Finalmente, dopo che da tempo gli altri Paesi europei già vi avevano provveduto, anche l’Italia con la legge 9 gennaio 2004 ha rivisitato questa materia. La nuova disciplina, inserita nel libro I, titolo XII, capi I e II del codice civile, introduce la misura dell’amministrazione di sostegno (artt. 404-413 cod. civ.) e apporta dei ritocchi all’interdizione e l’inabilitazione (artt. 414-433 cod. civ.).
Le misure, diventate tre, hanno effetti diversi sulla capacità di agire.
Nell’amministrazione di sostegno la persona menomata o inferma viene sostituita nel compimento di determinati atti e assistita nel compimento di altri atti da un amministratore, mentre conserva la capacità di agire per tutti gli altri atti (art. 405, comma 5, cod. civ.).
 

Nell’interdizione la persona abitualmente inferma di mente è sostituita da un tutore nel compimento degli atti che la concernono, con l’eccezione degli atti di ordinaria amministrazione che sia stata autorizzata a compiere senza l’intervento o con l’assistenza del tutore (art. 427, comma 1, cod. civ.).
Nell’inabilitazione la persona soggetta non può compiere senza l’assistenza di un curatore gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, ma può essere autorizzata a compiere alcuni atti senza tale assistenza (art. 427, comma 1, cod. civ.).

Pertanto il beneficiario nell’amministrazione di sostegno conserva una generale capacità di agire, meno per gli atti per i quali un giudice ha deciso che debbano essere compiuti con la rappresentanza esclusiva o l’assistenza dell’amministratore, mentre il beneficiario dell’interdizione o dell’inabilitazione ha una capacità di agire annullata o ridotta in via generale, salvo per gli atti permessi da un giudice.
L’amministrazione di sostegno è meno mortificante delle capacità di agire rispetto all’interdizione e può determinare una riduzione della capacità di agire più lieve dell’inabilitazione, per esempio quando l’amministratore è nominato per il compimento di un singolo atto di ordinaria o straordinaria amministrazione.
Le linee della nuova disciplina rispondono alle moderne concezioni di trattamento delle persone disabili.
Dall’obiettivo della privazione dei diritti, riducendo l’interdetto a una “non persona”, si passa a dare alla persona un sostegno nelle sue disabilità e a riconoscere le sue capacità residue.
Le misure di protezione hanno contenuti flessibili, adattati nel momento iniziale e in ogni momento successivo alle disabilità diverse e variabili e ai conseguenti bisogni di protezione di ciascuna persona, con la rinuncia a tracciare istituti giuridici uguali per tutti e stabili nel tempo. L’amministrazione di sostegno ha la maggiore flessibilità, poiché consente di ritagliare un vestito disegnato secondo le esigenze della singola persona, offrendole delle aree e dei momenti di protezione come e quando si rivela necessario, senza arrivare mai ad una totale esclusione della sua capacità di agire.
Si allarga l’area dei beneficiari potenziali delle misure di protezione: essi sono non solo le persone in condizione di abituale infermità di mente, ma anche tutti coloro che, per effetto di un’infermità ovvero una menomazione fisica o psichica, sono privi in tutto o in parte di autonomia nello svolgimento delle funzioni della vita quotidiana (art. 1 legge n. 6/2004), trovandosi per questo motivo nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi. In questo modo le misure diventano uno degli strumenti delle politiche sanitarie e assistenziali di uno Stato sociale verso i soggetti deboli.
Nella scelta delle misure e nella determinazione dei loro contenuti ci si deve prefiggere “la minore limitazione possibile della capacità di agire” (art. 1 legge n. 6/2004), assicurando una invasività limitata alle reali necessità della persona. Esse si attivano quando sono necessarie per assicurare ad una persona disabile una protezione di fronte ad un danno attuale o temuto e va preferita la misura più leggera sufficiente a assicurare tale protezione. Perciò non si deve sottoporre ad una misura di protezione chi, affetto da una menomazione o un’infermità che gli impedisce in qualche modo di provvedere a se stesso, è già protetto perché è seguito e curato dai suoi familiari e non è necessario che a suo vantaggio sia attivata una rappresentanza sostitutiva per qualche attività specifica o in via generale. Ciò perfino nei casi più gravi di decadimento progressivo delle facoltà mentali, connotati da perdita della memoria o della capacità critica, indifferenza affettiva, tendenza alla perdita di ogni interesse e riduzione dell’attività motoria fino al totale immobilismo, in persone anziane o in persone colpite dal morbo di Alzheimer. In questo senso devono essere lette le disposizioni che la persona può essere assistita da un amministratore di sostegno (art. 404 cod. civ.) e che le persone possono essere interdette (art. 414 cod. civ.) o inabilitate (art. 415 cod. civ.). Significativa è la modifica relativa all’interdizione apportata nell’art. 414 cod. civ.: in precedenza le persone in condizione di abituale infermità di mente che le rende incapaci di provvedere ai propri interessi dovevano essere interdette; oggi esse “possono essere interdette” “quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione”.
Si vuole evitare, anche con una nuova terminologia, che la soggezione alle misure sia avvertita come un marchio negativo che produce sofferenza nei beneficiari e nei loro familiari. La rubrica del titolo XII del libro primo del codice civile, che contiene la materia, parla di “misure di protezione” destinate alle “persone prive in tutto o in parte di autonomia”; i nomi “amministratore” e “amministrazione” hanno un significato neutro che non definisce negativamente il beneficiario mentre il “sostegno” evidenzia la finalità positiva di aiuto alla persona. Purtroppo sono rimasti i vocaboli “interdizione” e “inabilitazione” che conservano un senso comune di annullamento o limitazione della capacità di agire.
Divenute tre le caselle delle misure di protezione per le persone totalmente o parzialmente prive di autonomia, occorre determinare quale scegliere per ogni situazione.
La questione è importante perché l’amministrazione di sostegno, l’interdizione e l’inabilitazione sono disegnate come alternative: si è sottoposti a amministrazione di sostegno, ovvero interdetti, ovvero inabilitati. Se una persona è già interdetta o inabilitata, perché possa applicarsi l’amministrazione di sostegno deve revocarsi l’interdizione o inabilitazione (art. 406, comma 2, cod. civ.) e viceversa si chiude l’amministrazione se, a seguito di interdizione o inabilitazione, si arriva alla nomina di un tutore o curatore (art. 413, comma 4, cod. civ.).
Inoltre, se è vero che il legislatore ha previsto degli “scambi” di binari a procedure iniziate (passaggio dalle procedure di interdizione o inabilitazione all’amministrazione di sostegno, art. 418, ult. comma cod. civ.; informazione del giudice tutelare al pubblico ministero perché si proceda ad interdizione o inabilitazione, art. 413, comma 4 cod. civ.) è sempre meglio partire subito verso la destinazione che più risponde ai bisogni della persona interessata.
