Molto spesso si tende a confondere la capacità a testimoniare con l’attendibilità del teste, con tutti i conseguenti malintesi logico-interpretativi.
Invero, la capacità a testimoniare è disciplinata dall’art. 246 c.p.c., laddove si fa espresso riferimento quale impedimento all’assunzione della testimonianza, (solo) alla presenza di un interesse giuridico -cioè meritevole di tutela secondo l’ordinamento- in capo al teste che legittimerebbe la sua partecipazione al giudizio, contrariamente al diverso giudizio sull’attendibilità e sulla veridicità del teste che deve esclusivamente fondarsi sul contenuto della deposizione testimoniale.


Del resto, un giudizio sull’attendibilità del teste fondato su valutazioni aprioristiche, finirebbe con l’estendere indebitamente il contenuto precettivo dell’art. 246 c.p.c. a soggetti ivi non contemplati, in quanto escluderebbe dal novero dei soggetti aventi l’attitudine a rendere testimonianza, persone non aventi alcun interesse –neanche di mero fatto- connesso al giudizio che, in qualche maniera ne legittimerebbe la partecipazione.

Nel caso in cui sia presente un “vincolo di parentela”, nell’ottica della valutazione della credibilità del teste, esso non costituisce né una qualità personale, né necessariamente presuppone particolari rapporti personali di promiscuità patrimoniale, essendo ben possibile che entrambi i soggetti coinvolti nel richiamato rapporto di parentela siano di maggiore età ed economicamente autonomi.


Per altro verso, tanto non può -di per sé- essere sufficiente ad escludere l’idoneità del teste a rendere testimonianza, in primis poiché, nella prospettiva di cui all’art. 246 c.p.c., il rapporto di parentela implica un interesse che si potrebbe definire meramente affettivo e per ciò solo del tutto indifferente per il diritto; in secundis, bisogna tener conto che, doverosamente prescindendosi dagli eventuali rapporti personali di natura parentale fra una delle parti ed il testimone, essi, in ogni caso, non possono comunque infirmare la credibilità di quest’ultimo.

In altre parole, soffermarsi sulla persona del teste mediante un giudizio funzionale ad evidenziarne il requisito dell’incapacità oggettiva a testimoniare, definendola erroneamente inattendibilità, è dimostrato il più delle volte dalla pressoché nulla attenzione per il contenuto della deposizione che, lo si rammenta, è l’unico dato che può giustificare una valutazione di inattendibilità del teste medesimo.

In proposito la Suprema Corte di Cassazione, sezione civile, con sentenza n. 12362 del 24/05/2006 ha avuto modo di affermare che:“…la valutazione in ordine all’attendibilità di un teste deve avvenire soprattutto in relazione al contenuto della dichiarazione e non aprioristicamente per categorie, in quanto in quest’ultima ipotesi il giudizio sull’attendibilità sfocerebbe impropriamente in quello sulla capacità a testimoniare in rapporto a categorie di soggetti che sarebbero, di per sé, inidonei a fornire una valida testimonianza, laddove la capacità a testimoniare differisce dalla valutazione sull’attendibilità del teste, operando su piani diversi, atteso che l’una, ai sensi dell’art. 246 cod. proc. civ., dipende dalla presenza in un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza delle dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite“(cfr., ex plurimis, Corte di Cass., 21/08/2004 n. 16529).


Altrimenti detto, se per le svariate circostanze della vita ogni qualvolta si rendesse necessario citare un familiare o comunque una persona alla quale si fosse legati da vincoli di parentela, questi, per ciò solo, fosse giudicata sempre inattendibile, si finirebbe col reintrodurre surrettiziamente il divieto di testimonianza per il coniuge, i parenti e gli affini di cui all’art. 247 c.p.c., dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale ben 38 anni or sono, con sentenza del 23 luglio 1974, n.ro 248.
Orbene, il diffuso (pre)giudizio sulla inidoneità del teste a rendere testimonianza per la (supposta) intrinseca inattendibilità dovuta allo stretto vincolo familiare, riflette pedissequamente proprio le ragioni che hanno portato il Giudice delle Leggi a dichiarare incostituzionale l’articolo 247 del codice di procedura civile.


Si legge infatti, fra l’altro nella motivazione di quella storica sentenza che “il divieto non ha alcun riferimento all’oggetto specifico del giudizio, né alla rilevanza degli interessi in giuoco, ma, pur ammettendo in genere il mezzo della prova per testi, discrimina la capacità, o legittimazione, di questi secondo che siano o non siano in un dato rapporto personale con le parti. Ricorre qui un giudizio preventivo, da parte del legislatore, di inattendibilità della deposizione testimoniale di chi è legato alla parte da stretto vincolo familiare. A giustificare siffatto regime di aprioristica valutazione negativa di credibilità non basta addurre criteri di probabilità. Esso – come già rilevato dalla dottrina (e specialmente, fin dal secolo scorso, da quella francese, con riguardo alle limitazioni delle prove testimoniali dettate dagli artt. 268 e 283 del code de procedure civile del 1806) – reca l’impronta di antichi istituti del processo canonico e comune e in particolare del metodo di valutazione quantitativa dei testi; e non ha valida ragione d’essere nei moderni sistemi, che in conformità dell’evoluzione giuridica universale in tema di prove tendono in misura sempre più larga, pur con alcune limitazioni inerenti alle così dette prove legali, al principio del libero convincimento del giudice. È perciò che la maggior parte delle più moderne legislazioni straniere respingono il criterio di una aprioristica esclusione del valore probatorio della testimonianza di alcuni soggetti fondata soltanto su motivi di sospetto di non sincerità secondo indici di probabilità, affidandone invece la valutazione al prudente apprezzamento del giudice da compiersi a posteriori, caso per caso. L’art. 247 del nostro codice processuale civile, non solo contrasta con siffatta evoluzione giuridica, ma viola, per quanto sopra si è detto, l’art. 24 della Costituzione, limitando ingiustificatamente il diritto alla prova, che costituisce nucleo essenziale del diritto di azione e di difesa. La norma va, pertanto, dichiarata illegittima, restando assorbito il profilo concernente il contrasto con l’art. 3 della Costituzione” (cfr., Corte Cost., 248/1974).


In ultima analisi, il giudizio operato dal Giudice sul valore probatorio della testimonianza, da compiersi a posteriori, caso per caso, non può che fondarsi sul contenuto della deposizione, senza indulgere in vizi logici ed errori giuridici circa l’inattendibilità del teste attraverso ragionamenti circolari privi di valore informativo, cioè per via dello stretto vincolo familiare di per sé considerato. L’unico effetto involuto di siffatto modo di procedere, è quello di sterilizzare il supremo insegnamento del Giudice delle Leggi.