Trascrivo integralmente, omettendo il nome e i dati identificativi del procedimento, una istanza che ho presentato ad alcuni Giudici, in funzione di giudice dell'esecuzione, che ha suscitato grande interesse nel distretto di Corte di Appello di Palermo



Palermo 16 marzo 2011


 

AL TRIBUNALE PENALE

in composizione monocratica

P A L E R M O


 


 

Oggetto:Richiesta di procedimento di esecuzione ex artt. 666 e 673 C.P.P.


 

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Nell'interesse del Signor

............

nato ........................, residente in Palermo, elettivamente domiciliato in Palermo in Via Costantino Nigra n.51, il sottoscritto difensore di fiducia, giusta procura che si allega,

C H I E D E

che, ai sensi degli artt. 666 e 673 C.P.P., venga avviato procedimento di esecuzione per la revoca della sentenza emessa nell'ambito del procedimento penale n.......... R.G.N.R. e n.................R.G. Tribunale il ....... dal Tribunale di Palermo, sezione ... penale, in composizione monocratica, divenuta irrevocabile il ............, con la quale l'imputato è stato condannato alla pena di mesi cinque di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale, per il reato di cui all'art. 14 comma 5 ter del Decreto Legislativo n. 286 del 25 luglio 1998.

La presente richiesta di procedimento di esecuzione è fondata sugli argomenti di seguito specificati.

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Il procedimento penale di riferimento e l'intervento contrasto tra la normativa interna e l'ordinamento comunitario

Come è noto, con la sentenza appena citata (cfr. allegati nn.1-2), l'imputato ............. veniva condannato alla pena di mesi cinque di reclusione per il reato di cui all'art. 14 comma 5 ter del Decreto Legislativo n. 286 del 25 luglio 1998, perché, in violazione dell'ordine impartito dal Questore di Palermo del ........., notificato in pari data, non ottemperava alle prescrizioni ricevute e si tratteneva senza alcun giustificato motivo all'interno del territorio nazionale.

Tuttavia, la sanzione penale prevista per il delitto in questione – dopo l'emanazione della Direttiva 2008/115/CE del Parlamento Europeo, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi, recepita in Italia dal 25.10.2010 – è divenuta incompatibile con l'ordinamento comunitario, talché la sentenza di condanna sopra menzionata deve essere revocata ex art. 673 C.P.P., trovando applicazione nel caso in esame la disciplina della successione delle leggi nel tempo ex art. 2 C.P..

Come è noto, infatti, nell'ordinamento italiano che regola la materia della immigrazione, il delitto di inottemperanza all'ordine del Questore per l'allontanamento dello straniero dal territorio dello stato, previsto dall'art. 14 del Decreto Legislativo n.286 del 25 luglio 1998 e succ. mod. si afferma che il responsabile soggiace alla pena della reclusione da sei mesi ad un anno, se l'espulsione è dipesa dalla scadenza del permesso di soggiorno da oltre sessanta giorni o dalla mancata richiesta di rinnovo o dal rifiuto della relativa richiesta; mentre, al comma 5 quater, quella della reclusione da uno a cinque anni, se – come è avvenuto nel caso di specie – lo straniero destinatario del provvedimento di espulsione continua a permanere illegalmente nel territorio dello Stato.

La direttiva comunitaria 2008/115/CE, che si allega per comodità di consultazione (cfr. allegato n. 3), emanata dall'Unione Europea il 16.12.2008 – con obbligo (Art.20) per gli stati membri di adeguare i rispettivi ordinamenti interni entro il 24.12.2010 – ha disciplinato, invece, la procedura di rimpatrio in maniera del tutto diversa e sicuramente meno afflittiva rispetto alle disposizioni di cui al Decreto Legislativo 286/98: la normativa europea, infatti, prevede, in caso di soggiorno irregolare nello Stato membro, l'adozione nei confronti dello straniero della procedura della partenza volontaria (art. 7) con assegnazione di un termine da sette a trenta giorni per l'allontanamento spontaneo del cittadino straniero, ed eventualmente, in caso di mancato allontanamento volontario del soggetto, la procedura di rimpatrio coattivo (art.8) previa emanazione del relativo ordine.

