AVVOCATO DEONTOLOGICAMENTE MODIFICATO DALLA PUBBLICITA’?.
 
Premessa.
Le nuove dinamiche sociali ed economiche hanno inevitabil-mente comportato cambiamenti in tutte le attività professionali ed, in particolare, in quella forense.
Le nuove procedure, l’innovazione tecnologica, la trasformazione degli studi legali, l’aumento esponenziale degli iscritti agli albi, la maggiore competitività hanno profondamente inciso su quella che era la figura tradizionale dell’avvocato.
Sono sicuramente mutate le modalità di esercizio della professione forense tra le quali assume particolare rilievo la pubblicità.
Occorre verificare se la pubblicità è compatibile con il ruolo e la funzione costituzionalmente attribuiti all’avvocatura, sempre più protagonista della giurisdizione, oggi più che mai, e se ed in che modo incide sugli aspetti deontologici della professione forense.
 
1. In passato: divieto della pubblicità dell’avvocato.
Un insigne giurista di recente scomparso, Edilberto Ricciardi, da alcuni definito “giurista del rigore”, nel 1990, considerava il divieto di propaganda un principio deontologico essenziale, proprio della particolare dignità della professione forense non assimilabile a qualunque altra attività di servizi.
Addirittura lo stesso autore, a titolo esemplificativo, indicava come illecito disciplinare l’inserimento del nome dell’avvocato in grassetto nell’elenco telefonico o l’invio di biglietti augurali del professionista al personale di cancelleria con l’invito, sul retro, a ritirare una strenna natalizia.
Mentre, negli anni ’90, in Francia ed in Germania, agli avvocati fu concesso di fare pubblicità nei limiti in cui ciò potesse servire a dare informazione al pubblico sull’attività senza assumere connotati di carattere commerciale, in Italia il codice deontologico approvato dal Consiglio Nazionale Forense il 17 aprile 1997, all’art.17, prevedeva espressamente il divieto di pubblicità per gli avvocati, in linea con il tradizionale atteggiamento di chiusura dimostrato dall’ordinamento professionale italiano.
La norma stabiliva il divieto di qualsiasi pubblicità dell’attività professionale.
Erano consentite:
- l’indicazione nei rapporti coi terzi (carta da lettera, rubriche professionali e telefoniche, repertori, banche dati forensi, anche a diffusione internazionale) di propri particolari rami di attività;
- l’informazione agli assistiti e ai colleghi sull’organizzazione dell’ufficio e sull’attività professionale svolta;
- l’indicazione del nome di un avvocato defunto, che avesse fatto parte dello studio, purché il professionista a suo tempo lo avesse espressamente previsto o avesse disposto per testamento in tal senso, ovvero vi fosse il consenso unanime dei suoi eredi.
L’attività di informazione consentita doveva in ogni caso essere attuata in modo veritiero e nel rispetto dei doveri di dignità e decoro.
 
2. Il passaggio al concetto di pubblicità informativa.
Da una tradizionale posizione restrittiva che vietava recisamente qualsiasi forma di pubblicità dell’attività professionale, in quanto forma di accaparramento di clientela, si passò, con la modifica del 26 ottobre 2002,  al concetto di pubblicità informativa.
L’impostazione del codice deontologico in materia di pubblicità cominciava a mutare: la rubrica dell’art. 17 non riguardava più un divieto bensì indicava le informazioni che potevano essere date sull’esercizio professionale.
Il codice deontologico elencava puntualmente i mezzi attraverso i quali era possibile comunicare a terzi l’attività dello studio: annuari professionali, rubriche telefoniche, riviste e pubblicazioni in materie giuridiche”, ma anche siti web con domini propri e direttamente riconducibili all’avvocato previa comunicazione al COA di appartenenza; erano esclusi sostanzialmente i mass media.
 
3. La pubblicità dell’avvocato.
Il cambio di rotta avviene con il “decreto Bersani” (decreto legge 4 luglio 2006 n. 223, convertito in Legge 4 agosto 2006 n. 248) con il quale venivano abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano, con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio; con la c.d. ''Manovra bis'' (Decreto Legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito in legge 14 settembre 2011, n. 148), veniva ribadito che la pubblicità informativa, con ogni mezzo, avente ad oggetto l'attività professionale, le specializzazioni ed i titoli professionali posseduti, la struttura dello studio ed i compensi delle prestazioni, era libera.
Con l’ultima modifica del 2006 si è affermato l’opposto principio della libertà di forme nella comunicazione di informazioni sull’attività professionale: l’avvocato può così rendere nota l’attività dello studio legale con i mezzi più idonei purchè si rispetti il principio secondo cui “il contenuto e la forma della informazione devono essere coerenti con la finalità della tutela dell’affidamento della collettività e rispondere a criteri di trasparenza e veridicità” (art. 17 c.d.f.), rispettando nella forma e nelle modalità la dignità ed il decoro della professione nonché la riservatezza ed il segreto professionale.
L’art. 17 c.d.f. indica anche il contenuto minimo delle informazioni ed esprime una tendenziale libertà dell’avvocato di informare nel modo che ritiene più opportuno circa le caratteristiche della propria attività professionale ma la scelta di apertura non è valsa a trasformare la comunicazione consentita in “pubblicità commerciale” mantenendo un concetto negativo del confronto tra avvocati inteso come paragone tra prodotti, una forma di competizione difficile da coniugare con l’attività di difesa dei diritti propria del legale.