In linea generale l’amministrazione di sostegno va considerata la misura di protezione ordinaria. Essa è la più appropriata perché può essere costruita come risposta ai bisogni più diversi di ogni persona privata o limitata nell’autonomia e perché costituisce la misura di protezione esclusiva per la maggior parte delle situazioni. Non casualmente il legislatore ha collocato la sua disciplina nel codice civile al primo posto (artt. 404-413), precedendo l’interdizione e l’inabilitazione (artt. 414-432) e ha obbligato i responsabili dei servizi sanitari e sociali quando ne ricorrono le condizioni a proporre ricorso o segnalazione per promuoverla (art. 406, comma 3, cod. civ.) mentre non li ha legittimati al ricorso per l’interdizione o l’inabilitazione.
L’amministrazione di sostegno è destinata alla persona che, per effetto di una infermità o una menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi (art. 410 cod. civ.). I suoi presupposti sono perciò due: la malattia o la menomazione e l’impossibilità conseguente a tale stato di provvedere ai propri interessi. Ciascuno dei presupposti, da solo, non è sufficiente, e il primo deve essere causa del secondo.
L’infermità consiste in una compromissione del normale stato funzionale dell’organismo avente la più varia natura (vi rientrano di disturbi della personalità e i disturbi psicotici) e dovuta ai più diversi fattori causali (origine genetica, congenita, da agenti esterni, da malnutrizione o mancanza di cure, psicogena o legata alla senescenza, ecc.) mentre la menomazione comprende mutilazioni, lesioni, condizioni di handicap fisico o psichico. È essenziale che l’infermità o la menomazione siano di natura e portata tale da compromettere, temporaneamente o definitivamente, parzialmente o totalmente, l’autonomia della persona nel provvedere ai propri interessi.
L’impossibilità di provvedere può riferirsi sia agli interessi di cura della persona sia a quelli di conservazione e amministrazione del suo patrimonio, sia agli interessi della persona e del patrimonio congiuntamente, come il legislatore esplicitamente ricorda per i provvedimenti urgenti (art. 405, comma 4 cod. civ.). Infatti anche le attività relative al patrimonio devono essere rivolte ad assicurare la migliore qualità di vita della persona ovvero, con felice espressione usata dal legislatore (art. 1 legge n. 6/2004), a tutelarla nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana.
Un primo pregio dell’amministrazione di sostegno è che estende la fascia dei soggetti destinatari di una protezione giudiziaria. Essa infatti occupa spazi che non venivano coperti, e tuttora non possono esserlo, dalle misure di interdizione e inabilitazione, destinate solo alle persone in condizione di abituale infermità di mente.
Perciò l’amministrazione di sostegno si applica, anzitutto, alle persone che sono affette da una infermità o menomazione fisica che non le rende in grado, in tutto o in parte o anche temporaneamente, di esercitare i propri diritti o di soddisfare i propri bisogni vitali, rischiando per questo di recare danno a se stesse o di essere danneggiate dai terzi.
Vi rientra inoltre una utenza di persone che non si possono definire come abitualmente inferme di mente, secondo i criteri usuali di valutazione, ma sono affette da una menomazione o infermità psichica che si rivela sul versante psichiatrico o sono debili nella mente per l’età o la malattia o hanno la coscienza di sé indebolita dalla dipendenza dall’uso di sostanze stupefacenti o di alcolici, con danno per loro salute e/o i loro interessi.
Alcuni esempi possono indicare le potenzialità della misura, che può applicarsi a persone molto comuni:
- persone molto semplici che non sanno spendere bene le loro risorse e vengono raggirate;
- persone che vivono in condizioni di isolamento sociale e di deterioramento abitativo che bisogna rimuovere, destinando in modo specifico delle loro risorse alle esigenze di cura;
- persone debili che sono incapaci di fare valere i propri diritti (ottenimento di pensioni o indennità di accompagnamento, riscossione di affitti, accettazione delle eredità o ricerca dei beni ereditati presso le banche per evitare che i relativi diritti siano lasciati prescrivere, ecc.);
- persone debili mentali o fragili psicologicamente che hanno bisogno che qualcuno stia loro accanto con funzioni terapeutiche e di aiuto a fare e a gestirsi;
- sofferenti psichici che hanno bisogno di un’organizzazione delle cure alla propria persona attraverso una presenza integratrice, che spesso è sufficiente per evitare l'istituzionalizzazione;
- persone con disturbi della personalità o con comportamenti disordinati;
- persone in condizioni di salute precarie per le quali appare necessario attribuire responsabilità di cura ai parenti, per esempio ad uno dei figli;
- alcoldipendenti che indirizzano in prevalenza al bere le risorse, non sono capaci di gestirsi e conducono una vita disordinata;
- tossicodipendenti;
- i barboni, persone che quasi mai sono interdette e cui nessuno pensa.
L’età avanzata di per sé non è una menomazione ma può comportare menomazioni fisiche e psichiche che incidono sull’autonomia, per cui l’anziano talvolta non è più in condizione di provvedere a se stesso e ai propri interessi. L’amministrazione di sostegno può dunque essere una misura di protezione efficace per la persona anziana che non pensa alla salute, che si lascia andare con pericolo per la sua vita quotidiana (non ritira la pensione o gli affitti, non si compra il necessario per mangiare, non pulisce la casa, non paga il canone di locazione o le utenze o le tasse con le conseguenze di sfratto per morosità o di interruzione delle utenze o di procedimenti esecutivi, non compra vestiti o non si scalda, rischia di fare saltare in aria l’alloggio perché dimentica il gas aperto, ecc.) o che ha bisogno di assistenza nella gestione del patrimonio per non diventare vittima di raggiri.
- Qualche volta il soggetto che deve fruire di una misura di protezione versa in condizione di abituale infermità di mente, tale da renderlo incapace di provvedere ai propri interessi. In questo caso fino alla riforma portata dalla legge n. 6/2001 egli doveva essere interdetto. Oggi invece si deve scegliere fra l’interdizione (che può applicarsi alla persona abitualmente infermità di mente) e l’amministrazione di sostegno (che riguarda chiunque si trova in uno stato di infermità o di menomazione psichica, anche nello stato di infermità o menomazione psichica assoluta e più grave), le cui aree risultano sovrapponibili.
La legge indica come criterio dirimente che l’interdizione deve essere limitata ai casi in cui sia effettivamente indispensabile perché l’amministrazione di sostegno non appare idonea a realizzare la piena tutela dell’interessato. Secondo la definizione dell’art. 414 cod. civ., le persone che si trovano in condizione di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi “possono” (non devono) essere interdette solo “quando ciò sia necessario per assicurare la loro adeguata protezione”. Pertanto si deve chiudere una amministrazione di sostegno, promuovendo in sua sostituzione l’interdizione, allorché l’amministrazione di sostegno “si sia rivelata inidonea a realizzare la piena tutela dell’interessato” (art. 413, comma 4, cod. civ.).
Dunque due sono le valutazioni prognostiche che possono indirizzare verso l’interdizione: in negativo l’inidoneità in concreto dell’amministrazione di sostegno; in positivo la necessità, nel senso di indispensabilità, di arrivare alla misura più compressiva dell’interdizione per assicurare la protezione richiesta.