Inoltre, quando non è possibile eseguire immediatamente l'allontanamento coattivo dello straniero non ottemperante e neppure ricorrere a misure alternative di controllo (obbligo di presentazione periodica all'Autorità e di dimora, garanzia finanziaria, ritiro di documenti), la normativa europea prevede (art.15) il ricorso al trattenimento dello straniero presso appositi centri di permanenza temporanei per il tempo necessario all'espletamento del rimpatrio e, comunque, per una durata non superiore ai sei mesi, prorogabili fino a diciotto in presenza di procedure particolarmente complesse.

Come si vede, dunque, la direttiva comunitaria in questione, a fronte della inottemperanza dello straniero rispetto alla disposizione di espatrio ricevuta dall'Autorità, pur consentendo lo Stato membro a limitare la libertà personale del soggetto con la misura anzidetta (permanenza per non oltre 18 mesi in centri di accoglienza), non contempla alcuna sanzione penale e, comunque, non consente l'adozione di misure restrittive della libertà personale dello straniero scisse dal procedimento amministrativo di rimpatrio o eccedenti la durata anzidetta; al contrario l'ordinamento interno italiano, conferendo autonoma rilevanza penale alla medesima condotta (inottemperanza all'ordine di rimpatrio) sanziona la fattispecie con pene detentive (reclusione da uno a cinque anni) e, dunque, con conseguente applicazione – per il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale – di una misura coercitiva della libertà personale obiettivamente non comparabile, per qualità e per potenziale durata, alle previsioni comunitarie concernenti la permanenza in centri di accoglienza durante l'espletamento delle procedure amministrative.

Il contrasto oggettivo tra i due ordinamenti, peraltro, diviene ancor più rilevante se si considera che la direttiva comunitaria in questione – come viene richiamato nelle considerazioni preliminari (c.d. “considerando”) - ha recepito i principi riconosciuti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (cfr. considerando nr.24), ribadendo che “l'uso di misure coercitive dovrebbe essere espressamente subordinato al rispetto dei principi di proporzionalità e di efficacia per quanto riguarda i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti” (cfr. considerando n. 13).

L'incompatibilità trai due ornamenti, inoltre, è oggi divenuta attuale anche sotto il profilo formale, poiché è scaduto il termine del 24 dicembre 2010 previsto dall'art. 20 della direttiva 2008/115/CE per l'adozione, da parte di tutti gli Stati aderenti alla Comunità Europea, delle disposizioni di attuazione per conformarsi alla normativa comunitaria.

Peraltro, il mancato intervento del legislatore nello Stato italiano e la omessa attuazione della direttiva europea hanno comportato la permanenza del contrasto tra le previsioni normative di cui all'art. 14 Decreto Legislativo 25 luglio 1998 n. 286 e succ. mod. e le disposizioni, gerarchicamente sovraordinate, introdotte dalla direttiva comunitaria, sicuramente vigenti ad ogni effetto anche in Italia dopo la scadenza del termine di attuazione.

Oggi, dunque, si devono considerare le iniziative da compiersi a fronte della incompatibilità che si è determinata tra la norma penale vigente all'epoca del fatto contestato all'imputato ................ e le più miti disposizioni comunitarie sopravvenute nella medesima materia con effetti vincolanti per l'ordinamento italiano.

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L'incompatibilità della norma penale interna con l'ordinamento comunitario nelle statuizioni della Corte Costituzionale

Gli effetti della incompatibilità tra disposizioni normative interne e ordinamento comunitario hanno da tempo fornito occasione di autorevoli interventi della Corte Costituzionale, innanzi alla quale la questione di fondo è stata proposta e trattata sia nell'ambito di conflitti di attribuzione che comportavano la valutazione di diritti soggettivi tutelati dall'ordinamento comunitario, sia nell'ambito di questioni afferenti la pretesa incostituzionalità di norme interne contrastanti con la disciplina comunitaria avente valore ed efficacia di legge per gli Stati membri, in ordine alle quali si eccepiva sostanzialmente la potenziale disparità di trattamento tra cittadini per situazioni giuridiche analoghe regolate diversamente.

All'esito delle proprie valutazioni – che, di seguito, converrà richiamare sinteticamente per agevolare l'esposizione della questione che oggi si pone – l'Alta Corte ha sempre sancito il principio per cui, a fronte del contrasto tra i due ornamenti contemporaneamente vigenti negli stati membri della Comunità Europea, compete al Giudice ordinario verificare l'incompatibilità dei due testi normativi ed, eventualmente, dare applicazione concreta alla disposizione comunitaria che deve prevalere su quella interna.

