All'indomani dell'entrata in vigore della legge di riforma forense, su queste stesse pagine, abbiamo abbozzato una prima interpretazione dell'art. 13 della legge stessa, nella parte che tratta il patto di quota lite.
In quella sede abbiamo messo in evidenza, come, da un esame del disposto normativo, sembrasse essere ammesso il patto per poi essere negato da un successivo comma dello stesso art. 13. Veniva evidenziato, a quel tempo, come e perché, l'orientamento del sottoscritto fosse a favore del patto, malgrado la apparente esplicita e contraddittoria negazione.
La prima battaglia contro il divieto del patto si vinse con l'art. 2, co. 2 bis, del D. L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248.
Il superiore disposto normativo sostituiva il terzo comma dell'art. 2233 codice civile, abrogandolo. Il disposto abrogato negava il patto. Il nuovo disposto normativo statuisce che il patto deve osservare la forma scritta, a pena di nullità e danni. Il superiore disposto, inserito nel libro V, titolo III, capo II del codice civile, non essendo mai stato abrogato è tutt'ora vigente.
L'art. 2233 c. c., dopo aver abrogato il comma che vietava il patto, ha statuito che i patti che stabiliscono i compensi professionali devono essere fatti per iscritto. I patti dice (inteso quelli leciti), ma non il patto di quota lite. Argomento assolutamente non menzionato dal superiore articolo.
Possiamo, pertanto, ragionevolmente affermare che, atteso il disposto dell'art. 2233 c.c., che non regola il patto di quota lite, la relativa norma, favorevole o contraria che sia, va ricercata in altre parti dell'Ordinamento.
Il divieto di patto sembra essere anche avallato dall'art. 1261 c.c., dal momento in cui vieta la cessione di crediti litigiosi a Tutti gli operatori del diritto (Giudici, Cancellieri, Avvocati, Notai ecc.). Tale disposto normativo va esaminato con cura, ciò per comprenderne la reale portata nei confronti del patto di quota lite.
Non vi è dubbio alcuno, sul fatto che le superiori figure, nulla hanno a che fare con il patto di quota lite, ad eccezione, ovviamente, degli Avvocati. Appare appena utile, quindi, fare una minima distinzione fra la posizione delle diverse figure interessate dalla norma. Giudici, e personale addetto agli Uffici giudiziari che poco hanno a che fare (sotto questo profilo) con l'avvocato. I primi, sono imparziali per costituzione. Il secondo è di parte per lo stesso motivo.
Altra è la posizione di un giudice che si rende cessionario di un diritto litigioso pendente nella propria Giurisdizione, altra ancora è quella di un avvocato che subordina il compenso al risultato raggiunto quantificandolo in misura percentuale al risultato stesso, come previsto dall'art. 13 della nuova legge forense.
L'articolo qui in esame (art. 1261 c.c.), consente delle eccezioni alla generale regola del divieto di cessione del credito litigioso. Il secondo comma, infatti, statuisce che il divieto non si applica alle cessioni fatte in pagamento di debiti. Ciò premesso, la prossima riflessione utile consiste nel dare una risposta alla domanda: se la controprestazione alla prestazione professionale dell'avvocato possa considerarsi un debito? La risposta è talmente ovvia da rendere banale una nostra manifestazione di pensiero.
Si perviene, pertanto, alla naturale conclusione (sempre con le riserve proprie che questa professione impone) che il superiore art. 1261 c.c. non sia ostativo al patto di quota lite.
Ulteriore disposto normativo, meritevole di attento esame, sembra essere l'art. 13 della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (nuova legge forense). Della parte che riguarda il patto di quota lite, abbiamo già espresso il nostro pensiero all'indomani della entrata in vigore della legge stessa. Si rinvia, pertanto, a quella pubblicazione, fatta su queste stesse pagine il 6.1.2013.
Di pari tenore appare essere l'art. 25 del nuovo codice deontologico, la cui rubrica recita: accordi sulla definizione del compenso. