Ad ogni modo, è importante sapere che sono tratti comuni della mediazione, in tutte le forme nelle quali può essere esercitata, l’intervento di un terzo che non si trova in una posizione di autorità/superiorità verso le parti e il ricorso ad un meccanismo più o meno elaborato di “sostegno decisionale”, cioè di sussidio e affiancamento del mediatore, con le sue competenze e la sua esperienza, nel percorso decisionale affrontato dai coniugi. Alla base della mediazione familiare, infatti, c’è l’assunto secondo cui le soluzioni prese autonomamente sono necessariamente migliori di quelle che vengono imposte dall’alto. I principali obiettivi di ogni mediazione familiare si possono sintetizzare come segue: - facilitare il dialogo fra le parti; - riorganizzare la comunità familiare, ridefinendo i rapporti fra i coniugi; - restituire in capo ai diretti interessati le responsabilità delle scelte che orienteranno l’organizzazione delle loro rispettive vite nella fase post-separazione. Il ruolo del mediatore consiste nel permettere ai soggetti coinvolti di esprimere le esigenze e le aspettative personali in un clima mitigato e quindi ben diverso da quello di reciproca accusa che caratterizza la procedura giudiziaria. La presenza di un terzo imparziale è proprio la condizione indispensabile al raggiungimento dell’obiettivo di ristabilire il dialogo fra le parti: compito del mediatore è vigilare affinchè i coniugi dispongano di una pari quota di potere negoziale. La separazione, tradizionalmente, viene vissuta come una battaglia legale in cui chi riesce ad occupare una posizione di forza trionfa, ottenendo dei vantaggi ai danni dell’altro. La mediazione invece interviene per modificare la prospettiva del conflitto, reinquadrando la separazione in termini di “riorganizzazione” e non più di “dissoluzione” della famiglia nucleare. Nel nostro ordinamento giuridico, il ricorso alla mediazione familiare è stato ufficializzato con la legge di riforma n. 54 del febbraio 2006, che ha integrato l’articolo n. 155-sexies del Codice civile specificando che nel corso di una procedura di separazione il giudice che ne ravvisi l’opportunità può proporre ai coniugi di tentare una mediazione per raggiungere un accordo “con particolare riferimento”, recita la legge, “alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli”. Normalmente, gli accordi raggiunti in sede di mediazione non vengono mai sovvertiti dal giudice, che di principio si limita a verificare l’effettiva rispondenza delle pattuizioni col preminente interesse dei figli minori coinvolti e poi provvede a confermarne il contenuto con un atto giuridico che prende il nome di “omologa”. E’ importante evidenziare che, come la stessa disposizione normativa esprime chiaramente, il giudice non può mai imporre il ricorso ad una mediazione familiare, ma solo suggerirlo alle parti: i coniugi, dopo aver espresso il loro orientamento ed essere stati adeguatamente informati dal giudice stesso, sono liberi di esprimere il proprio orientamento ed eventualmente di rifiutare il consenso a sottoporsi a tale procedura stragiudiziale. La disposizione legislativa è condivisibile, perchè non avrebbe alcun senso costringere due soggetti a trovare un accordo, che poi ovviamente si rivelerebbe privo del tipico e irrinunciabile requisito dell’auto-esecutività. Probabilmente un giudice non guarderà con favore ad un aprioristico e ingiustificato rifiuto opposto alla sua proposta di tentativo di mediazione, specialmente quando nel conflitto è coinvolta la prole: infatti, un genitore che incomprensibilmente non presta il proprio consenso all’attuazione di un percorso virtuoso, capace di tutelare il bene dei figli, appare senz’altro più attento ai propri interessi egoistici che non preoccupato per il futuro e la serenità dei suoi bambini. Sia chiaro, non c’è nessun automatismo giuridico: è logico, però, che il giudice nell’effettuare la valutazione complessiva sull’idoneità del genitore ad ottenere la custodia esclusiva del minore, non potrà fare a meno di valutare, assieme ad altri elementi, anche la condotta processuale della parte. E’ molto probabile, per esempio, che un genitore che insiste nel chiedere l’affidamento esclusivo del figlio solo per fare dispetto al coniuge da cui si sta separando sia “smascherato” dal giudice nel momento in cui si rifiuta immotivatamente di dare corso al tentativo di mediazione familiare da lui suggerito. Il meccanismo proposto dalla legge è per lo più destinato a concretizzarsi nei casi in cui i coniugi hanno originariamente posto in essere una domanda di separazione giudiziale in contenzioso, ma oltre ad esso si segnala la possibilità di esperire una mediazione familiare in vista di una separazione consensuale: normalmente avviene che siano i coniugi a contattare un organismo di mediazione, per essere assistiti da un terzo imparziale che cura l’interesse dei loro figli mentre redigono un efficace accordo di separazione, che sarà poi sottoposto al giudice per ottenerne la legale formalizzazione. Spesso le parti chiedono di essere affiancate dai loro avvocati durante la mediazione, ma bisogna che facciano attenzione: nell’ambito delicato delle relazioni familiari più che in qualsiasi altro settore, se i legali non sono solidamente preparati alla risoluzione alternativa dei conflitti esiste il forte rischio che con la loro condotta facciano naufragare ogni ipotesi di accordo, vanificando il tentativo di mediazione voluto dai loro assistiti. Al contrario, un legale avveduto saprà tutelare i diritti del suo cliente garantendo il sostanziale equilibrio dei rapporti giuridici fra le parti, contribuendo a dar vita ad un accordo finale equo e condivisibile.
La mediazione familiare
Uno strumento utile per attenuare l’effetto traumatico di una separazione coniugale, a tutto beneficio dei figli.