Infatti, con sentenza n.389 del 4 luglio 1989 (cfr. allegato n.4), la Corte – intervenendo nell'ambito di un conflitto di attribuzione sollevato dalla Provincia autonoma di Bolzano in materia di accesso agli alloggi di edilizia economica e popolare da parte di cittadini di Stati membri della Comunità Economica Europea – aveva affrontato la questione concernente i rapporti tra le norme comunitarie direttamente applicabili e le norme di legge degli Stati membri con esse incompatibili, sancendo la prevalenza della disposizione comunitaria rispetto a quella interna contrastante.

Nell'occasione la Corte – muovendo dal riconoscimento dell'ordinamento comunitario come fonte normativa esterna che condizione il sistema normativo interno allo Stato membro, anche in forza dei principi costituzionali (art. 11) di parità tra gli Stati e dell'esigenza di un ordinamento che assicuri la giustizia tra le Nazioni – ha sancito l'immissione diretta nell'ordinamento interno delle disposizioni comunitarie immediatamente applicabili, con conseguente operatività di queste ultime quali disposizioni di rango primario investite di forza o valore di legge.

Sulla scorta di tale premessa la Corte ha poi chiarito che le norme comunitarie direttamente applicabili prevalgono rispetto alle norme nazionali eventualmente incompatibili, anche se di rango legislativo, e – sebbene dalle prime non scaturiscano direttamente effetti estintivi per le seconde – il contrasto determinatosi tra le due disposizioni deve comportare la “disapplicazione” della norma interna.

La Corte, infatti, ha affermato che “più precisamente, l'eventuale conflitto fra il diritto comunitario direttamente applicabile e quello interno, proprio perché suppone un contrasto di quest'ultimo con una norma prodotta da una fonte esterna avente un suo proprio regime giuridico e abilitata a produrre diritto nell'ordinamento nazionale entro un proprio distinto ambito di competenza, non dà luogo a ipotesi di abrogazione o di deroga, né a forme di caducazione o di annullamento per invalidità della norma interna incompatibile, ma produce un effetto di disapplicazione di quest'ultima, seppure nei limiti di tempo e nell'ambito materiale entro cui le competenze comunitarie sono legittimate a svolgersi”.

Ribaditi questi principi, si deve concludere, con riferimento al caso di specie, che tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza o valore di legge) – tanto se dotati di poteri di dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri, come gli organi amministrativi – sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con le norme (...) del Trattato C.E. (...)”.

La questione della incompatibilità tra norme interne e disposizioni comunitarie di segno opposto, peraltro, è già stata ulteriormente riesaminata dalla Corte Costituzionale anche con specifico riferimento al comparto penale, con conseguenze del tutto analoghe alla precedente pronunzia, sia per quanto attiene al principio generale della prevalenza della norma comunitaria su quella interna, sia per l'obbligo del giudice di disapplicare la norma interna divenuta incompatibile con l'ordinamento comunitario.

Già nel 2006, infatti, la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 454 del 13.12.2006 (cfr. allegato n. 5), intervenendo in materia di scommesse clandestine, ha affrontato – oltre ai vizi dedotti sotto un profilo di incostituzionalità – il problema della incompatibilità del combinato disposto di cui all'art. 88 del R.D. 18.06.1931 n. 773 (approvazione del T.U.L.P.S.) in relazione all'art. 4, comma 4 bis, L. 13.12.89 n. 401 (Interventi nel settore del gioco e delle scommesse clandestine), nella parte in cui subordina il rilascio della licenza per l'esercizio delle scommesse al previo conseguimento della concessione dello Stato Italiano, in contrasto con i principi della “libertà di stabilimento” e della “libera circolazione dei servizi” sanciti rispettivamente dagli artt. 43 e 49 del Trattato C.E.E..

In quella sede l'Alta Corte – dopo aver ricondotto i vizi di incostituzionalità dedotti dai Giudici remittenti alla sola ipotesi di incompatibilità delle norme interne rispetto alle norme comunitarie – ha sancito il principio per cui, a fronte del rilevato contrasto tra i due ornamenti, “il giudice nazionale deve dare piena ed immediata attuazione alle norme comunitarie provviste di efficacia diretta e non applicare in tutto o anche solo in parte le norme interne con esse inconciliabili”.