Anche la finalità di tutelare le persone prive di autonomia con la minore limitazione possibile della capacità di agire (affermata dall’art. 1 della legge n. 6/2004) fa pendere l’ago della bilancia in genere per l’amministrazione di sostegno, riducendo l’ipotesi dell’interdizione a quei casi in cui, per proteggere tali persone, occorre veramente una limitazione tendenzialmente totale della loro capacità di agire.
Si è proposto, in alternativa, di applicare l’amministrazione di sostegno a favore di quei soggetti che mantengono una residua capacità di mente e l’interdizione a coloro che hanno una infermità di mente totale e definitiva. Questa soluzione troverebbe appoggio nella distinzione legislativa fra impossibilità di provvedere ai propri interessi per l’amministrazione di sostegno (art. 404 cod. civ.) e incapacità di provvedere ai propri interessi per interdizione (art. 414 cod. civ.), ma tale differente terminologia non sembra potere portare alla conclusione indicata. Inoltre porsi sul piano della misurazione delle capacità significa restare in un’ottica clinica, da cui la nuova legge ha inteso liberarsi per assumere un profilo sociale rivolto al sostegno della disabilità.
Si deve pertanto promuovere l’interdizione quando per la protezione della persona inferma di mente e priva di ogni autonomia è necessaria una sua sostituzione tendenzialmente generale e permanente con un tutore. Vi rientra anche l’ipotesi in cui il beneficiario infermo di mente non possa “in ogni caso” compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana, perché nell’amministrazione di sostegno deve rimanere comunque tale spazio di libertà per l’amministrato (art. 409, comma 2, cod. civ.). Ricadono pertanto nell’interdizione le situazioni più sfortunate e disperate, di particolare gravità e di sicura irrecuperabilità, anche in questo caso valutando la possibilità che il giudice secondo le condizioni diverse di infermità di mente stabilisca che l’interdetto eserciti personalmente un qualche residuo diritto compatibile con il suo stato.
L’interdizione va però lasciata in un angolino ristretto. Nella gran maggioranza dei casi, poiché non è necessaria una compressione generale di tutte le facoltà, si può e si deve ricorrere all’amministrazione di sostegno.
In particolare ciò deve avvenire ogni volta che una persona deve essere sostituita in pochi e determinati atti o si devono compiere a suo favore atti o procedure burocratiche, mentre altri atti non sono necessari in quanto la stessa disabilità funziona da autotutela. In questi casi non c’è ragione per vietare ad una persona atti che comunque non compierebbe (impedire il matrimonio a chi è in coma irreversibile o al demente senile in fase avanzatissima) o per designarle nel tutore un rappresentante per tutti gli affari quando in realtà le attività specifiche necessarie sono ridotte.
Seguendo questo criterio, l’amministrazione di sostegno è largamente idonea e sufficiente quando in soccorso dell’infermo di mente occorre provvedere alle seguenti attività:
- la riscossione della pensione o di assegni e il prelievo dai risparmi per il pagamento della retta dell’ospizio dell’anziano demente;
- lo svolgimento delle pratiche per pensioni o assegni di accompagnamento (per ottenere un qualsiasi beneficio previdenziale, assicurativo o sociale, bisogna fare domande e sapere mettere delle firme);
- la stipula di divisioni ereditarie o vendite (il notaio si rifiuta di redigere un atto perché la persona non gli appare capace di esprimere una valida volontà);
- l’accettazione di eredità;
- la richiesta in giudizio degli alimenti ai parenti.
L’amministrazione di sostegno inoltre appare misura idonea e sufficiente nei casi di incapacità assoluta permanente nello stadio terminale della vita (il moribondo per cancro o ictus cerebrale cui altri devono provvedere per tutto), di incapacità assoluta temporanea (la persona in coma profondo per cui occorrono contratti di cura, pagamenti delle prestazioni sanitarie, riscossioni di stipendi) e di mancanze parziali di autonomia (come i soggetti down).
All’amministratore di sostegno può essere attribuita la rappresentanza della persona priva di autonomia nel compimento di ogni atto che potrebbe compiere un tutore (come si ricava inequivocabilmente dall’art. 411, comma 4, cod. civ.). Perciò non ricorre più la necessità di procedere alle cosiddette interdizioni sanitarie, pronunciate affinché un tutore dia il consenso informato al compimento di atti medici rifiutati dall’interessato, o alle cosiddette interdizioni assistenziali, rivolte ad obbligare una persona non autonoma a una dimora coatta in ospizi di assistenza. Poiché la residua capacità della persona deve in qualche modo essere presa in considerazione in scelte personalissime relative alla salute e alla domiciliarietà, la misura più appropriata e rispettosa per questi casi, che di frequente si ripropongono nella loro drammaticità, non è l’interdizione ma la nomina di un amministratore di sostegno che informi il beneficiario circa gli atti da compiere, lo senta e tenga conto dei suoi bisogni, aspirazioni e richieste, con possibilità per il beneficiario di ricorso al giudice tutelare.
Va peraltro considerato che per queste decisioni dovrebbe essere valorizzata fin che si può la capacità di fatto dell’interessato, a prescindere dalla definizione legale del suo status. Che un tutore - e soprattutto un tutore burocratico, quale l’assessore ai servizi sociali di una grande città – o un amministratore di sostegno possano sostituire la propria volontà a quella di un cittadino che non voglia curarsi o rifiuti di essere istituzionalizzato, attuando una forma di trattamento coatto, era ed è discutibile e appare addirittura ripugnante nei casi in cui un’interdizione venga pronunciata strumentalmente a tali fini. Quando poi un soggetto si trovi nell’impossibilità assoluta di manifestare qualsiasi volontà, e si sia fuori dell’ipotesi dello stato di necessità che impone un intervento sanitario o di soccorso, è meglio riconoscere un potere di sostituzione ai parenti tenuti ad un compito di assistenza e protezione.
L’amministrazione di sostegno è diventata lo strumento di protezione più idoneo anche per le persone in stato di infermità di mente non grave, che finora venivano inabilitate.
Il regresso dell’inabilitazione non merita rimpianti. Nella pratica c’era una disaffezione rispetto a questa misura, ormai caduta in desuetudine per i sordomuti o i ciechi dalla nascita o dalla prima infanzia che non abbiano ricevuto una educazione sufficiente e ritenuta di scarsa utilità per le persone in stato di infermità di mente lieve. Essa è utile praticamente solo per scoraggiare i terzi dal compiere con l’inabilitato degli atti di disposizione immobiliare, che sarebbero annullabili se compiuti senza l’assistenza del curatore e l’autorizzazione del tribunale. Lo stato di inabilitazione non impedisce però che l’interessato sperperi il suo denaro con tanti singoli atti di liberalità o con spese voluttuarie ripetute rientranti nell’ordinaria amministrazione. Soprattutto, l'assistenza del curatore non costituisce un accompagnamento alla persona e non assicura il compimento in suo favore di atti che questi non voglia o possa effettuare. Un disabile si danneggia più spesso perché non esercita dei diritti o non adempie dei doveri (non paga le tasse o l’affitto o le bollette, non riscuote la pensione, ecc.) che per il fatto di compiere degli atti patrimoniali dannosi. A tutti questi scopi appare più idonea la protezione assicurata da un’amministrazione di sostegno.
