Come anticipato nell’approfondimento introduttivo di questa guida e dedicato alla descrizione sommaria delle tre principali tecniche di risoluzione delle controversie che si pongono come alternative al sistema giudiziario ordinario, l’arbitrato è l’A.D.R. che più somiglia ad un processo classicamente inteso.  L’esito di un arbitrato è un giudizio di natura sostanzialmente processuale, promosso da due o più parti in lite fra loro che hanno deciso di far risolvere la disputa che le interessa da terzi imparziali, gli arbitri, i quali di fatto svolgono la funzione di “giudici privati” emettendo una decisione che, una volta pronunciata, ha effetto vincolante per le parti. La decisione presa dall’arbitro prende il nome tecnico di lodo. Differentemente da quanto avviene nelle procedure di mediazione e conciliazione, nell’arbitrato la libertà decisionale delle parti è concentrata nel solo momento iniziale del giudizio, ovverossia alla fase di scelta del rito applicabile e del tipo di giudice a cui delegare la soluzione del caso. E’ interessante rilevare che tale scelta può essere presa anche preventivamente rispetto all’insorgenza del conflitto: soprattutto nell’ambito del diritto societario e industriale, accade di frequente che i contraenti sottoscrivano un’apposita clausola nella quale pattuiscono di fare ricorso ad una procedura di arbitrato in caso di eventuali, future controversie fra loro (cd. clausola compromissoria).  L’arbitrato, come dicevamo, ha natura sostanzialmente processuale anche se si svolge fuori dalle aule del tribunale: difatti, le norme fondamentali che ne disciplinano la struttura sono contenute nel Codice di Procedura Civile, al pari di quelle che regolano il processo civile. Proprio nel codice, all’articolo 807, troviamo anche la definizione giuridica dell’accordo con cui le parti stabiliscono di far decidere da arbitri una controversia già insorta: si tratta di un particolare contratto, che prende il nome di compromesso e che per essere valido legalmente deve essere redatto per iscritto. In base alla forma giuridica scelta consensualmente dalle parti, in base alle norme oggi vigenti si distinguono diverse tipologie di arbitrato.
L’arbitrato rituale è quello in cui il lodo pronunciato dall’arbitro possiede un’efficacia quasi identica a quella di una sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria. L’unica, fondamentale differenza fra lodo e sentenza sta nell’efficacia esecutiva del provvedimento, cioè nella capacità dello stesso di far ottenere alla parte vincitrice l’attuazione concreta del suo diritto, nell’ipotesi in cui la parte soccombente non vi provveda spontaneamente. Volendo semplificare al massimo con un esempio: se una sentenza stabilisce che A deve pagare 100 a B, ma A non provvede spontaneamente al pagamento, la sentenza possiede un’efficacia esecutiva tale da consentire a B di ottenere in modo coercitivo il pagamento attivando direttamente una procedura di pignoramento nei confronti di A; nella stessa ipotesi, se invece fosse un lodo a stabilire che A deve pagare 100 a B, il signor B prima di attivare la procedura di pignoramento dovrebbe fare un passaggio formale in più, provvedendo a depositare il lodo nella cancelleria del tribunale dov’è la sede in cui ha avuto luogo l’arbitrato rituale ed attendendo che il tribunale stesso, dopo aver accertato la regolarità formale del lodo, lo dichiari esecutivo con un apposito decreto (art. 825 c.p.c.). L’arbitrato irrituale, come il nome stesso suggerisce, è una forma “attenuata” di arbitrato che viene a configurarsi in via eccezionale quando le parti, di comune accordo, decidono che la loro controversia sia definita dagli arbitri con un lodo dotato di un’efficacia giuridica attenuata. Pertanto, se i confliggenti lo avevano precedentemente stabilito in forma scritta, la decisione dell’arbitro è dotata di sola efficacia contrattuale: efficacia, s’intende, di gran lunga più tenue rispetto a quella di una sentenza (art. 808ter c.p.c.). Nella maggioranza dei casi, l’arbitrato irrituale viene definito secondo un giudizio equitativo, che si conclude con un accordo che giuridicamente ha la forma di una transazione, cioè di un contratto con cui le parti facendosi reciproche concessioni arrivano a dirimere la controversia insorta fra loro. In proposito, esiste una consuetudine molto diffusa che ben evidenzia le caratteristiche del giudizio equitativo espresso in forma transattiva: si tratta della firma di un foglio in bianco, il cosiddetto “biancosegno”, che le parti usano affidare agli arbitri da loro nominati con l’incarico di scrivere su di esso il testo della transazione. E’ chiaro che, grazie a questo artificio, il biancosegno compilato dagli arbitri risulterà formalmente, a tutti gli effetti, un prodotto della diretta volontà dei sottoscrittori.  Quello dell’arbitro è un ruolo piuttosto peculiare all’interno del nostro sistema giuridico. Come abbiamo visto, egli ha poteri decisori inferiori a quelli di un giudice, eppure senza dubbio maggiori rispetto a quelli di un conciliatore. Proprio in ragione del suo ruolo border line nel sistema processuale, la legge non prevede che l’arbitro possieda particolari requisiti di competenza tecnica e giuridica. Giustamente, però, si richiede che la persona che viene designata dalle parti come arbitro di una lite sia dotata della piena capacità di agire (non possono quindi essere nominati arbitri i minori, gli inabilitati, gli interdetti, i falliti e coloro che abbiano subito una condanna di interdizione dai pubblici uffici) e garantisca, con riferimento alla singola controversia che gli viene affidata, la massima indipendenza e imparzialità. E’ possibile che un arbitro già nominato sia rimosso dal suo incarico, quando una parte abbia proposto la cosiddetta ricusazione dello stesso, nel caso in cui sia venuta a conoscenza del fatto che l’arbitro designato aveva legami con l’avversario o con i difensori dell’avversario, oppure era portatore di interessi propri connessi alla controversia, tali da poter pregiudicare la decisione della lite influendo sull’esito del giudizio. Accade, talvolta, che le parti deleghino la scelta degli arbitri ad organizzazioni private che si occupano di coordinare e monitorare professionalmente le procedure di arbitrato (ad esempio, le Camere Arbitrali istituite presso le Camere di Commercio). Normalmente, in questi casi la scelta degli arbitri da designare avviene in considerazione del singolo caso, sulla base delle caratteristiche specifiche del procedimento: gli arbitri nominati sono quindi scelti fra quelli più competenti rispetto all’oggetto del contendere e dotati di maggiori conoscenze in materia di diritto sostanziale e processuale. All’atto dell’accettazione dell’incarico, l’arbitro designato ha l’obbligo di non rinunciare al mandato ricevuto se non per giustificato motivo e di pronunciare il lodo entro il termine stabilito dalle parti o dalla normativa applicabile al procedimento. Per l’attività svolta, l’arbitro ha ovviamente diritto a percepire degli onorari, oltre al rimborso delle spese eventualmente sostenute. Capita molto spesso che chi riveste l’incarico di arbitro sia un avvocato, così come è frequente che le parti chiedano di essere assistite durante la procedura di arbitrato da un difensore che sia un avvocato di professione: per tali ipotesi il tariffario forense prevede una serie di voci specifiche, alle quali è utile fare riferimento.