Negli ultimi anni i mass media si danno un gran da fare nello spiegare il fenomeno del mobbing, cioè di quella grave forma di disagio lavorativo che si manifesta attraverso una serie di reiterate condotte vessatorie e discriminatorie a carico di un soggetto, che dal vissuto lavorativo finisce per riportare conseguenze psico-fisiche spesso disastrose. Nel comune sentire di oggi, i lavoratori sono pronti ad ingaggiare pesanti battaglie legali quando si rendono conto di essere vittime del fenomeno mobbing. Solo pochi, però, sono in grado di sostenere i costi (soprattutto emotivi) di una causa, mentre ancora si trovano alle dipendenze dell’azienda in cui vengono mobbizzati. Di frequente si pone un bivio: cedere ai “ricatti” dei mobbers e rassegnare le dimissioni, per poi sentirsi liberi di aprire una vertenza? Oppure esporsi al diretto accanimento di superiori e colleghi senza rinunciare alla sicurezza economica del proprio posto di lavoro, portando in tribunale le proprie vicende e diventando facile preda di ritorsioni meschine quotidiane? Per la vittima del mobbing, la scelta, come si può immaginare, non è mai indolore. Paradossalmente, però, anche per il datore di lavoro si pone un dilemma analogo: continuare a fingere che nulla stia accadendo, perseverando nella politica di allontanamento del lavoratore fino a quando non sarà lui stesso a recedere dal rapporto, con l’elevata probabilità che subito dopo apra un procedimento giudiziale nei confronti dell’azienda? Oppure evitare il rischio di un pessimo ritorno d’immagine, cercando di trovare un accomodamento “amichevole” col lavoratore, prima che vengano adite le vie formali? E’ evidente che arginare il fenomeno del mobbing è nell’interesse di tutti. Per questo, la coscienza sociale di ogni operatore del settore giustizia e, in particolare, di tutti gli avvocati (non soltanto dei giuslavoristi difensori dei lavoratori) dovrebbe suggerire di cercare vie alternative alla soluzione dei conflitti interni alle aziende. Ricorrere alle ADR non è frutto di un meccanismo mentale “spontaneo”, come fare ricorso alla consueta tutela giurisdizionale: ce lo insegna la storia del diritto italiano, che affonda le sue radici nel diritto romano ed è quindi impregnata di una concezione di giustizia che trae ispirazione dal tipico ed arcaico modello antagonistico, in cui gli sfidanti duellano (meglio se ad armi pari e con leggi eque) per risultare uno vincitore e l’altro vinto. Occorre, dunque, una vera e propria rivoluzione di pensiero per operare un cambio di mentalità nella coscienza comune dei cittadini e fare sì che, all’insorgere di una lite giurdica la prima idea non sia del genere: “Vediamo se ho ragione io oppure no… Questo, adesso, lo trascino in tribunale!”, ma del tipo: “Cerchiamo un modo per uscire tutti indenni da questa bufera… e alla svelta!”. Se è vero che l’approccio collaborativo non è quello più spontaneo, è altrettanto vero, però, che è quello più produttivo: teoria confermata dai riscontri concreti che la nostra pratica in questo specifico settore legale ci fornisce. Per correttezza espositiva, bisogna premettere che solo una ristretta minoranza di casi di mobbing riesce ad essere gestita dagli avvocati prima che il conflitto sia pervenuto al cosidetto “punto di non ritorno” (cioè, prima che il lavoratore sia stato estromesso dal ciclo produttivo); la ragione di questo limite deve rinvenirsi nel fatto che usualmente i lavoratori consultano un avvocato quando percepiscono che la loro situazione è ormai giunta ad un grado di irrecuperabilità tale da rendere necessario l’intervento di una tutela giurisdizionale. Pochissimi sono tanto lungimiranti da chiedere la consulenza di un avvocato quando iniziano a percepire la gravità del loro vissuto. Di solito, chi si muove per tempo lo fa perché è stato consigliato dal medico curante che ha riscontrato nel lavoratore i disturbi tipici del “mobbizzato”, oppure perché si è trovato a dover impugnare una sanzione disciplinare e quindi, per meglio esercitare il proprio diritto di difesa, ha deciso di avvalersi dell’apporto di un legale. In questi rari casi, comunque, è possibile per l’avvocato orientare il comportamento del cliente agendo in per lo più in modo “sommerso”, senza venire immediatamente allo scoperto con la controparte. L’intervento tempestivo di un esperto capace di individuare le linee di tensione sottese al conflitto, attraverso un prezioso e approfondito lavoro di analisi del caso, può indurre le parti a mutare la propria condotta in senso virtuoso per entrambe. Le tecniche dell’ADR sono di straordinaria utilità per la soluzione di questo genere di casi, come dimostra questo semplice esempio concreto.

IL CASO. Un insegnante della scuola pubblica viene costantemente messo all’angolo dai suoi colleghi e la sua reputazione è sistematicamente lesa davanti ai genitori dei suoi alunni. Il preside si accorge di questa situazione, ma non prende provvedimenti. L’insegnante, dopo un paio di anni di sopportazione, inizia a soffrire di crisi d’ansia e a temere gli spazi aperti, vivendo nell’angoscia d’incontrare persone che siano venute a conoscenza delle maldicenze sul suo conto; si assenta sempre più spesso dal lavoro e si chiude nell’isolamento sociale. La situazione, inevitabilmente, si aggrava: il preside gli fa presente che il rendimento degli allievi della sua classe sta calando, a causa delle sue frequenti assenze per malattia. L’insegnante si confida col suo medico e, pensando di chiedere un trasferimento, si reca dall’avvocato per ottenere aiuto nel disbrigo delle pratiche formali, confortato dall’idea che, tra due o tre anni andrà in pensione e potrà finalmente fare causa ai suoi mobbers.