Se l’inabilitazione in generale serve a poco, si può ancora continuare ad applicarla a chi, per prodigalità, espone sé o la propria famiglia a gravi pregiudizi economici. Il prodigo che non sia affetto da infermità o menomazione fisica o psichica non può avere un amministratore di sostegno, ma se ha dei patrimoni importanti l’inabilitazione può costituire una remora al perfezionamento di atti di disposizione patrimoniale dannosi con i terzi.
Normalmente la procedura per l’amministrazione di sostegno inizia e si svolge avanti al giudice tutelare. Anche quando sia promossa nell’ultimo anno prima della maggiore età (art. 405, comma 2, cod. civ.), affinché l’amministratore operi a decorrere dal diciottesimo anno, il ricorso deve essere proposto al giudice tutelare e non al tribunale per i minorenni. Il giudice tutelare viene così rivitalizzato come sportello periferico della giustizia della persona, prossimo ai bisogni e facilmente accessibile.
La procedura si svolge davanti al giudice tutelare sia nella prima fase che porta all’istituzione dell’amministrazione, sia nella seconda fase della sua gestione. In ciò si differenzia dalla procedura di interdizione e inabilitazione, anch’essa bifasica, che nella prima fase fino alla sentenza di interdizione o inabilitazione si svolge avanti al tribunale ordinario o al tribunale per i minorenni e nella fase di gestione della tutela o curatela diventa competenza del giudice tutelare.
La procedura segue il rito definito di camera di consiglio, anche se recepisce alcune regole della procedura contenziosa dell’interdizione (art. 720-bis cod. proc. civ.).
La procedura è completamente gratuita, proprio perché rivolta a realizzare finalità dello Stato di protezione degli incapaci. Perciò gli atti e i provvedimenti non sono soggetti all’obbligo di registrazione (e dunque al pagamento della tassa di registro) e sono esenti dal contributo unificato richiesto per gli ordinari procedimenti civili (art. 46 bis, disp. att. cod. civ.). Chi vi ricorre deve pagare solo le spese per il rilascio di copia di atti e le spese richieste dall’ufficiale giudiziario per l’esecuzione delle notifiche.
Molti soggetti sono legittimati a proporre azioni formali per promuovere l’amministrazione di sostegno. Due vi sono obbligati quando sono a conoscenza di una situazione che lo impone, il pubblico ministero e i responsabili dei servizi sanitari e sociali; tre altri soggetti ne hanno facoltà, i parenti, i conviventi stabili e l’interessato.
Prevedendo una legittimazione concorrente del pubblico ministero e dei responsabili dei servizi sanitari e sociali il legislatore ha voluto che la protezione della persona priva in tutto o in parte di autonomia diventi effettiva. Si è inteso ovviare al fenomeno diffuso dell’inerzia del pubblico ministero relativamente alla promozione di interdizione e inabilitazione, aggiungendo quali titolati all’iniziativa per l’amministrazione di sostegno i servizi che hanno un compito istituzionale di protezione dei soggetti deboli, sono direttamente a conoscenza delle situazioni su cui intervenire e possono meglio farsene portatori.
Il pubblico ministero è legittimato a promuovere l’amministrazione di sostegno perché è la parte pubblica che interviene nella cause riguardanti la capacità delle persone (art. 70, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.). Il fatto che la persona impossibilitata a provvedere ai propri interessi “può” essere assistita da un amministratore di sostegno non attribuisce al pubblico ministero una mera facoltà di ricorso, dovendo egli attivarsi ogni volta che ne ravvisi le condizioni.
La legittimazione ad attivare l’amministrazione di sostegno dei responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona costituisce una novità in senso assoluto. Di norma i servizi sanitari e sociali hanno solo facoltà o doveri di segnalazione, di denuncia o di referto all’autorità giudiziaria. In questo caso invece i responsabili dei servizi sanitari e sociali, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento, sono tenuti a presentare ricorso direttamente al giudice tutelare ovvero, in alternativa, a procedere alla segnalazione al pubblico ministero (art. 406, comma 3, cod. civ.). I servizi non possono invece ricorrere per promuovere l’interdizione o l’inabilitazione.
Gli altri soggetti che possono presentare ricorso per l’amministrazione di sostegno sono i parenti entro il quarto grado (vi rientrano gli ascendenti, gli zii, i cugini primi), il coniuge, gli affini entro il secondo grado (il coniuge di un genitore o di un nonno, i cognati, i generi e le nuore). Ad essi si sono aggiunti i conviventi stabili del beneficiario, che possono meglio rendersi conto dei suoi bisogni.
Infine lo stesso interessato, anche se minore di età ma ultradiciassettenne, e anche se interdetto o inabilitato, può proporre ricorso per l’istituzione a suo favore di una amministrazione di sostegno. Il sostegno attraverso una amministrazione diventa così un diritto direttamente esigibile dal beneficiario.
Poiché la procedura ha natura di volontaria giurisdizione, le parti private (parenti e affini, coniuge, conviventi, soggetto beneficiario) possono presentare ricorso personalmente; in alternativa, senza esserne obbligate, esse possono farsi rappresentare e difendere da un avvocato e, se lo vogliono e ne ricorrono le condizioni, possono richiedere il patrocino a spese dello Stato. Anche i servizi possono depositare al giudice tutelare ricorso per l’amministrazione di sostegno in proprio, senza dovere essere assistiti da una difensore tecnico.
Il ricorso per l’amministrazione di sostegno deve indicare, oltre che i dati del ricorrente, le generalità del beneficiario, la sua dimora abituale, le ragioni per cui si richiede la nomina dell’amministratore, il nominativo e il domicilio (se conosciuti) del coniuge, dei discendenti, degli ascendenti, dei fratelli e dei conviventi del beneficiario (art. 407, comma 1, cod. civ.).
Essenziale è una esaustiva elencazione delle ragioni per cui si chiede l’amministrazione di sostegno, al fine di individuare i bisogni della persona beneficiaria e i compiti di sostituzione e di assistenza che dovrebbero essere attribuiti all’amministratore. Il ricorso perciò deve illustrare brevemente le infermità o menomazioni della persona eventualmente con il corredo di una documentazione sanitaria, spiegare che per effetto di esse la persona non può provvedere in tutto o in parte ai propri interessi di cura e di buona amministrazione patrimoniale, indicare con chi la persona vive e quale è la sua situazione patrimoniale e reddituale, proporre le attività di sostituzione o di assistenza che potrebbero essere attribuite all’amministratore. Il ricorso non va riempito con altri formalismi, perché sarà poi il giudice tutelare a richiedere le informazioni e a disporre gli accertamenti.