Avv. Rossella Di Costanzo
di Monza, MB, Italia
Letto 2699 volte dal 09/11/2009
Ad ogni modo, è importante sapere che sono tratti comuni della mediazione, in tutte le forme nelle quali può essere esercitata, l’intervento di un terzo che non si trova in una posizione di autorità/superiorità verso le parti e il ricorso ad un meccanismo più o meno elaborato di “sostegno decisionale”, cioè di sussidio e affiancamento del mediatore, con le sue competenze e la sua esperienza, nel percorso decisionale affrontato dai coniugi. Alla base della mediazione familiare, infatti, c’è l’assunto secondo cui le soluzioni prese autonomamente sono necessariamente migliori di quelle che vengono imposte dall’alto. I principali obiettivi di ogni mediazione familiare si possono sintetizzare come segue: - facilitare il dialogo fra le parti; - riorganizzare la comunità familiare, ridefinendo i rapporti fra i coniugi; - restituire in capo ai diretti interessati le responsabilità delle scelte che orienteranno l’organizzazione delle loro rispettive vite nella fase post-separazione. Il ruolo del mediatore consiste nel permettere ai soggetti coinvolti di esprimere le esigenze e le aspettative personali in un clima mitigato e quindi ben diverso da quello di reciproca accusa che caratterizza la procedura giudiziaria. La presenza di un terzo imparziale è proprio la condizione indispensabile al raggiungimento dell’obiettivo di ristabilire il dialogo fra le parti: compito del mediatore è vigilare affinchè i coniugi dispongano di una pari quota di potere negoziale. La separazione, tradizionalmente, viene vissuta come una battaglia legale in cui chi riesce ad occupare una posizione di forza trionfa, ottenendo dei vantaggi ai danni dell’altro. La mediazione invece interviene per modificare la prospettiva del conflitto, reinquadrando la separazione in termini di “riorganizzazione” e non più di “dissoluzione” della famiglia nucleare. Nel nostro ordinamento giuridico, il ricorso alla mediazione familiare è stato ufficializzato con la legge di riforma n. 54 del febbraio 2006, che ha integrato l’articolo n. 155-sexies del Codice civile specificando che nel corso di una procedura di separazione il giudice che ne ravvisi l’opportunità può proporre ai coniugi di tentare una mediazione per raggiungere un accordo “con particolare riferimento”, recita la legge, “alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli”. Normalmente, gli accordi raggiunti in sede di mediazione non vengono mai sovvertiti dal giudice, che di principio si limita a verificare l’effettiva rispondenza delle pattuizioni col preminente interesse dei figli minori coinvolti e poi provvede a confermarne il contenuto con un atto giuridico che prende il nome di “omologa”. E’ importante evidenziare che, come la stessa disposizione normativa esprime chiaramente, il giudice non può mai imporre il ricorso ad una mediazione familiare, ma solo suggerirlo alle parti: i coniugi, dopo aver espresso il loro orientamento ed essere stati adeguatamente informati dal giudice stesso, sono liberi di esprimere il proprio orientamento ed eventualmente di rifiutare il consenso a sottoporsi a tale procedura stragiudiziale. La disposizione legislativa è condivisibile, perchè non avrebbe alcun senso costringere due soggetti a trovare un accordo, che poi ovviamente si rivelerebbe privo del tipico e irrinunciabile requisito dell’auto-esecutività. Probabilmente un giudice non guarderà con favore ad un aprioristico e ingiustificato rifiuto opposto alla sua proposta di tentativo di mediazione, specialmente quando nel conflitto è coinvolta la prole: infatti, un genitore che incomprensibilmente non presta il proprio consenso all’attuazione di un percorso virtuoso, capace di tutelare il bene dei figli, appare senz’altro più attento ai propri interessi egoistici che non preoccupato per il futuro e la serenità dei suoi bambini. Sia chiaro, non c’è nessun automatismo giuridico: è logico, però, che il giudice nell’effettuare la valutazione complessiva sull’idoneità del genitore ad ottenere la custodia esclusiva del minore, non potrà fare a meno di valutare, assieme ad altri elementi, anche la condotta processuale della parte. E’ molto probabile, per esempio, che un genitore che insiste nel chiedere l’affidamento esclusivo del figlio solo per fare dispetto al coniuge da cui si sta separando sia “smascherato” dal giudice nel momento in cui si rifiuta immotivatamente di dare corso al tentativo di mediazione familiare da lui suggerito. Il meccanismo proposto dalla legge è per lo più destinato a concretizzarsi nei casi in cui i coniugi hanno originariamente posto in essere una domanda di separazione giudiziale in contenzioso, ma oltre ad esso si segnala la possibilità di esperire una mediazione familiare in vista di una separazione consensuale: normalmente avviene che siano i coniugi a contattare un organismo di mediazione, per essere assistiti da un terzo imparziale che cura l’interesse dei loro figli mentre redigono un efficace accordo di separazione, che sarà poi sottoposto al giudice per ottenerne la legale formalizzazione. Spesso le parti chiedono di essere affiancate dai loro avvocati durante la mediazione, ma bisogna che facciano attenzione: nell’ambito delicato delle relazioni familiari più che in qualsiasi altro settore, se i legali non sono solidamente preparati alla risoluzione alternativa dei conflitti esiste il forte rischio che con la loro condotta facciano naufragare ogni ipotesi di accordo, vanificando il tentativo di mediazione voluto dai loro assistiti. Al contrario, un legale avveduto saprà tutelare i diritti del suo cliente garantendo il sostanziale equilibrio dei rapporti giuridici fra le parti, contribuendo a dar vita ad un accordo finale equo e condivisibile.
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