Ciò vuol dire che nell’attività di informazione non possono esservi elementi in contrasto con le esigenze di decoro e dignità della professione (art.5 c.d.f.).
In tema di responsabilità disciplinare degli avvocati, la pubblicità informativa che lede il decoro e la dignità professionale costituisce comunque illecito ai sensi dell'art. 38 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, a prescindere dall'abrogazione del divieto di svolgere pubblicità informativa per le attività libero­professionali, stabilita dall'art. 2 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248.
Il codice deontologico forense, infatti, a seguito dell'entrata in vigore della normativa nota come "Bersani", consente non una pubblicità indiscriminata (ed in particolare non comparativa ed elogiativa), ma la diffusione di specifiche informazioni sull'attività, anche sui prezzi, i contenuti e le altre condizioni di offerta di servizi professionali, al fine di orientare razionalmente le scelte di colui che ricerchi assistenza, nella libertà di fissazione del compenso e della modalità del suo calcolo.
Il principio che resta fermo, allora, è quello già ben enucleato da Cass., sez. unite, sentenza 18 novembre 2010, n. 23287: Il precetto della norma generale è: “non commettere fatti non conformi al decoro ed alla dignità professionale”.
A partire dal 2006 il CNF ha costantemente ribadito questo orientamento in numerosissime decisioni riguardanti la c.d. pubblicità dell’avvocato (22.12.07 n.219, 31.12.07 n.268, 19.12.08 n.173, 19.12.08 n.169, 21.12.09 n.183, 21.04.11 n.56, 07.07.11 n.93, 02.03.12 n.34, 02.03.12 n.39, 22.09.12 n.121, 15.10.12 n.152).
 
4. La casistica.
- Un professionista è stato sanzionato per aver inserito nel proprio sito web l’immagine della moglie in abiti succinti al fine di attrarre clientela (CNF n.211/2007).
- Anche se i nuovi mezzi di comunicazione elettronica sono stati ricompresi tra i mezzi ritenuti opportuni per fornire informazioni sull’attività professione, più decisioni hanno sanzionato e interdetto l’utilizzo surrettizio di siti di natura diversa (es. siti di informazione al cittadino, al consumatore oppure siti di consultazione su tematiche specifiche) per promuovere in realtà un’attività di studio legale (COA Pistoia 28.11.2003, CNF 21.11.2001, COA Roma 16.06.2005, CNF 27.04.2005, COA Roma 30.11.2006).
- E’ stato incolpato “per aver violato i doveri di correttezza, probità e verità avendo pubblicato o comunque acconsentito alla pubblicazione, su un sito web, l’avvocato che aveva riportato una dichiarazione avente il seguente tenore letterale: “... raccoglie testimonianze di persone che hanno subito condanne o rinvio a giudizio per causa di perizie ... e volessero agire giudizialmente, io sono disponibile anche con il gratuito patrocinio. Avv. F.M. (penalista)”; rappresentando nell’occasione, a tutti i destinatari della dichiarazione stessa, la propria disponibilità al gratuito patrocinio, pur non essendo iscritto nell’elenco degli avvocati disponibili al patrocinio a spese dello Stato, fornendo in tal modo informazioni non veritiere sulla propria attività professionale.
- Sono state sanzionate le modalità ed il contenuto del messaggio pubblicitario, quando non conforme a verità e correttezza perchè equivoco, ingannevole o denigratorio". (La S.C. ha confermato la decisione impugnata, che aveva affermato costituire illecito disciplinare l'inserimento nel "box" pubblicitario di un giornale di uno slogan sull'attività svolta, con grafica tale da porre enfasi sul dato economico dei costi molto bassi, contenente elementi equivoci, suggestivi ed eccedenti il carattere informativo (Cass. Civ., SS.UU., 13 novembre 2012, n. 19705).
- Cass. Civ., SS.UU., 10 agosto 2012, n. 14368 ha confermato la decisione impugnata, che aveva irrogato la sanzione della censura a carico di un avvocato, per avere lo stesso utilizzato presso l'ufficio e nel sito "web" le espressioni "L'angolo dei diritti" e "negozio", ritenendo le stesse di carattere prettamente commerciale ed eccedenti l'ambito informativo razionale.
- Cass. Civ. SS.UU., 3 maggio 2013 n. 10304 si occupa della pubblicità mascherata da articolo giornalistico/intervista (vietata in quanto tendente a ingannare), valutandone anche il contenuto. Nella fattispecie il titolo dell’intervista sembrava evidenziare una speciale competenza dei professionisti in materia commerciale e societaria internazionale, mentre il contenuto riguardava struttura dello studio, competenze diverse e numerose fotografie.
 - Parere Consiglio nazionale forense 14-01-2011, n. 10
Il quesito riguardava la legittimità o meno, in riferimento alle previsioni di cui all'art. 17 bis del Codice Deontologico Forense, dell'utilizzo da parte di uno studio legale di un indirizzo internet del tipo "www.avvocati[città].it" o "www.avvocati[regione].it".
