termine: non c’è bisogno di attendere il termine finale per rifiutare la propria prestazione, quando l’altro non sia disposto o capace di offrire la propria.  Siamo in ambito di inadempimento semplice, ovvero rilasciato alla ponderazione delle parti, senza automatismi.  L’art.1461 c.c. del pari pone un’ulteriore causa giustificativa dello spegnimento del contratto, “anche senza” un vero inadempimento, consistente nel deterioramento della solvibilità dell’altro contraente: anche qui, lo scioglimento può avvenire nella “semplice constatazione” che l’altro contraente sia “a rischio” di inadempimento.
Infine vi è un argomento a fortiori: se è vero che in generale l’obbligazione si estingue quando la realizzazione dell’immobile è divenuta impossibile per “fatto non imputabile” al costruttore (art.1256 c.c.), a maggior ragione l’obbligazione reciproca dovrà estinguersi, quando la prestazione è divenuta impossibile per “fatto imputabile” al costruttore; nel caso che ci occupa, è evidente quindi che la prospettiva certa di un definitivo inadempimento colpevole del venditore, giustifica certamente la risoluzione immediata del preliminare, con la restituzione del doppio della caparra.    
Ovviamente, rimane tutto il problema probatorio, in caso di contestazione, di comprovare l’obiettiva impossibilità futura di completare il grezzo nel termine essenziale prefissato.
avv.Enrico Gorini
Rimini