Il ricorso presentato dai servizi sanitari o sociali potrebbe essere corredato da una relazione che racconti vicende personali e familiari, condizioni di salute, bisogni e desideri della persona interessata.
Il ricorso deve essere depositato nella cancelleria del giudice tutelare del luogo dove la persona interessata ha residenza o domicilio.
Il procedimento per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno segue alcune regole elementari (indicate dall’art. 407 cod. civ. e dall’art. 720 bis cod. proc. civ., che dispone l’applicazione, in quanto compatibili, delle disposizioni degli art. 712, 713, 716, 719 e 720 cod. proc. civ.). Ricevuto il ricorso, il giudice tutelare fissa con decreto il giorno e l’ora dell’udienza in cui devono comparire avanti a lui il ricorrente, la persona proposta come beneficiaria dell’amministrazione e le persone indicate nel ricorso le cui informazioni ritenga utili (artt. 720 bis – 713, comma 1, cod. proc. civ.).
Il ricorso e il decreto che dispone la comparizione devono essere portati a conoscenza della persona interessata all’amministrazione, la quale può perciò contraddire e difendersi, e delle persone indicate nel decreto, e comunicati al pubblico ministero (artt. 720 bis – 713, comma 2, cod. proc. civ.). A tale fine essi devono essere notificati, a cura del ricorrente, a mezzo dell’ufficiale giudiziario. Alcuni ritengono però che, come avviene di norma nei procedimenti in camera di consiglio, essendo in gioco interessi pubblici caratterizzati da un’ampia possibilità di azione di ufficio, il ricorso e il decreto debbano essere notificati a cura della cancelleria, che procederà tramite ufficiali giudiziari. Come soluzione intermedia altri propongono che il ricorrente debba provvedere a fare notificare il ricorso e il decreto a mezzo di ufficiale giudiziario al solo beneficiario, mentre la cancelleria provvederebbe a convocare con biglietti di cancelleria gli altri soggetti. Non essendo ancora chiara la modalità, è opportuno che chi ricorre si informi presso ogni tribunale sul modo in cui in quell’ufficio si ritiene debbano effettuarsi le notifiche.
Il ricorso e il decreto dovrebbero essere notificati in busta chiusa, per non portare il loro contenuto a conoscere di terzi.
L’audizione personale della persona cui il procedimento si riferisce è obbligatoria (a meno che la persona sia irreperibile) e, ove occorra, il giudice tutelare deve recarsi nel luogo in cui si trova per sentirla (art. 407, comma 2, cod. civ.).
Prima ancora di questa audizione e in ogni momento, parallelamente a ciò che è disposto nella tutela degli interdetti e dei minori (art. 361 cod. civ.), il giudice tutelare può, anche di ufficio, se necessario, adottare i provvedimenti urgenti per la cura della persona interessata e l’amministrazione del suo patrimonio (art. 405, comma 4 cod. civ.). La sola presentazione del ricorso consente dunque che siano assunti subito i provvedimenti necessari urgenti di protezione di una persona non autonoma, ancora prima della sua audizione e precedentemente al decreto di nomina dell’amministratore.
Allo scopo di raccogliere i dati utili per la decisione il giudice tutelare procede all’assunzione delle informazioni dal ricorrente, dai parenti e dai terzi citati e provvede, anche di ufficio, per lo svolgimento degli accertamenti di natura medica e gli altri mezzi istruttori ritenuti utili (art. 407, comma 3, cod. civ.). Si deve accertare quale sia la menomazione o infermità che pregiudica il soggetto interessato, quali effetti abbia sulla sua capacità di agire, quali siano le sue residue capacità attuali di agire e come limitarle nel minore modo possibile, quale forma di sostegno gli potrebbe essere utile, come amministrare il patrimonio.
Mentre nell’interdizione tradizionale il giudice doveva rivolgersi essenzialmente alla competenza psichiatrica, nell’amministrazione di sostegno è necessario soprattutto conoscere il contesto di vita, accertare le effettive disabilità sociali e le abilità residue o potenziali e definire quale progetto di integrazione sociale si deve sostenere e con quali atti attribuiti all’amministratore si può attuare tale sostegno. Occorre inoltre avere un quadro della situazione reddituale e patrimoniale del soggetto. A questo fine acquistano maggiore importanza le informazioni che pervengono dai parenti e dai servizi.
Fra gli accertamenti nei casi più complessi o controversi rientra anche la consulenza tecnica medica. Cambia però il quesito da porre, che nell’articolazione delle domande deve comprendere anche la disabilità e il livello di autonomia residua del beneficiario, gli atti in cui bisogna sostituirlo o è sufficiente assisterlo o che può compiere da solo. Occorre capire non tanto il grado di capacità di intendere e di volere ma ciò che la persona è in grado di fare.
All’esito della raccolta di queste informazioni il giudice tutelare, con decreto emanato entro sessanta giorni dal deposito del ricorso, istituisce l’amministrazione di sostegno e provvede alla nomina dell’amministratore (art. 405, comma 5, cod. civ.). Seguendo il modello delle tutele, il giudice tutelare può anche provvedere con due decreti separati, uno di istituzione dell’amministrazione e l’altro di nomina dell’amministratore.
La nomina dell’amministratore deve avvenire secondo alcuni criteri predeterminati dalla legge (art. 408, comma 1, cod. civ.).
Lo stesso interessato può avere designato l’amministratore in previsione della propria eventuale futura incapacità, designazione che può ogni momento revocare successivamente. Egli può avere designato l’amministratore anche nel ricorso con cui ha chiesto per sé l’amministrazione o può averne indicato il nome quando è stato sentito dal giudice tutelare. Che l’amministrato abbia come amministratore una persona di sua fiducia, da cui si senta accompagnato, è molto importante per il significato stesso della misura.
In mancanza di designazione, o disattendendola per gravi motivi, alla scelta dell’amministratore provvede il giudice tutelare. La nomina di una persona giusta è fondamentale. La scelta va fatta “con esclusivo riguardo alla cura e agli interessi della persona del beneficiario”, e quindi rivolta al soddisfacimento di bisogni che possono essere molto diversi ed esigere competenze a attitudini conseguenti.
La preferenza va di norma ai parenti e alla persona stabilmente convivente che per consuetudine di vita meglio possono svolgere le attività sostitutive di cura, privilegiando in questo modo la relazione affettiva, o alla persona indicata dal genitore superstite.
Possono essere amministratori anche altre persone idonee. Per individuarle e prepararle appare lodevole l’iniziativa di corsi di formazione di amministratori di sostegno, rivolti a volontari, fra i quali il giudice tutelare possa attingere delle persone preparate e disponibili. Una alternativa interessante potrebbe essere seguire le indicazioni della associazioni degli utenti dei servizi, che dovrebbero venire coinvolte.
Infine, può essere amministratore una delle persone giuridiche elencate nel titolo II del libro I cod. civ. (artt. 11-13 cod. civ.): scelta da riservare preferibilmente ai casi in cui l’attività sostituiva è di mera amministrazione di beni.