Inoltre, con sentenza n. 284 del 4 luglio 2007 (cfr. allegato n.6), la Corte Costituzionale è ritornata sull'argomento – sempre in materia di incompatibilità della normativa interna che contempla sanzioni penali per l'esercizio abusivo dell'attività di scommessa rispetto al principio comunitario della libertà di impresa – ed ha ribadito che “le norme comunitarie provviste di efficacia diretta preludono al giudice comune l'applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi - (...) - in ordine all'esistenza del conflitto. La non applicazione deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente da questa Corte, del rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona”.

In altri termini, dunque, il mero contrasto – ancorché concettualmente insanabile – tra la disposizione interna e quella comunitaria, sebbene comporti potenzialmente una disparità di trattamento rispetto a questioni giuridiche analoghe, non può trovare soluzione con l'incidente di legittimità costituzionale, ma deve condurre il Giudice di merito a recepire ed applicare in via ordinaria il trattamento normativo comunitario, senza tener conto di quello interno; mentre la valutazione di legittimità costituzionale si può e si deve provocare esclusivamente quando la norma comunitaria – oltre a rivelarsi incompatibile con la legislazione ordinaria interna – contrasti direttamente con un principio fondamentale della Carta Costituzionale.

Da ultimo il principio del sostanziale divieto di applicazione della norma interna incompatibile con quella comunitaria è stato ancor più chiaramente ribadito dall'Alta Corte con l'ordinanza n. 415 del 3 dicembre 2008 (cfr. allegato n.7), laddove – pur sempre nell'ambito di un ulteriore giudizio di legittimità costituzionale concernente disposizioni in materia di scommesse clandestine, che offriva anche spunti di incompatibilità della norma rispetto alla direttiva comunitaria n. 98/34/CE – ha sancito che “nella sistemazione dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario risultante dalla giurisprudenza costituzionale, in virtù dell'art. 11 della Costituzione, la normativa comunitaria dotata del requisito dell'immediata applicabilità entra e permane in vigore del nostro sistema giuridico senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge nazionale; pertanto, spetta al giudice comune accertare se la fattispecie al suo esame ricada sotto il disposto di una disciplina comunitaria del tipo indicato e verificare, (...), la compatibilità delle norme nazionali, essendo ad esso preclusa l'applicazione di queste ultime qualora si convinca dell'esistenza di un conflitto”.

I principi elaborati dalla Corte Costituzionale e fin qui richiamati, inoltre, hanno recentemente trovato concreta applicazione da parte della Magistratura ordinaria nell'ambito di un procedimento penale per il medesimo reato di inottemperanza all'ordine di rimpatrio, nel cui ambito – come si vedrà più avanti – il Giudice ha disapplicato la norma interna per recepire l'opposta normativa comunitaria.

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L'incompatibilità dell'art. 14 comma 5 quater D.L.vo n. 286/1998 con la direttiva Comunitaria 2008/115/CE nella valutazione della Magistratura ordinaria.

La questione della incompatibilità tra i due ordinamenti, come si è accennato, è stata da ultimo (5 gennaio 2011) ripresa dalla Magistratura di merito proprio in relazione ad una identica fattispecie di inottemperanza all'ordine del Questore per l'allontanamento dello straniero del territorio dello Stato ex art.14 comma 5 quater del Decreto Legislativo 286/1998, reputata ormai contrastante con le disposizioni normative più favorevoli introdotte dalla direttiva comunitaria 2008/115/CE.

Infatti, con sentenza del 5 gennaio 2011 (cfr. allegato n.8), il Tribunale penale di Torino in composizione monocratica – dopo aver rilevato l'incompatibilità tra la norma penale interna e le disposizioni contenute nella direttiva anzidetta, nonché l'efficacia della normativa comunitaria per gli Stati membri dopo la scadenza del termine del 24.12.2010 previsto dall'art. 20 del medesimo testo – ha recepito integralmente i principi chiariti dalla Corte Costituzionale, osservando che:

  1. a fronte dello specifico contrasto normativo, non si profila l'esigenza di sollevare incidente di legittimità costituzionale poiché per effetto della direttiva comunitaria no si accusa alcuna lesione dei principi tutelati dalla costituzione, ma soltanto una questione di incompatibilità di norme di rango diverso, integralmente valutabile dal Giudice ordinario nei termini più volte ribaditi dall'Alta Corte;

