Le A.D.R. sono strumenti adatti per la soluzione di qualunque tipo di controversia; per merito della loro caratteristica duttilità, hanno procedure che facilmente si adeguano alle singole peculiarità del contenzioso in atto. La conciliazione, in particolare, viene comunemente utilizzata sia per dirimere i conflitti interpersonali, sia per risolvere conflitti fra organizzazioni complesse, tipicamente nell’ambito socio-aziendale. In materia societaria, all’origine delle controversie ci sono fattori riconducibili all’organizzazione della produzione, alla protezione dello know-how, alla gestione del potere, ai rapporti con i clienti o con i fornitori… La legge italiana ha riservato alla materia societaria una disciplina ad hoc, assoggettandola ad alcuni requisiti speciali che non sono richiesti per la conciliazione in tutte gli altri settori di applicazione. In particolare, il nostro ordinamento giuridico prevede che tanto i soggetti pubblici quanto quelli privati possano istituire appositi organismi di conciliazione, soggetti ad iscrizione nel “Registro degli Organismi di Conciliazione Autorizzati” tenuto dal Ministero della Giustizia. 
Il sistema italiano prevede, inoltre, una serie di norme che dettano le regole minime del procedimento, nonché dei rapporti con la successiva, eventuale fase contenziosa. Per esempio, il verbale di conciliazione che riporta le clausole dell’accordo raggiunto fra le parti può acquisire l’efficacia giuridica di titolo esecutivo. Sono soggetti ad autonoma disciplina anche gli effetti della proposizione della domanda di conciliazione sul processo, quando la lite sia già pendente davanti all’autorità giudiziaria. E’ interessante rilevare, poi, che tra le previsioni di legge che si occupano peculiarmente di conciliazione societaria ve ne sono alcune di natura fiscale che, nell’intento di incentivare il ricorso a questo genere di procedura, prevedono l’esenzione dall’imposta di bollo e da altre spese per tutti gli atti e i provvedimenti, come pure esentano dal versamento dell’imposta di registro il verbale di conciliazione di quelle controversie il cui il valore non supera i 25.000,00 euro. Bisogna sapere che tutte le particolari norme di favore vigenti per la conciliazione in materia societaria, entrano in gioco solo nelle procedure svolte presso quegli organismi che hanno ottenuto il riconoscimento del Ministero della Giustizia e la successiva iscrizione nell’apposito Registro. Se, per risolvere una lite societaria, un imprenditore preferisce rivolgersi ad un conciliatore privato anziché ad un organismo di conciliazione registrato, può sicuramente farlo; dovrà però mettere in conto che, in tal caso, alla procedura non potranno essere applicate le regole più vantaggiose già descritte (per esempio, il procedimento non sarà esente dall’imposta di bollo). Per  tutte le altre materie, invece, le parti sono libere di rivolgersi indifferentemente a qualsiasi conciliatore, senza che la loro scelta abbia ricadute di alcun tipo sulla disciplina fiscale o processuale applicabile alla fattispecie.
Fra le peculiarità della conciliazione societaria si segnala anche la possibilità per il conciliatore di formulare una proposta, rispetto alla quale ciascuna delle parti indicherà la propria posizione; in caso di mancato accordo di tali posizioni, il conciliatore è tenuto a dare atto del fallimento della procedura nell’apposito verbale di conciliazione e questo non resterà privo di effetti: il giudice, infatti, sarà chiamato a tenerne conto in un eventuale, futuro giudizio, ai fini della decisione sulle spese processuali. Si tratta di una disposizione molto criticata in dottrina, perché la conciliazione intesa in senso puro prevede che le parti siano garantite da una procedura dotata della massima riservatezza e confidenzialità, oltre a escludere che ci possano essere decisioni prese dalle parti senza la massima autonomia decisionale possibile. La disposizione normativa in esame, invece, crea un’anomalia non di poco conto. Le parti si ritrovano ad essere sollecitate dal conciliatore affinchè aderiscano ad una certa soluzione, avendo su di sé la pressione determinata dal fatto che, nel prossimo futuro, ci potrebbe essere un giudice che esprimerà una “valutazione” sulla correttezza della scelta operata.  Particolarmente delicato è anche l’aspetto di violazione del vincolo della confidenzialità e della riservatezza, dovuto alla previsione che vuole che il verbale di conciliazione descriva un elemento essenziale di quanto avviene nella sala conciliativa. Il comportamento delle parti, infatti, viene inevitabilmente condizionato dalle possibili ripercussioni negative delle loro azioni, con la conseguenza che l’efficacia dello strumento conciliativo ne esce fortemente depotenziata.
In proposito, peraltro, la norma originariamente varata era ancora più “eversiva” di quella attualmente in vigore, in quanto prevedeva la facoltà discrezionale del conciliatore di formulare una proposta conciliativa alle parti: facoltà, quest’ultima, che era dotata di un valore coercitivo quantomai inadeguato alla procedura. Attualmente invece la norma prevede che la proposta conciliativa venga elaborata dal conciliatore solo dietro espressa richiesta delle parti. L’effetto virtuoso che il legislatore ha visto in una simile previsione normativa non è da tutti condiviso, ma risulta facilmente individuabile. Si ritiene, infatti, che i litiganti siano responsabilizzati dagli effetti giuridici connessi alle loro scelte: il vantaggio sarebbe che, ragionevolmente, una persona che volesse rifiutare la proposta conciliativa per mero “puntiglio”, prima di rigettare l’offerta e portare la controparte in causa sicuramente si sentirebbe in dovere di riflettere sulla sua condotta. Soprattutto quando il valore economico della posta in gioco è piuttosto esiguo e il rischio di causa è ripartito in misura pressocchè equivalente su entrambi i litiganti, è frequente che le parti si sentano disincentivate dall’andare in causa e preferiscano accogliere l’offerta conciliativa piuttosto che rischiare una penalizzazione sotto il profilo del rimborso delle spese processuali.  Anche il risvolto negativo della medaglia, però, è di facile intuizione. Le parti che aderiscono ad una proposta conciliativa senza essere del tutto “libere di scegliere”, non sempre si adeguano con le loro condotte alle loro promesse. Il rischio, allora, è che l’accordo venga trovato solo formalmente, ma la lite continui ad agire in modo sommerso. Che valore ha un contratto, se le parti che lo hanno sottoscritto non vi si adeguano? E che valore ha una conciliazione, se quanto viene cristallizzato nel verbale non viene posto in essere dalle parti in modo autonomo, cioè “auto-esecutivo”? In linea di principio, i dubbi sull’efficacia di questa disposizione (che peraltro è stata ripresa anche dalla recente riforma del processo civile, che ne vorrebbe estendere il campo di applicazione), sono assolutamente fondati; sta di fatto, però, che solo di caso in caso se ne può verificare l’effettiva utilità.