Per l’amministratore di sostegno valgono le cause di incapacità e dispensa previste per il tutore (art. 411, comma 1 cod. civ., che richiama gli artt. 350-353 cod. civ.).
Il decreto deve inoltre indicare la durata dell’incarico dell’amministratore, e quindi dell’amministrazione stessa, che può essere a tempo determinato o indeterminato.
Il decreto determina l’oggetto della amministrazione, con l’indicazione degli atti che l’amministratore può o deve compiere in nome e per conto del beneficiario, degli atti che il beneficiario compie solo con l’assistenza dell’amministratore di sostegno e dei limiti di spese che l’amministratore può sostenere con l’utilizzo del denaro di cui il beneficiario dispone.
Il giudice tutelare determina i contenuti dell’amministrazione in modo che corrispondano alle sue finalità di protezione, decidendo di ufficio a prescindere dalle richieste delle parti (art. 407, comma 4, cod. civ.). Egli può disporre che l’amministratore sostituisca o assista il beneficiario nel compimento di qualsiasi atto in cui potrebbe sostituirlo un tutore o assisterlo un curatore. Il solo limite è che non può arrivare a privare il beneficiario di ogni spazio di autonomia perché il beneficiario “può, in ogni caso, compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana” (art. 409, comma 2, cod. civ.).
Il giudice tutelare può anche allargare l’ambito di protezione disponendo che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, avuto riguardo all’interesse del medesimo e a quello tutelato dalle predette disposizioni (art. 411, comma 4, cod. civ.). Perciò anche nell’amministrazione di sostegno, quando il giudice tutelare lo dispone ritenendo che ne sia il caso, possono operare divieti, come quelli di contrarre matrimonio o di fare testamento.
La giurisprudenza e le scienze sociali dovranno definire correttamente le categorie di atti per cui l’autonomia del soggetto viene ridotta e/o sostituita, sufficientemente chiare per assicurare l’affidamento dei terzi che consultino il registro delle amministrazioni di sostegno su cui vengono trascritte.
Infine, il decreto deve prevedere la periodicità con cui l’amministratore di sostegno è tenuto a riferire al giudice circa l’attività svolta e circa le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario. La periodicità della relazione perciò è determinata non dalla legge ma dal giudice tutelare in relazione all’oggetto e alla durata dell’amministrazione. L’amministratore non ha, come il tutore, l’obbligo di un rendiconto annuale, ma ha un obbligo di relazione, che può presentare oralmente o redigere per iscritto. Il contenuto della relazione è ridotto rispetto ad un rendiconto relativamente ai dati patrimoniali e reddituali (a meno che il giudice tutelare prescriva un rendiconto) ma si estende alle condizioni di vita personali e sociali.
Nella gestione della amministrazione di sostegno successiva alla sua apertura si devono sottolineare alcuni punti.
L’amministratore di sostegno presta sempre giuramento (art, 411, comma 1, cod. civ., che richiama l’art. 349 cod. civ.) mentre non deve procedere all’inventario a meno che il decreto lo disponga (ex art. 411, comma 4, cod. civ.).
Il giudice tutelare segue la gestione attraverso le relazioni che gli pervengono con la periodicità determinata nel decreto istitutivo dell’amministrazione e in ogni momento può convocare l’amministratore di sostegno allo scopo di chiedere informazioni, chiarimenti e notizie sulla gestione dell’amministrazione di sostegno e di dare istruzioni inerenti agli interessi morali e materiali del beneficiario (art. 44, disp. att. cod. civ.).
Il provvedimento di istituzione dell’amministrazione di sostegno è flessibile nei suoi contenuti lungo il periodo temporale della sua applicazione. Il giudice tutelare ha dei poteri modificativi di integrare o modificare, in ogni momento e anche di ufficio, le decisioni assunte (artt. 407, comma 4; 411, comma 4, cod. civ.), fino a potere pervenire alla sostituzione dell’amministratore (art. 413, comma 1, cod. civ.) e, in determinate situazioni, al suo esonero, sospensione o rimozione (art. 411, comma 1 cod. civ., che rinvia agli artt. 383-384 cod. civ.). Ogni volta che il giudice tutelare modifica o integra le decisioni assunte, la persona cui il procedimento si riferisce deve essere necessariamente sentita.
Nell’amministrazione di sostegno è flessibile anche la durata, che inizialmente può essere a tempo determinato o indeterminato (art. 405, comma 5, cod. civ.). Nel primo caso il giudice tutelare può prorogare l’incarico all’amministratore con decreto motivato pronunciato anche di ufficio prima della scadenza del termine (art. 405, comma 6, cod. civ.); nel secondo caso in qualsiasi momento il giudice tutelare può disporre la cessazione dell’amministrazione quando essa si riveli inidonea a realizzare la piena tutela dell’interessato o si determinino altri presupposti per tale cessazione (art. 413, comma 1, cod. civ.).
Gli atti compiuti nel corso dell’amministrazione di sostegno riferibili al beneficiario hanno un regime diverso a seconda della loro natura.

a. Il beneficiario conserva la piena capacità di agire per gli atti non compresi nell’amministrazione (art. 409, comma 1 cod. civ.) e per gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana (art. 409, comma 2 cod. civ.).

b. Per compiere validamente alcuni atti, oggetto dell’amministrazione, il beneficiario deve necessariamente essere assistito dall’amministratore di sostegno (art. 405, comma 6, n. 4 cod. civ.).

c. Ci sono poi altri atti, oggetto dell’amministrazione, che il beneficiario non può compiere e che in sua vece può compiere l’amministratore di sostegno quale rappresentante esclusivo (art. 405, comma 6, n. 3 cod. civ.).

d. Infine, per il compimento degli atti più potenzialmente pregiudizievoli per il patrimonio che siano compresi nell’amministrazione, e rientrino fra quelli elencati negli artt. 375 e 376 cod. civ., l’amministratore deve essere specificamente autorizzato dal giudice tutelare (art. 411, comma 1, cod. civ.). Se però l’amministrazione è stata istituita per quel fatto specifico (come riscuotere la pensione ogni mese, vendere un bene, ecc.), nel decreto di istituzione è già compresa l’autorizzazione per quell’atto.

Sono nulle le disposizioni patrimoniali del beneficiario dell’amministrazione a favore dell’amministratore, anche se fatte sotto nome di interposta persona (art, 411, comma 2, cod. civ.), ma sono valide le disposizioni testamentarie e le convenzioni fatte dall’amministrato a favore dell’amministratore che sia coniuge, parente entro il quarto grado o persona che sia stata chiamata alla funzione in quanto stabilmente convivente (art. 411, comma 3, cod. civ.).
Talvolta all’amministrazione di sostegno si giunge in parallelo con un procedimento di natura contenziosa relativo all’interdizione o inabilitazione.
