IL DANNO DA OCCUPAZIONE ABUSIVA DI UN IMMOBILE
 
Presupposti e criteri per l’accertamento e la determinazione della relativa indennità
 
L’occupazione abusiva di un immobile ovvero senza titolo, è legata a quelle ipotesi in cui l’utilizzazione e/o godimento del bene, ad opera di un soggetto, avviene senza il consenso esplicito o presunto del proprietario oppure quando tale consenso sia venuto successivamente a mancare.
L’occupazione abusiva, che si risolve sostanzialmente in una usurpazione dell’altrui diritto, si può, quindi, dividere in due categorie: quella in cui l’utilizzazione del bene si atteggia priva di giustificazione ab origine e quella in cui la stessa originariamente titolata ossia consentita si trasformi poi, per vicende modificative riguardanti il rapporto contrattuale che l’aveva consentita,  in non titolata.
Appartengono alla prima categoria fattispecie che attengono più immediatamente ad dato fattuale della occupazione, come ad esempio l’impossessamento di un bene all’insaputa o contro la volontà espressa o implicita del proprietario; alla seconda categoria, quelle che appartengono più propriamente ad un dato negoziale che ad un certo punto entra in crisi, come ad esempio, la vicenda di un contratto preliminare di compravendita  di un bene immobile accompagnato dalla consegna della cosa, di cui viene chiesta la risoluzione e la restituzione del bene per inadempimento del promittente compratore.
Vanno incluse nella seconda categoria anche quelle ipotesi in cui il rapporto contrattuale, da cui è scaturito il consenso alla occupazione del bene, risulti essere invalido per difetto di forma (nullità).
Si pensi, solo per fare un esempio, alla consolidata prassi dei contratti verbali stipulati per eludere le norme tributarie contro cui ha reagito il legislatore dettando disposizioni draconiane (talvolta incostituzionali vedasi art. 3, co 8 e 9 Legge 23 del 2011) per combattere il fenomeno dell’evasione fiscale e far emergere il “nero”.
Si parla di occupazione abusiva non solo con riguardo agli immobili od ai terreni ma anche in riferimento a parti di essi.
Abbiamo voluto richiamare il fenomeno dei contratti di locazione privi della  forma scritta in quanto alla relativa nullità si accompagnano sempre più spesso questioni attinenti alla conseguente occupazione non titolata, tenuto conto che comunque un consenso all’utilizzo del bene vi è stato da parte del proprietario, ancorchè nullo perché non espresso nella forma scritta richiesta ad substantiam e/o perché non registrato (omissione sanzionata parimenti con la nullità  assoluta ex art. 1 co. 346 L. 2004/311).
Ora, è noto, che la nullità non produce alcun effetto in base al principio quod nullum est nullum product effectum, e quindi retroagisce al momento della conclusione dell’accordo, con la conseguenza che l’occupazione dell’immobile si atteggerebbe priva di giustificazione  ab origine con tutti gli effetti derivanti dal dato temporale.
Purtuttavia, una interpretazione che si affida a criteri di ragionevolezza e logicità dovrebbe far escludere che lo pseudo conduttore debba essere chiamato a rispondere delle conseguenze risarcitorie derivanti da una occupazione abusiva , tale per la contrarietà al dato formale (necessità della forma scritta del contratto), a far data dall’inizio della locazione, rectius del rapporto di fatto. Ed, invero, come acutamente sostenuto dal Tribunale di Roma, in una recente sentenza (01.10.2014), lo pseudo conduttore fino ad un determinato momento (quando è sorta la controversia fra le parti)  occupa l’immobile, perché all’evidenza consegnatogli dal proprietario che ha ricevuto il pagamento del corrispettivo, fino a quando il rapporto non si  rompe trasformandolo, solo da allora, in occupazione sine titulo, in quanto da quel momento il medesimo non sarebbe più un possessore di buona fede ma al contrario di mala fede. Infatti, a fronte di un contratto nullo perché privo della forma scritta e considerate le evidenze di cui sopra si è detto, non si potrebbe non far riferimento, come  affermato nella decisione del Tribunale di Roma citata, alla disciplina di rapporti di fatto prima fra tutti quella dettata in tema di possesso ex art. 1140 c.c. Sulla questione ritorneremo.