Il CNF, pur ribadendo che internet fosse uno strumento senz'altro idoneo all'effettuazione di comunicazioni al pubblico e financo alla trasmissione di consulenze o pareri, era essenziale la riferibilità del sito direttamente all’avvocato o allo studio legale. Andava evitata ogni informazione che risultasse fuorviante in merito alla natura o alle modalità di effettuazione delle prestazioni professionali offerte, o altrimenti descritte. L'utilizzo di un dominio del tipo "www.avvocati[città].it" oppure "www.avvocati[regione].it", omette di identificare il titolare dello studio legale curatore del sito medesimo senza alcuna apprezzabile motivazione ed il riferimento alla comunità locale degli avvocati, che pure sussiste in ciascuno dei richiami alla città o alla Regione, è equivoco, perché l'espressione "avvocati" seguita dal nome della città non può che logicamente riferirsi all'intera collettività e non ad un singolo studio legale. Utilizzare, pertanto, diciture quali quelle di cui al presente quesito può ingenerare nel pubblico il falso affidamento circa il fatto che, a quel determinato indirizzo, possano essere reperiti tutti gli avvocati della Città o della Regione, o, addirittura, quelli migliori, oppure quelli che, diversamente da altri, avrebbero titolo per fregiarsi di una sorta di capacità rappresentativa dell'intera comunità locale degli avvocati. Appare, pertanto, non conforme a criteri di trasparenza e veridicità l'utilizzo di domini del tipo "www.avvocati[città].it" oppure "www.avvocati[regione].it", quando gli stessi rimandino solo ad uno o più iscritti nell'albo".
- Parere Consiglio nazionale forense 29-01-2009, n. 3
L'Ordine chiede, anche al fine di assumere un contegno uniforme rispetto alla prassi di altri Consigli, se sia da considerarsi lecito il comportamento di un iscritto che invii una lettera, di contenuto informativo rispetto alla propria attività professionale, ad una serie di imprese potenziali clienti. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: "La questione, tra le più delicate che si pongono allo stato dell'attuale quadro normativo, non può risolversi solo attraverso una valutazione del mezzo che l'avvocato utilizza per dare notizie circa la propria attività. Anche la differenza tra lettere concepite per destinatari specifici e comunicazioni uniformi inviate a più soggetti indistintamente non è, in sé e per sé, dirimente. La questione è stata ampiamente disaminata nella recente sentenza di Questo Consiglio n. 268/2007, alle cui argomentazioni deve farsi senz'altro rinvio, proprio avendo riguardo al più ampio contesto nel quale il messaggio è collocato e, soprattutto, all'intento espresso con il messaggio informativo. Per giudicare della coerenza di una comunicazione con il codice deontologico sarà, pertanto necessaria una sua puntuale valutazione alla stregua degli artt. 17 e 17-bis dello stesso, norme oggetto di innovazione rispetto al passato ad opera delle delibere C.N.F. 27 gennaio 2006, 14 dicembre 2006 e 27 giugno 2008. Pertanto bisognerà verificare che la comunicazione del professionista sia conforme, nei modi e nei contenuti, ai principi di verità e correttezza, che non sia ingannevole, elogiativa o comparativa e che non contenga nominativi di clienti. Inoltre sarà oggetto di verifica la circostanza che l'informazione, nella forma e nelle modalità, rispetti la dignità ed il decoro della professione. Pertanto, in sintesi, il Consiglio dell'ordine circondariale dovrà prendere in esame i casi di messaggi informativi al pubblico non censurandoli per il solo fatto di essere rivolti ad una pluralità di destinatari sulla base di lettere impersonali o standard, bensì valutando che tali comunicazioni rispondano ad un intento autenticamente informativo e non captatorio e che modalità e contenuti siano conformi ai superiori interessi alla dignità della professione e all'affidamento del pubblico".
- Parere Consiglio nazionale forense 27-04-2011, n. 49
Il quesito riguarda la legittimità o meno, in riferimento alle previsioni di cui agli articoli 17 e 17-bis del Codice Deontologico Forense, della frequentazione da parte di un Avvocato di social network (Facebook o Twitter) o community di video on line come Youtube, fornendo su tali reti informazioni della propria attività professionale. La questione posta dall'Ordine attiene alla necessità di applicare le regole sulle informazioni professionali, dettate dagli artt. 17 e 17-bis c.d.f., al settore delle comunicazioni elettroniche e della rete internet in particolare. Questa Commissione ha da tempo indicato come internet sia uno strumento senz'altro idoneo all'effettuazione di comunicazioni al pubblico e financo alla trasmissione di consulenze o pareri (v. già parere 21 novembre 2001, quesito del COA di Forlì-Cesena). Peraltro, quando un avvocato cura e pubblica un sito internet, va precisato se si tratti di un sito di natura scientifica o culturale, o piuttosto lo stesso sia riferibile direttamente allo studio legale. All'avvocato è evidentemente garantita sulla rete la più piena libertà di espressione e comunicazione, con l'eccezione di contegni che portino ad un'elusione del principio di correttezza dell'informazione, nonché alla violazione dei criteri di trasparenza e veridicità. Ciò posto, in linea di principio va poi osservato che il rispetto dei predetti criteri è affidato dall'art. 17 del Codice Deontologico al controllo del competente Consiglio dell'Ordine che deve anche verificarne il contenuto affinché l'informazione sia conforme a verità e correttezza, non potendo altresì avere ad oggetto notizie riservate o coperte dal segreto professionale. L'informazione deve poi rispettare la dignità e il decoro della professione e non deve mai assumere i connotati della pubblicità ingannevole, elogiativa o comparativa. Al riguardo, l'art. 17 bis del Codice Deontologico prevede una serie di adempimenti per l'avvocato che intenda dare informazioni sulla propria attività professionale (denominazione