Ciò si verifica anzitutto allorché, nel corso di un procedimento proposto avanti al tribunale ordinario per la dichiarazione di interdizione o inabilitazione, appare opportuno applicare all’interessato l’amministrazione di sostegno. In questo caso il giudice istruttore o il tribunale (a seconda della fase) di ufficio o a istanza di parte dispongono la trasmissione del procedimento al giudice tutelare e, con un decreto, possono anticipare i provvedimenti urgenti di amministrazione di sostegno di cui all’art. 405 cod. civ. (art. 418, ult. comma, cod. civ.).
Il pubblico ministero e le parti private, ove concordino che la protezione della persona interessata possa essere definita con l’amministrazione, rinunciano agli atti del giudizio di interdizione o inabilitazione e segue l’estinzione del processo (art. 306 cod. civ.). Qualora invece una delle parti insista per la pronuncia di interdizione o inabilitazione, il tribunale provvede con sentenza a respingere o accogliere la domanda originaria.
Invece nelle ipotesi in cui si voglia istituire l’amministrazione di sostegno per una persona già interdetta o inabilitata devono intervenire due procedure contemporanee: l’una di revoca dell’interdizione o inabilitazione avanti al tribunale; l’altra di nomina dell’amministratore di sostegno avanti al giudice tutelare. In questo caso il pubblico ministero, i soggetti legittimati e lo stesso interdetto o inabilitato propongono istanza al tribunale per la revoca dell’interdizione e dell’inabilitazione e, congiuntamente, ricorrono al giudice tutelare per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno (art. 406, comma 2, cod. civ.). Va ricordato che l’interdetto non può chiedere al tribunale la sola revoca della propria interdizione ma la revoca congiuntamente con la richiesta al giudice tutelare di nomina di un amministratore di sostegno.
Quando infine sia promosso un procedimento di mera revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione (art. 429, ult. comma, cod. civ.), nel corso del giudizio il tribunale può, su istanza di parte o d’ufficio, disporre la trasmissione degli atti al giudice tutelare ove ritenga opportuno che successivamente alla revoca di interdizione o amministrazione il soggetto sia assistito da un amministratore di sostegno.
Per dare continuità alla protezione della persona priva di autonomia e evitare sovrapposizioni di istituti diversi, il decreto con cui il giudice tutelare istituisce l’amministrazione di sostegno diventa esecutivo solo dalla pubblicazione della sentenza di revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione (art. 405, comma 3, cod. civ.).
Al fine di assicurare la correttezza delle relazioni con i terzi l’amministrazione di sostegno è soggetta ad un regime di pubblicità: la sua apertura e chiusura sono annotate in margine dell’atto di nascita del beneficiario; i decreti di apertura, di modifica e di chiusura sono iscritti in un apposito registro costituito presso il tribunale (art. 405, commi 7 e 8, cod. civ.).
Il terzo, che dall’atto di nascita ha notizia dell’esistenza di una amministrazione, può quando ne abbia interesse conoscere dal registro costituito presso il tribunale quali atti il beneficiario dell’amministrazione può compiere da solo, in quali atti egli deve essere assistito, quali atti devono essere svolti dall’amministratore di sostegno.
La finalità dell’amministrazione di sostegno di protezione del più debole si realizza attribuendo all’amministrare lo svolgimento di attività che hanno un rilievo giuridico (pertanto l’amministratore non può confondersi con un “badante”). L’amministratore ha solo i poteri conferiti dal giudice tutelare e non poteri generali di rappresentanza e gestione (art. 405, comma 5, cod. civ.). Egli può compiere determinati atti in nome e per conto del beneficiario, ovvero assistere il beneficiario nel compimento di atti, ovvero congiuntamente sostituire il beneficiario in alcuni atti e assisterlo in altri.
I contenuti del mandato non sono però limitati a queste attività di cura e amministrazione con diretto rilievo giuridico. L’amministratore ha un compito più generale di accompagnamento e di comunicazione rivolto al beneficiario, con un occhio generale sulla sua persona. Egli infatti deve tenere conto dei bisogni e aspirazioni del beneficiario e informarlo tempestivamente circa gli atti da compiere (art. 410, commi 1 e 2, cod. civ.), verifica che il beneficiario non compia atti in violazione delle disposizioni (art. 412, comma 2, cod. civ.), informa il giudice tutelare sulla gestione dell’amministrazione e riceve istruzioni inerenti gli interessi morali e materiali del beneficiario (art. 44 disp. att. cod. civ.), chiede al giudice tutelare la revoca dell’amministrazione se non ne ricorrono più i presupposti (art. 413, comma 1, cod. civ.). In questi modi egli può costituire una sponda del beneficiario verso il giudice tutelare, verso i servizi, verso i terzi in genere.
Il beneficiario a sua volta ha possibilità di dissentire rispetto alle attività dell’amministratore. In questo caso l’amministratore deve tempestivamente informare il giudice tutelare di tale dissenso e il beneficiario può, ricorrendo al giudice tutelare, promuovere un embrionale incidente di esecuzione (art. 410, comma 2, cod. civ.).
L’incarico dell’amministratore è gratuito (art. 411 cod. civ., che rinvia all’art. 379 cod. civ.). Egli può ottenere un equo indennizzo per la sua attività e il rimborso delle spese affrontate ma la sua attività non può gravare mai sul bilancio dello Stato (art. 3, comma 3, legge n. 6/2004).
Per quanto la cura della persona non sia indicata fra gli oggetti diretti dell’incarico di nomina dell’amministratore di sostegno (art. 405, comma 5, cod. civ.), è evidente che centrale è il raccordo fra la cura della persona del beneficiario e l’amministrazione del suo patrimonio.
A ciò conduce il dato testuale di varie disposizioni sparse, che considerano i bisogni, le richieste, le esigenze di protezione, gli interessi della persona, le aspirazioni del beneficiario (artt. 407, comma 2; 408, comma 1; 410, commi 1 e 2, cod. civ.) al fine di realizzare la cura della persona, la conservazione e l’amministrazione del suo patrimonio e la sua piena tutela (artt. 405, comma 4; 413, comma 4, cod. civ.). L’amministratore deve perciò assumere, come criterio principale della sua attività, la destinazione delle risorse alla migliore qualità di vita della persona compatibile con le sue menomazioni.
La preoccupazione per la persona come finalità dell’amministrazione di sostegno è confermata da altre norme:

  • il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti quegli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno e “può, in ogni caso, compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana” (art. 409, commi 1 e 2, cod. civ.);
  • il giudice tutelare deve sentire la persona cui il procedimento si riferisce e tenere conto, compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della persona, dei bisogni e delle richieste di questa (art. 407, comma 2, cod. civ.);
  • l’amministratore deve costantemente informare il beneficiario circa gli atti da compiere (art. 410, comma 2, cod. civ.).

La direttiva doverosa di informazione del beneficiario e di presa in considerazione delle sue opinioni non esclude che, in qualche caso, il beneficiario non possa esprimere le sue opinioni e non sia possibile informarlo. Il legislatore ha voluto introdurre delle prassi virtuose di relazione ed ascolto con la persona debole che hanno rilievo e peso diverso a seconda della condizione del soggetto cui sono destinate.