IL COMMENTO.  Chi conosce le tecniche per la risoluzione alternativa dei conflitti sa che, normalmente, le richieste fatte dalle parti (cioè, in termini tecnici, “le posizioni che esprimono”), solo raramente coincidono con i loro reali interessi, cioè con i loro bisogni interiori più profondi. Ovviamente, si tratta di qualcosa di cui le stesse parti non sono del tutto consapevoli. Nel caso del nostro insegnante, infatti, il trasferimento non solo non sarebbe stato ottenuto con certezza, ma avrebbe in realtà recato al cliente un ulteriore disagio, comportando un allontanamento definitivo dalla sua famiglia fino al raggiungimento dell’età pensionistica. In un quadro patologico come quello che presentava al momento del primo colloquio con l’avvocato, l’ultima cosa di cui l’insegnante avrebbe avuto bisogno sarebbe stata la privazione dei suoi contatti familiari. Anche l’adattamento al nuovo contesto lavorativo non sarebbe stato affatto agevole, visto che il cliente aveva ormai maturato una spiccata tendenza all’auto-estromissione sociale e non era in grado di proporsi in modo “sano” ai suoi nuovi colleghi, difettando in lui l’autostima. L’idea d’intentare la causa civile una volta in pensione, poi, non era del tutto salubre: probabilmente, il processo si sarebbe trascinato per almeno 2 o 3 anni, di fatto impedendo all’insegnante in pensione di buttarsi alle spalle il triste vissuto degli anni precedenti. Ecco, allora, che la missione dell’avvocato esperto in ADR, travalicando le soglie della conoscenza della procedura civile, consiste nell’individuazione dei reali interessi del cliente e nella programmazione di una strategia extra-giudiziale capace di condurre il cliente verso l’ottenimento della migliore soluzione possibile.

LA SOLUZIONE SPERIMENTALE. Il reale e prioritario interesse dell’insegnante è quello di mantenere inalterata la propria sede di lavoro, vedendo però cessare intorno a sé quel clima di ostilità e pettegolezzo che lo ha spinto all’emarginazione. E’ importante rilevare che questo obiettivo, in sé, è condivisibile anche nell’interesse del datore di lavoro. Il raggiungimento di un punto di equilibrio, nella reciproca non-belligeranza, garantisce all’Istituto scolastico di non perdere la propria buona fama e consente al preside responsabile di evitare il rischio di essere sottoposto, in futuro, ad una causa di responsabilità dirigenziale. La riuscita di una conciliazione si poggia sempre sull’esistenza di una sommersa comunanza di interessi, al di là delle singole posizioni confliggenti. Il lavoro dell’avvocato, quindi, non consiste più nella mera redazione di una memoria difensiva per il cliente e nella preparazione di un apparato probatorio per rinsaldare la posizione processuale dell’insegnante in vista della futura causa civile. Nel nuovo approccio, l’avvocato si preoccupa di svolgere un’attenta analisi del caso, che viene studiato nella sua piena complessità e non solo sotto il profilo strettamente giuridico; dopo aver individuato il clou del conflitto (nei casi più complessi, avvalendosi anche del sussidio interpretativo di uno psichiatra o di uno psicologo del lavoro), l’avvocato è in grado di guidare il suo cliente verso un percorso razionale, orientato alla soluzione bonaria del conflitto. Nel nostro esempio, all’insegnante è stato spiegato di volta in volta come e perché doveva dire o fare una certa mossa strategica. L’avvocato, agendo per lo più in modo sommerso, ha preparato il terreno per far sì che il preside, responsabilizzato rispetto ai suoi doveri di vigilanza, prendesse finalmente in mano la situazione e arginasse le condotte discriminatorie e denigratorie dei colleghi, all’interno dell’istituto. Nei casi più complessi, un simile intervento non è di per sé risolutivo. La procedura alternativa di gestione del conflitto quindi procede alle fasi successive: talvolta le parti concordano un incontro privato, a “tavola rotonda”, per prendere in mano il problema e negoziare un accordo soddisfacente per tutti; talvolta, preferiscono farlo in una sede conciliativa propriamente intesa, lasciando che le loro emozioni vengano gestite con sapienza da un terzo imparziale. IL RISULTATO Nel nostro caso, il progressivo ristabilimento di un equilibrio sano all’interno dell’ambiente lavorativo ha permesso al cliente di recuperare gradualmente la propria autostima, grazie anche all’apporto fondamentale dei suoi familiari. L’insegnante è felice di aver privilegiato la scelta “morbida” e oggi gode del massimo rispetto da parte del preside, il quale, per parte sua, si ritrova a dover intervenire spesso per arginare le condotte degli altri insegnanti, ma agli occhi dei suoi superiori può continuare a vantare l’efficienza e il prestigio dell’istituto scolastico di cui è responsabile. Il presente dà ragione alle ADR, perché consentono di ottenere risultati veloci, pacifici e poco costosi per entrambe le parti.