dello studio, Consiglio dell'Ordine presso cui è iscritto, la sede di esercizio con i relativi recapiti, gli eventuali titoli riconosciuti, ecc.) e prevede altresì che l'avvocato possa "utilizzare esclusivamente i siti web con domini propri e direttamente riconducibili a sé, allo Studio Legale Associato o alla Società di Avvocati alla quale partecipa, previa comunicazione tempestiva al Consiglio dell'Ordine di appartenenza della forma e del contenuto in cui è espressa". In altri termini, pur nella libertà di informativa sulla propria attività professionale, le modalità e i contenuti della stessa devono essere aderenti a ben precisi requisiti deontologici, il cui rispetto, come già sopra si è osservato, è affidato al controllo del Consiglio dell'Ordine competente. Nel caso di specie, l'utilizzo di un social network come Facebook e Twitter, in cui il primo accesso è del tutto libero e che contemporaneamente dà la possibilità di consentire l'ulteriore accesso ai propri dati esclusivamente a discrezione del titolare del profilo, impedisce da un lato la conoscenza al COA della frequentazione da parte dell'avvocato, e dall'altra parte una possibilità di accedere al profilo in maniera non "filtrata" dallo stesso avvocato. D'altro canto, sarebbe impensabile che i Consigli dell'Ordine, soprattutto per quelli con elevatissimo numero di iscritti, in decine di migliaia, potessero effettuare continuamente controlli a tappeto per verificare se un iscritto, nell'utilizzo di social network - (nel caso di Youtube l'accesso è totalmente libero e privo di qualsiasi forma di iscrizione) - nel fornire informazioni sulla propria attività, si attenga a quei principi deontologici sopra richiamati. Anche perché, nel caso di Facebook e Twitter, potendo il titolare del profilo consentire l'accesso solo a persone di proprio gradimento (cd. "contatti" o "amicizie"), l'Ordine potrebbe non essere in grado di consultare le pagine sulle quali siano pubblicate informazioni che in qualche modo riguardino l'attività forense del soggetto iscritto al sito. Al contrario, non può dubitarsi che la pubblicazione di messaggi, informazioni o altri contenuti su pagine di tali networks che siano visibili a chiunque si connetta ad internet sia oggetto di verifica e vada trattata e giudicata alla stessa stregua di ogni altro sito web, anche curato direttamente dall'interessato. Un social network può essere utilizzato tanto per messaggi a carattere strettamente personale (e quindi insindacabili anche ove contengano riferimenti alla professione), quanto per informative volte alla conoscenza presso la clientela o alla promozione del "nome" dello studio legale (e come tali sottoposte alla disciplina e vigilanza deontologiche). Ciò che va distinto a fini deontologici non è quindi il mezzo in sé e per sé, bensì l'uso che ne viene fatto e la cerchia di destinatari che, volontariamente o meno, vengano a contatto con l'utente titolare del profilo personale online. Se l'avvocato utilizza il network per scopi di comunicazione professionale dovrà comunicare tale intendimento in via previa al Consiglio di appartenenza, come prescritto dal già citato art. 17-bis c.d.f. Ne consegue che, in mancanza di tale adempimento e valutate le circostanze concrete del caso, egli potrà essere sanzionato disciplinarmente dal Consiglio di appartenenza. Quest'ultimo sarà necessariamente chiamato, nell'esame di fattispecie di utilizzo di reti sociali, a valutare nella fattispecie concreta quegli elementi che ne siano tipici (come ad es. accessibilità del profilo, decoro della pagina personale, contatti palesemente volti all'acquisizione di clientela, sfruttamento della visibilità connessa al mezzo, etc.).
- Parere Consiglio nazionale forense 12-12-2007, n. 65
Il quesito riguarda la possibilità di svolgere pubblicità informativa (riguardante l'organizzazione dello studio, i servizi offerti, le materie trattate ed i prezzi di singole prestazioni) attraverso apposita stabile organizzazione, interna od esterna allo studio professionale, e la sua compatibilità con gli articoli 17 (informazioni sull'attività professionale), 17-bis (modalità d'informazione) e 19 (divieto di accaparramento di clientela) del codice deontologico. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: "A seguito della revisione del codice deontologico forense varata il 14 dicembre 2006 in attuazione della legge 4 agosto 2006, n. 248, l'avvocato può dare informazione sulla propria attività professionale, con contenuto conforme a verità e correttezza e secondo forme e modalità che rispettino la dignità e il decoro della professione. Permane il divieto di ogni condotta diretta all'acquisizione di rapporti di clientela a mezzo di agenzie o procacciatori o con modi non conformi alla correttezza e al decoro. Nella nuova formulazione degli artt. 17 e 17-bis del codice è scomparso il riferimento che la precedente regola comportamentale faceva a mezzi esclusivamente consentiti ed i valori della dignità e del decoro professionale diventano così il test di liceità della pubblicità informativa. Nei limiti delineati, l'esistenza di una specifica funzione informativa stabilmente strutturata all'interno od all'esterno dello studio professionale di per sé non viola la norma deontologica, a condizione che il contenuto dell'informazione comprenda le indicazioni obbligatorie (art. 17-bis, comma 1) senza eccedere rispetto alle facoltative (art. 17-bis, comma 2) e sempre che le modalità di esercizio di tale attività non risultino in concreto contrastanti con la dignità ed il decoro professionali. Ove l'attività della struttura dedicata dovesse poi trascendere la sfera dell'informazione per proporsi l'assunzione di rapporti clientelari potrebbe nel concreto risultare violato l'art. 19 del codice deontologico sia sotto il profilo dell'intermediazione sia per modalità (non altrimenti tipizzate dalla regola) che eventualmente fossero rilevate non conformi alla correttezza ed al decoro professionali".