Occorre ora esaminare le conseguenze che, secondo l’ordinamento giuridico, si determinano a seguito dell’accertata occupazione illegittima dell’immobile.
Orbene, considerato che non può revocarsi in dubbio la potenzialità dell’occupazione sine titulo ad essere produttiva di un danno risarcibile, va ricordato che sulla concreta configurabilità del danno stesso si scontrano due opposti orientamenti del Giudice di legittimità. L’uno che considera il danno in re ipsa coincidente con l’evento stesso, “discendendo dalla perdita della disponibilità del bene e dalla impossibilità di  conseguire l’utilità ricavabile dal bene medesimo in relazione alla sua natura  normalmente fruttifera” (v. ex multis Cass. 07.06.01 n. 13630; Cass. 16.04.13 n. 9137); l’altro che afferma il contrario, reputando che il danno da occupazione è un danno conseguenza “sicchè il danneggiato che ne chieda in giudizio il risarcimento è tenuto a provare di aver subito una effettiva lesione del proprio patrimonio per non aver potuto locare ovvero utilizzare il bene, per aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente, ovvero per aver subito altre situazioni pregiudizievoli, con liquidazione richiesta al Giudice del merito che può, al riguardo, avvalersi di presunzioni gravi, precise e concordanti (così Cass. 01.01.05 n. 378; Cass. 17.06.2013 n. 15111).
Tale ultima ricostruzione viene svolta  sulla base  di una condivisibile precisazione secondo cui opinare il contrario, ossia ritenere il danno in re ipsa, significherebbe affermare “la sussistenza di una presunzione in base alla quale, una volta verificatasi l’inadempimento, appartiene alla regolarità causale la realizzazione del danno patrimoniale oggetto della domanda risarcitoria, per cui la mancata conseguenza di tale pregiudizio debba ritenersi come eccezionale”, “con il risultato che la parte inadempiente ossia l’occupante sine titulo sarebbe caricato di un onere probatorio contrario, cioè obbligato da dimostrare l’inesistenza del danno in questione senza che esso sia stato provato da chi quel danno fa valere”.
Opinare nel senso voluto dalla giurisprudenza tradizionale, che vede nel danno da occupazione illegittima un danno evento, significherebbe trasformare il sistema della responsabilità civile a strumento risarcitorio di pregiudizi effettivamente patiti a strumento sanzionatorio di condotte illegittime.
È questo un punto  qualificante  l’orientamento in commento, posto efficacemente in rilievo dalla sentenza della Cassazione  2008/15814 secondo cui “il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto dall’ordinamento con caratteristiche e finalità punitive ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso né il medesimo ordinamento consente l’arricchimento se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro”.
La conseguenza di tale precisazione è quella secondo cui “anche nella ipotesi in cui il danno trovi la sua causa diretta e immediata nella situazione di illegittimità posta in essere dalla controparte, la presunzione attiene alla sola possibilità della esistenza del danno (secondo l’id quod plerumque accidit) ma non alla sua effettiva sussistenza”.
In buona sostanza, se l’occupazione illegittima è di per se idonea, secondo un giudizio di probabilità e verosimiglianza ad essere produttiva di una danno, ciò non significa che lo è per davvero nel senso che effettivamente esso sussiste.
La sussistenza del danno, allora, dovrà essere dimostrata nel caso concreto e tale prova può essere fornita anche attraverso presunzioni alle quali il Giudice potrà attribuire rilevanza, ai fini della formazione del proprio convincimento, attraverso un percorso argomentativo capace di dare debito conto della propria scelta.
Il punto di vista è diverso quindi: è possibile che un fatto sia produttivo di un danno secondo un giudizio prognostico di probabilità e verosimiglianza, riservato all’apprezzamento del Giudice ma lo stesso deve porsi la domanda, motivando sul punto, se di quel possibile danno sia stata provata la sua attualità ovvero la sua effettiva sussistenza e la sua materiale entità, potendo, al riguardo, ricorrere a presunzioni,  purchè gravi, precise e concordanti.
Tirando le fila del discorso fin qui sviluppato, possiamo tentare di formulare le seguenti conclusioni.