Il giudice tutelare può in ogni momento, nel corso di una amministrazione di sostegno, così come nel corso di una tutela o curatela, chiedere l’assistenza degli organi della pubblica amministrazione e di tutti gli enti corrispondono alle sue funzioni (art. 344, comma 2, cod. civ.). La legge non prevede espressamente degli altri collegamenti dell'apparato giudiziario che gestisce le tutele e curatele con i servizi sanitari e sociali pubblici e privati. Tali servizi compaiono invece in due norme relative all’amministrazione di sostegno.
I responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura dell’amministrazione di sostegno, sono tenuti a proporre ricorso al giudice tutelare oppure a fornire notizia al pubblico ministero (art. 407 cod. civ.), svolgendo una funzione di segnalatori all’autorità giudiziaria che potranno proseguire quando la condizione di quella persona si modifichi. Il termine “servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona” indica i servizi che hanno queste competenze generali, a prescindere dal fatto che la persona per qualsiasi motivo non sia stata ancora presa in carico.
La presenza dei servizi è implicita anche nel divieto di ricoprire le funzioni di amministratori di sostegno agli operatori dei servizi pubblici o privati che hanno in cura o in carico il beneficiario (art. 408, comma 3, cod. civ.). Il termine operatori sembra riferito in genera a quanti lavorano nei servizi, compresi i loro responsabili.
Il divieto, analogo a quello fatto ai legali rappresentanti delle comunità di tipo familiare e degli istituti e a coloro che vi svolgono attività di essere chiamati all'incarico di tutori (art. 3, comma 3, legge n. 184/1983 sull’adozione), è legato alla preoccupazioni di evitare un conflitto di interessi che si poteva configurare e di non snaturare il percorso di amministrazione con un amministratore burocratico formale. L’incompatibilità fra le figure dell’operatore dei servizi e dell’amministratore di sostegno consente inoltre all’amministratore di fare valere i diritti del beneficiario anche nei confronti dei servizi che lo hanno in cura o in carico. A loro volta i servizi trovano nell’amministratore un interlocutore, di cui hanno bisogno per gestire utilmente delle situazioni difficili e per costruire in collaborazione dei progetti di vita per la persona priva di autonomia.
Di fatto i provvedimenti di amministrazione di sostegno possono costituire un campo di straordinaria cooperazione del giudice tutelare e dell’amministratore di sostegno con le politiche dei servizi, instaurando una commistione profonda fra sistema giudiziario, in funzione di garanzia, e sistemi sanitario e socio assistenziale. Il principio della riconoscibilità di una sfera di autonomia del beneficiario, pensata a misura della sua abilità residua, ha contaminato anche il regime dell’interdizione e dell’inabilitazione.
L’interdetto è civilmente una non persona, privata dell’esercizio diretto dei diritti e soggetto passivo delle decisioni di altri, con l’eccezione del diritto politico di voto attivo. Il legislatore si è però accorto che anche una persona gravemente invalidata da una infermità di mente può presentare delle aree di capacità. Perciò ha disposto che, in deroga del modello legale astratto, all’interdetto può essere riconosciuta una limitata capacità di agire, senza l’intervento del tutore ovvero con l’assistenza del tutore, rispetto ad alcuni atti di ordinaria amministrazione determinati dal giudice (art. 427, comma 1, cod. civ.). Fra questi atti possono essere significativi lo stipulare un contratto di lavoro e il prestare una attività lavorativa, il riscuotere lo stipendio o la pensione o il ritirare delle somme presso la banca, l’avere la libera disponibilità di un peculio.
Anche per l’inabilitato può stabilirsi che possa compiere taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza l’assistenza del curatore (art. 427, comma 1, cod. civ.).La procedura dell’interdizione e inabilitazione rimane bifasica. Prima il tribunale o il tribunale per i minorenni (a secondo che la procedura sia iniziata per un maggiorenne o per un infradiciottenne) con un rito formalmente contenzioso pronunciano sentenza con cui dichiarano la persona interdetta o inabilitata. Successivamente si apre una tutela o curatela presso il giudice tutelare.
Le modifiche della procedura apportate dalla legge n. 6/2004 relative alla prima fase avanti al tribunale sono poche ma importanti.

  1. La stessa persona che può essere interdetta o inabilitata e le persone stabilmente con lei conviventi possono promuovere il giudizio di interdizione o inabilitazione (art. 417 cod. civ.).
  2. Il pubblico ministero può provvedere a promuovere il giudizio di interdizione o inabilitazione anche a seguito di informazione e sollecitazione del giudice tutelare, il quale abbia ritenuto che l’amministrazione di sostegno si riveli inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario (art. 413, comma 4, cod. civ.).
  3. Nel corso del giudizio di interdizione o inabilitazione anche l’abilità residua dell’interessato deve formare oggetto dell’indagine. Il tribunale poi, quando la con la sentenza pronuncia l’interdizione o inabilitazione, deve individuare questi spazi di autonomia possibile e prendere in considerazione la questione nella motivazione (art. 427, comma 1, cod. civ.).
  4. La nomina del tutore o del curatore provvisorio ovvero la sentenza che dichiara l’interdizione o l’inabilitazione determinano la cessazione dell’amministrazione di sostegno (art. 413, comma 4, cod. civ., norma cui deve attribuirsi una portata generale in tutte le situazioni in cui potrebbe verificarsi sovrapposizione delle misure).

Anche successivamente, nel corso di una tutela o curatela, può richiedersi l’allargamento della capacità di agire dell’interdetto o inabilitato (art. 427, comma 1, cod. civ.). Infatti oggi varie forme di infermità di mente sono reversibili o si può con terapie alleviarne gli effetti, per cui con il miglioramento delle condizioni della persona occorre anche attenuare il regime originario più severo stabilito dalla sentenza di interdizione o inabilitazione.
Possono farne richiesta il pubblico ministero, il tutore o il curatore, nonché le persone che sono legittimate a proporre ricorso per l’interdizione e l’inabilitazione. Possono chiederlo anche l’interdetto o inabilitato, in analogia al fatto che essi possono chiedere per sé la revoca della condizione di interdizione o inabilitazione per essere sottoposti all’amministrazione di sostegno (art. 406, commi 1 e 2, cod. civ.).
Siccome rimane fermo lo status di interdizione o inabilitazione, la richiesta deve essere proposta al giudice tutelare. Il giudice tutelare, dopo avere sentito l’interessato, con decreto assume i provvedimenti attenuativi del regime precedente e può variarli nel tempo al modificarsi delle condizioni dell’interessato. Il decreto deve essere annotato nel registro delle tutele o curatele al fine di assicurare la pubblicità verso i terzi.Nel corso della tutela l’interdetto ha anche capacità processuale di proporre al tribunale, con l’assistenza di un difensore, istanza di revoca della sua interdizione, chiedendo congiuntamente al giudice tutelare di essere sottoposto ad amministrazione di sostegno (art. 406, commi 1 e 2, cod. civ.).