 
5. Le nuove disposizioni in materia di pubblicità.
Le ultime disposizioni in materia di pubblicità o, meglio, di informazione sull’esercizio della professione forense riproducono in sostanza quello che è stato l’orientamento della giurisprudenza in materia disciplinare. 
Con la L. 31 dicembre 2012 n. 247, riforma della professione forense, all’art. 10, è consentita all'avvocato la pubblicità informativa sulla propria attività professionale, sulla organizzazione e struttura dello studio e sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici e professionali posseduti.
La pubblicità e tutte le informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, debbono essere trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere comparative con altri professionisti, equivoche, ingannevoli, denigratorie o suggestive
I principi di dignità, decoro e lealtà nello svolgimento e nella comunicazione delle attività professionali sono, nell’ottica della deontologia forense, superiori all’interesse all’acquisizione di nuova clientela (CNF sent. 29.11.2012 n.170).
Nella seduta del 31 gennaio 2014, in esecuzione dell’art. 65 della Legge 31 dicembre 2012, n. 247, il Consiglio Nazionale Forense ha approvato il nuovo codice deontologico, così modificando le disposizioni di cui agli artt. 17 e 35.
Le disposizioni del codice deontologico in materia di pubblicità ribadiscono fermamente il rispetto dei principi deontologici sul rispetto della verità, della trasparenza e della correttezza, della dignità e del decoro della professione ma fanno discutere e forse costituiscono il punto nevralgico del radicale cambiamento delle modalità di esercizio della professione forense che appaiono anacronistiche rispetto alle trasformazioni sociali ed economiche.
Il rispetto dei principi deontologici sembrerebbe rivelare un ruolo eccessivamente conservatore del CNF che è chiamato a fare i conti con le nuove modalità di esercizio della professione ed, in particolare, delle forme di pubblicità.
 
6. La posizione di una parte dell’avvocatura.
Non possono essere trascurate le posizioni di una parte dell’avvocatura.
La formulazione delle nuove disposizioni in materia di pubblicità dell’avvocato ha trovato una netta opposizione fra i giovani avvocati ed, in particolare, da parte dell’AIGA.
Si discute in particolare dell’art. 35 del nuovo Codice deontologico (commi da 9 a 12), sul “Dovere di corretta informazione”.
E’ stata oggetto di attenzione la relazione illustrativa del CNF, che accompagna il Codice, nella parte in cui afferma che “l’art.35 (‘dovere di corretta informazione’) trova ora collocazione sempre in questo titolo e, in applicazione dell’art. 17 dei principi generali (che mutua la previsione legislativa), affina, semplifica e razionalizza gli articoli 17 e 17 bis del codice ancora vigente e si pone in diretta saldatura con il divieto di accaparramento di clientela; degne di particolare menzione sono le previsioni di cui ai commi 9 e 10 destinate a presidiare, con la realistica consapevolezza dell’arduità del compito, il complesso ed articolato mondo di internet; il comma 11, con il valore che assume come previsione “di chiusura” (applicazione della sanzione della censura per le violazioni), riflette una linea interpretativa da sempre fatta propria ed avallata dalla giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense e della Corte di legittimità. 
L’AIGA ha pesantemente contestato la formulazione delle norme del codice deontologico asserendo che è stata limitata pesantemente la presenza online dei legali: niente social, pubblicità vietata, è possibile usare solo domini con proprio nome o quello del proprio studio”; internet e facebook “vietati” agli avvocati italiani.  Ha chiesto di “rivedere la norma che limita l’uso del web per promuovere la propria professionalità”.
La presidente Giorgi scriveva al Consiglio Nazionale Forense: “Un vero bavaglio. Restrizioni anacronistiche che pongono la nostra categoria in una condizione di disparità e svantaggio. E anche il cittadino ci perde”
Niente Web per gli avvocati italiani. O, meglio, accesso alla rete in dosi omeopatiche. Il nuovo Codice deontologico approvato dal Consiglio Nazionale Forense, in vigore dal 15 dicembre, permette infatti a un legale che voglia dare informazioni sulla propria professione di farlo utilizzando, come recita l’articolo 35, “esclusivamente i siti web con domini propri senza reindirizzamento, direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati alla quale partecipi”.
Niente Facebook, niente pubblicità online, paradossalmente anche la presenza su siti come paginegialle.it sembra in bilico.
Stando alla formulazione della norma, sarebbe impossibile, per esempio, che un avvocato o un gruppo di avvocati attivi su Roma presentassero i propri servizi – magari anche offrendo informazioni e aggiornamenti – su un sito dal dominio avvocati-roma.info (v. parere di cui innanzi del CNF 14.01.2011 n.10).
E ancora, la norma lascia intendere che un avvocato che cura la propria pagina Facebook professionale (che potrebbe essere per esempio https://www.facebook.com/pages/Studio-Legale-Rossi) offrendo informazioni e aggiornamenti gratuiti utili al cittadino debba ora sospendere questa attività.
Ancora, l’articolo 35 recita che “L’avvocato è responsabile del contenuto e della sicurezza del proprio sito, che non può contenere riferimenti commerciali o pubblicitari sia mediante l’indicazione diretta che mediante strumenti di collegamento interni o esterni al sito”.