Appare preferibile la tesi che vede nell’occupazione senza titolo di un immobile un danno conseguenza per la cui liquidazione è necessaria la dimostrazione della sua concreta ed attuale sussistenza, la cui prova può anche risultare da presunzioni gravi, precise e concordanti, che sarà compito del Giudice individuare attraverso un congruo percorso argomentativo e motivazionale.
E’ escluso che possa farsi ricorso alle presunzioni appena ricordate quando il proprietario dell’immobile abusivamente occupato si sia intenzionalmente disinteressato della cosa mostrando, con tale comportamento, di non voler trarre le utilità che dalla stessa derivano (in questo senso v. Cass. 07.08.12 n. 14222).
Provato l’an è necessaria anche la prova del quantum.
Mette conto di rilevare, a tale ultimo riguardo, che la giurisprudenza della Cassazione ha più volte stabilito che, una volta raggiunta la prova dell’an, circa la sussistenza del danno, occorrerà la dimostrazione anche del quantum, ossia del suo preciso ammontare, salvo i casi in cui l’assolvimento di tale onere risulti “impossibile od impervio”, nel qual caso sarà legittimo il ricorso a criteri equitativi secondo il prudente apprezzamento del Giudice (v. ex multis Cass. 13469/2002; 20990/2011), Nello specifico tema del danno da occupazione illegittima, la relativa determinazione andrebbe concretamente effettuata dal Giudice sulla base del c.d. danno figurativo e, quindi, con riguardo al valore locativo del bene usurpato. E ciò con decorrenza dall’inizio della occupazione fino all’effettivo rilascio. In tale ipotesi il danneggiato dovrà fornire la prova di tale valore, facendo riferimento ad esempio a quello di immobili similari della stessa zona salvo il caso in cui ciò risulti dagli atti del processo. Quando tale prova risultasse impossibile ed impervia, allora sarebbe possibile il ricorso a criteri equitativi.
Nell’esempio fatto del contratto preliminare rimasto inadempiuto per comportamento imputabile del promittente acquirente, immesso nel possesso del bene contestualmente alla firma del contratto, i danni originati da lucro cessante per il danneggiato che non ha potuto trarre i frutti né dal pagamento del prezzo né dal godimento dell’immobile, sarebbero liquidati con riferimento all’intera durata della occupazione e non quindi a partire dalla domanda giudiziale di risoluzione del contratto (v. Cass. 21.11.2011 n. 24510; Cass. 09.04.2013 n. 8571 ed in tema di recesso dal preliminare Cass. 08.06.2012 n. 9367), nella ipotesi  in cui sia domandata la c.d. indennità per illegittima occupazione,  rimanendo aperta la questione (che dovrà essere oggetto di specifica domanda e che non riguarda il tema qui trattato) del danno originato dall’inadempimento del promittente acquirente consistente nella differenza di prezzo tra quello offerto da quest’ultimo e quello ricavato effettivamente dalla successiva  vendita dello stesso immobile.
Per quanto riguarda la situazione di possesso originata da un contratto di locazione nullo, il criterio per regolarizzare la vicenda andrebbe ricercato nelle norme che disciplinano i rapporti di fatto, prima di tutto, per la specifica determinazione dell’indennità di occupazione, quelle sull’indebito arricchimento ex art. 2041 c.c. Infatti equiparare l’indennità di occupazione al valore locativo figurativo di cui all’art. 1591 c.c. (dettato più propriamente per le ipotesi di responsabilità contrattuale in caso di ritardato rilascio del bene), significherebbe ricondurre il rapporto a quello di locazione in un ipotesi in cui invece la causa di nullità lo esclude.
Sulla base dell’art. 2041 c.c. il proprietario avrebbe diritto ad un equo ristoro da calcolarsi per l’appunto attraverso le norme di cui agli artt.li 1223, 1226, 2056, a partire dal momento in cui ha chiesto la restituzione del bene trasformandosi da quel momento il possesso di buona fede dello pseudo conduttore in possesso di mala fede, con la precisazione che l’indennizzo in questione, poichè ancorato all’azione generale di arricchimento senza causa , non comporterebbe alcun riconoscimento del c.d. lucro cessante non previsto per tale tipo di azione (cfr. Cass. 18785/2005).
Cerveteri, 24.10.2014
                                                                       Avv. Antonio Arseni