  2. la prevalenza della direttiva comunitaria in materia di rimpatri – che assume efficacia immediata e diretta (self-executing – cfr. pag.3 sentenza allegata) negli Stati membri sia per la specificità del testo normativo, che per la prescrizione di adeguamento obbligatorio dell'ordinamento interno entro il termine perentorio del 24.12.2010 – non consente più l'applicazione della disposizione contrastante con il testo comunitario avente valore di legge;

  3. la condotta antigiuridica consumata anteriormente alla data di scadenza del termine di attuazione della direttiva comunitaria non è più penalmente perseguibile a partire dal 25.12.2010, poiché la disciplina penale in questione è divenuta incompatibile con norme della direttiva dotate di effetto diretto e si deve, dunque, applicare il principio della successione delle leggi nel tempo ex art. 2 comma 2 C.P. - per il quale nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali.

Alla stregua di tali considerazioni il Giudicante, con la sentenza dianzi menzionata, ha assolto l'imputato perché il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato.

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Conclusioni e richieste

In forza del contenuto specifico della direttiva comunitaria fin qui richiamata e dei principi di diritto sanciti dalla Corte Costituzionale, occorre adesso riconsiderare la sentenza di condanna emessa il .............. dalla ....... sezione del Tribunale di Palermo in composizione monocratica a carico dell'imputato ............... per il reato di cui all'art. 14 comma 5 ter del Decreto Legislativo n. 286/1998 e succ. mod., che è divenuta irrevocabile in data ..........

Per effetto dell'emanazione della direttiva comunitaria 2008/115/CE, oggi vigente tra gli Stati membri della Comunità Europea, la anzidetta fattispecie penale interna è divenuta incompatibile con le previsioni normative – gerarchicamente sovraordinate – introdotte dall'ordinamento comunitario, che non prevedono alcuna sanzione penale per la condotta tenuta dallo straniero che non ottemperi all'ordine di rimpatrio ricevuto.

Ancorché tale incompatibilità non comporti, sotto un profilo formale, una espressa abolitio criminis della disposizione penale contemplata dall'ordinamento interno, gli effetti sostanziali riconnessi alla situazione giuridica che si è venuta a determinare sono assolutamente equiparabili a tale condizione e comportano per il Giudice di merito – come del resto è stato reiteratamente sancito dall'Alta Corte Costituzionale – l'obbligo di uniformarsi alla normativa comunitaria, omettendo in concreto di applicare le norme interne divenute incompatibili con l'ordinamento europeo; ovvero – in caso di condanna già intervenuta – revocando la relativa pronunzia e disponendo la cessazione degli effetti penali in applicazione dei principi di cui all'art. 2 C.P..

Nel caso di specie, peraltro, ancorché la sentenza di condanna sia divenuta irrevocabile, è certo che i relativi effetti penali sono ancora attuali, non soltanto per le eventuali refluenze che possono ancora scaturire a carico dell'interessato (limitazione della sospensione condizionale, permanenza della condanna nel casellario, ecc.), ma soprattutto perché nei confronti dell'imputato è stato emesso in data ............. avvio del procedimento amministrativo finalizzato al rigetto della dichiarazione di emersione da lavoro irregolare presentata dal signor ..............., datore di lavoro del signor ..................... (cfr. allegati nn.9-10-11), talché ancor oggi sussiste un interesse concreto alla revoca della prima pronunzia di condanna per eliminare quantomeno le conseguenze pregiudizievoli di tale contestazione.

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Tanto premesso, stante l'intervenuta incompatibilità dell'art. 14 comma 5 ter e quater D.L.vo n. 286 del 25.07.98 e succ. mod. con gli artt. 7 e segg. della Direttiva Comunitaria 2008/115/CE, il sottoscritto difensore chiede che, ai sensi dell'art. 673 C.P.P.,

VOGLIA IL TRIBUNALE

revocare la sentenza n............., emessa nell'ambito del procedimento penale n................. RGNR e n................. RG Tribunale in data ................. dalla quarta sezione penale del Tribunale di Palermo, in composizione monocratica, passata in giudicato il ..................., nei confronti di ......................, nato a .........................., con la quale l'imputato è stato condannato alla pena di mesi di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale, per il reato di cui all'art. 14 comma 5 ter del Decreto Legislativo n. 286 del 25 luglio 1998 e succ. mod., dichiarando che oggi – per effetto della direttiva comunitaria anzidetta – il fatto non è previsto dalla legge come reato e adottando al contempo gli eventuali provvedimenti conseguenti.

Con riguardo.


 


 

Avv. Giampiero Santoro