La norma, formulata in modo equivoco, secondo alcuni commentatori vuole impedire l’utilizzo di strumenti di pubblicità online quali Adwords di Google (il più diffuso del genere).
“Se davvero questa è la ratio – sottolinea la presidente dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati Nicoletta Giorgi – si tratta di una limitazione ingiustificata e inaccettabile. Questi link a pagamento, se correttamente utilizzati, costituiscono un veicolo lecito per ‘indirizzare’ potenziale clientela verso il proprio sito, che contiene la presentazione dei propri servizi e dei propri titoli. Proprio come accade con qualsiasi inserzione su giornali o con le affissioni, finanche in autobus. Esattamente come un’inserzione su un giornale o una rivista, che ha lo scopo di reindirizzare i clienti verso lo studio del professionista. La disparità di trattamento è tanto evidente quando ingiustificata. Analogo discorso vale anche per i siti dedicati alla ricerca di avvocati (ad es. albonazionaleavvocati.it), che ha lo stesso ruolo degli elenchi cartacei con inserzioni a pagamento (ad es. PagineGialle) .
 “Confidiamo che la risposta del CNF sia fondata su una lettura moderna della materia e della realtà in cui i professionisti si trovano a svolgere la propria attività, in concorrenza anche con studi internazionali che fanno uso massiccio delle nuove tecnologie e degli strumenti di informazione e pubblicità. Diversamente, ostacoli e costi ricadrebbero al solito sui giovani, impediti ad utilizzare strumenti economici ma ampiamente diffusivi. Evidentemente ciò che non si conosce fa paura: ma questo limite di chi regolamenta la nostra professione non lo dobbiamo pagare noi”, conclude la presidente di Aiga.
 
7. Pubblicità e Antitrust.
Non va trascurato che, nello scorso mese di novembre, il Consiglio forense è stato multato, in particolare, per aver pubblicato una circolare con cui reintroduceva di fatto l'obbligatorietà delle tariffe minime, non più vincolanti dopo la cosiddetta "riforma Bersani" del 2006 ed effettivamente abrogate nel 2012 e per aver adottato un parere contro i siti Internet che propongono ai consumatori associati sconti sulle prestazioni professionali, in base alla tesi che ciò sarebbe in conflitto con il divieto di accaparramento della clientela sancito dal Codice deontologico della categoria.
L'Antitrust ha dato torto al Consiglio nazionale forense: l'obbligatorietà della tariffa minima e il 'divieto' di pubblicizzare sconti sulle parcelle su siti Internet costituiscono una illecita limitazione della concorrenza.
Il Garante ha inflitto al Cnf una multa da 912.536,00 euro per aver posto in essere atti lesivi del principio che tutela la libera concorrenza, limitando l'autonomia degli avvocati in materia di compensi professionali.
Alla multa è stata aggiunta una diffida perché non si ripetano situazioni simili in futuro.
Lo ha reso noto la stessa Autorità, precisando che si chiude così un'istruttoria sulle condotte del Cnf per violazione dell'art. 101 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.
Il CNF ha impugnato il provvedimento dell’Antitrust dinanzi al TAR del Lazio.
Il presidente del Cnf riferiva che, essendo un giudice speciale, non è assoggettato al controllo del Garante, che ha invece competenza in materia di imprese.
Gli ordini in generale, e il Cnf in particolare, non sono imprese, per cui quello dell'Antitrust appare un provvedimento abnorme e sproporzionato nella sanzione, un provvedimento assurdo che altera l'interpretazione corretta della disciplina della concor-renza e ignora la rilevanza dei codici deontologici.
Secondo il presidente del Cnf, l'Autorità dimostra di considerare, infatti, i codici deontologici come un limite al libero mercato, “quasi che il comportamento corretto dovesse essere considerato illegittimo – dice Alpa – E questo è assurdo”. Dal canto suo, l'Antitrust ha scritto nel provvedimento di 59 pagine: “Il presente procedimento non ha ad oggetto l’attività del Cnf nell’esercizio della sua funzione giurisdizionale, bensì quella svolta dallo stesso quale ente di autoregolamentazione di una professione”.
E se alcuni dicono che gli interventi del Cnf colpirebbero in particolar modo i giovani avvocati che si affacciano alla professione, altri scendono in difesa del Consiglio stesso, come il presidente della Cassa Forense, che difende i parametri indicati dal ministero della Giustizia, o come l'Organismo Unitario dell’Avvocatura (Oua) che si schiera “al fianco del Cnf e di tutta l'avvocatura in questa battaglia” o come Maurizio de Tilla, presidente dell'Associazione Nazionale Avvocati Italiani (Anai), in quanto non si considera che al 98% gli avvocati sono impegnati nell'attività di difesa davanti all'autorità giudiziaria. Secondo de Tilla i componenti dell’Autorità Garante “intendono annullare l'identità dell’avvocato nel processo”, identità che si connette “con quella di prestatore di opera intellettuale e non già di esercente attività imprenditoriale”, arrivando alla “conferma di un declino della cultura e della tenuta etica irreversibile di una logica mercatista che l’Antitrust ha fatto propria” e che non ha niente a che vedere con la funzione dell’avvocato.
Atteggiamento, invece, un po' più critico verso il Cnf quello di Ester Perifano, segretario dell'Associazione Nazionale Forense (Anf): “È un provvedimento molto duro, e probabilmente la fattispecie considerata non meritava tanto, ma va detto che l'atteggiamento del Cnf nei confronti dell'Agcm è sempre stato di chiusura netta e di rifiuto. Auspichiamo, per il futuro, un cambio di rotta, che consenta agli avvocati di misurarsi con le norme in materia di concorrenza, alle quali siamo soggetti come lo sono tutte le attività economiche, con modalità meno conflittuali e più costruttive”.
La portata di questo provvedimento è sicuramente rivoluzionaria ma non solo per gli appartenenti alla classe forense.
Il dibattito scaturito dal provvedimento dell’AGCM sintetizza quello che appare essere il contrasto di due diverse spinte, da una parte quella conservatrice a tutela di principi deontologici sacrosanti, dall’altra quella innovatrice figlia di una società in continua quanto repentina trasformazione.
La tendenza conservatrice tenta di mantenere in vita principi e privilegi appartenenti al passato motivati dalla esigenza di proteggere temi che potrebbero anche essere definiti altamente “etici” e “professionali”.
Quando il Consiglio Nazionale Forense nella sua difesa dinanzi all’Autorità per la Garanzia e la Concorrenza nel Mercato invoca il principio secondo il quale un avvocato non dovrebbe essere scelto in base al prezzo ma in base alla professionalità, dice una cosa verissima e per la quale tutti gli avvocati si dovrebbero battere ogni giorno.
Il problema è quello di capire come fa un cliente a stabilire la competenza di un avvocato?
Generalmente può accertare la sua competenza solo dopo che gli ha affidato l’incarico poichè non può andare a leggersi gli atti di altri clienti seguiti dallo stesso legale e ciò per un evidente dovere di riservatezza che questi ha nei confronti dei suoi assistiti.
Può però informarsi dagli altri clienti chiedendogli come si sono trovati. Oppure può farsi influenzare dagli articoli di giornale o servizi televisivi che parlano dei suoi casi.
Oppure semplicemente dal classico “passaparola” che tanto funziona sopratutto nei piccoli centri di provincia dove andare da un avvocato con un certo nome è assolutamente un obbligo quando si vuole avere la serenità di essere assistiti dal migliore sulla piazza.
Ecco la parola chiave “la piazza”.
Tutte queste modalità attraverso le quali un cliente valuta la professionalità di un legale si basano su elementi non tecnici (a meno che non si sia già affidato a questo legale in passato e quindi può fare una valutazione consapevole).
E cioè: pareri di altri clienti, articoli di giornale, interviste e servizi televisivi, passaparola.
Che differenza c’è tra questa piazza e quella che oggi è la piazza virtuale?
Sicuramente l’ambito di applicabilità del confronto in teoria non più limitato a pareri di conoscenti o persone appartenenti ad un dato ambito territoriale, ma esteso teoricamente in tutto il mondo.
Qui non si vuole per carità sostenere che sia legittimo un Trip Advisor degli avvocati altrimenti, non solo scadrebbe completamente la professionalità ma sopratutto si scatenerebbe una guerra alla cattiva pubblicità casuale e non certificata.
Sarebbe semmai interessante capire se, con il via libera dell’AGCM, si apre la strada a siti internet che forniscono servizi di valutazione certificata per avvocati.
D’altronde una scheda di valutazione per il cliente era stata timidamente prevista dalla legge istitutiva della tanto contestata mediazione civile e commerciale.
Passando poi all’aspetto dei prezzi (che credo sia poi quello che più a sta cuore a tutti gli avvocati), il rischio paventato è che pubblicando on line i prezzi in deroga ad obblighi di tariffa minima, si possa cadere facilmente nella corsa al ribasso (dumping).
Tuttavia, analizzando fenomeni simili già presenti sul web, come ad esempio ODESK, (sito aperto a chiunque voglia offrire servizi di vario tipo e quindi poco adatto ad avvocati e consulenti legali) si nota come le persone che offrono i loro servizi aumentano la loro tariffa oraria o i loro onorari sulla base delle esperienze acquisite e dei giudizi positivi.
Ne deriva quindi al contrario non una corsa al ribasso (idonea forse per i servizi meno sensibili come quelli di segreteria) ma anzi una tendenza a aumentare le tariffe per i professionisti più virtuosi e ciò grazie alla maggiore competenza acquisita nel tempo e ai temutissimi giudizi della rete.
Se però ancora esiste un principio di libera concorrenza, ma sopratutto di libertà di parola, mi chiedo se la posizione del CNF non rischi di risultare anacronistica di fronte agli utenti, lasciando così gli avvocati soli in una auto-referenziale idea che la nostra professione non sia “impresa”, derogando così ai principi di libera concorrenza tutelati dall’AGCM e dell’omologa authority della Commissione Europea, e limitando pesantemente agli avvocati italiani anche la libertà di espressione della loro professionalità impedendogli (fatto questo credo unico a livello europeo) di collegare il proprio sito web a e con siti esterni (quindi anche social come facebook, twitter e linkedin o siti professionali come Lexology, Docracy ecc.).
Con ciò di nuovo ponendo un problema di coerenza con quelle che sono invece le libertà di avvocati di altri paesi che però, in un mondo globalizzato concorrono con gli italiani.
 
8. Le peculiarità dell’avvocato.
Il quadro dei valori costituzionali manifesta la specialità della professione forense, attraverso una serie di indici che non possono essere ignorati nella disciplina della professione di avvocato e sono imprescindibili per il corretto esercizio della stessa.
L'innovazione tecnologica, l'evoluzione dei mercati e l'intervento del diritto comunitario fanno emergere problemi che, tuttavia, non dovrebbero modificare in alcun modo la consolidata collocazione della professione forense nel ruolo di garanzia dei diritti dell'uomo.
Le preoccupazioni secondo cui la concezione imprenditoriale e concorrenziale della professione forense possa incidere sul ruolo dell'avvocato e sulla sua collocazione nell'ambito della tutela giudiziaria ed extragiudiziaria dei diritti e degli interessi delle persone, sono infondate perché riguardano gli aspetti relativi alle modalità di esercizio della professione ed i profili meno caratterizzanti di essa.
Nell'ambito del diritto comunitario, la costruzione della natura giuridica delle professioni è sottoposta ad un riesame ma ai soli fini dell'applicazione della disciplina della concorrenza; al di fuori di tale disciplina, infatti, tutte le professioni devono rispettare la loro natura tradizionale e, quindi, anche la professione forense non dovrebbe perdere i suoi connotati peculiari.
La sottolineatura costituzionale dell'avvocatura appare opportuna per evitare il rischio che la concezione concorrenziale e mercantile possa  snaturare l'opposta concezione radicata nella tradizione di molti ordinamenti giuridici in cui la professione intellettuale dell'avvocato ha una garanzia ed un ruolo inconfondibili.
Pur volendo, per assurdo, considerare l'attività forense come una sottocategoria delle attività produttive di servizi, il ruolo dell'avvocatura resterebbe sempre immutato nella sostanza, per le esigenze di garanzia poste dai limiti giuridici all’esercizio professionale giustificati proprio dalla specialità del ruolo dell’avvocato e dall’apprezzabilità delle restrizioni previste (accesso, albi, poteri disciplinari, tariffe, Ordini), nel momento in cui i destinatari dei servizi, in questo caso i clienti dell'avvocato, non sono in grado di valutare correttamente la qualità dei servizi stessi; di qui il riemergere del ruolo tradizionale dell'avvocato nelle sue peculiarità essenziali.
Non mi soffermerò qui a sottolineare il ruolo dell’avvocatura nella giurisdizione e la sua funzione costituzionale (art.24 Cost.).
Anche a livello comunitario, nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Avvocato Europeo, che è l’espressione comune di tutte le norme nazionali ed internazionali che disciplinano l’avvocatura, adottata dal Consiglio degli Ordini Forensi Europei a Bruxelles in data 24.11.2006, viene sottolineata la specialità del ruolo dell’avvocato diretto a garantire il rispetto dello Stato di Diritto e gli interessi di coloro di cui deve difendere diritti e libertà ed, in tale ottica, viene anche rimarcato il rispetto della funzione professionale dell’avvocato, condizione essenziale dello stato di diritto e di una società democratica.
Sono stati elaborati i principi fondamentali comuni ai codici nazionali ed internazionali che disciplinano la deontologia forense tutti gli stati nazionali:

  • indipendenza e libertà di garantire la difesa del proprio cliente;
  • rispetto del segreto professionale e della riservatezza delle controversie oggetto del mandato;
  • prevenzione del conflitto di interessi tra i clienti o tra il cliente e l’avvocato stesso;
  • dignità, onorabilità e probità;
  • lealtà verso il cliente;
  • correttezza in materia di onorari;
  • competenza professionale;
  • rispetto verso i colleghi;
  • rispetto dello Stato di Diritto e contributo alla buona amministrazione della giustizia e autoregolamentazione dell’avvocatura.

La pubblicità, quindi, ritornando alla domanda iniziale non modifica deontologicamente l’avvocato riguardo al ruolo ed alla funzione.
Certo le tendenze del legislatore sono molto preoccupanti se consideriamo la previsione di ammettere la presenza di un socio di capitali nelle società tra avvocati.
Il rischio è quello di stravolgere la funzione costituzionale propria dell’avvocato, il quale potrebbe ritrovarsi ad essere sempre meno libero professionista e sempre più dipendente di un potere o di un interesse sovraordinato, con conseguente compressione, tra l’altro, del suo diritto di libera scelta nella strategia difensiva, per dover sottostare a rigide regole di mercato imposte da soci economicamente più forti.
L’avvocato non sarebbe più nella possibilità di scegliere liberamente se perorare una causa o meno, ma dovrebbe valutare volta per volta se assumere quella difesa sarà remunerativo per la società nella quale presta la propria opera.
Peraltro, occorre aver ben presente che l’avvocato, prima di esercitare la professione, presta un giuramento con il quale s’impegna ad osservare con lealtà, diligenza e onore i doveri della professione di avvocato “per i fini della giustizia” ed è chiaro che questi fini spesso travalicano, superano, se non addirittura contrastano l’interesse economico ad assumere o meno la difesa di un cliente.
Pertanto, se in una visione liberale tout court la società di capitali può essere considerata un modo più pratico e “moderno” di esercitare la professione forense; le gravi criticità appena delineate inducono ad avversare o, quanto meno, in un’ottica pur sempre liberale, ma anche responsabile, a rimodulare in senso fortemente restrittivo l’ingresso dei meri soci di capitale, magari subordinandolo a condizioni tali che assicurino di non snaturare la professione forense e l’importantissima funzione anche sociale che la stessa è chiamata a svolgere.
E qui si porrà il problema della pubblicità di queste società che sfuggirebbero ai principi di natura deontologica ed allora sì che snaturerebbero anche il ruolo e la funzione dell’avvocatura.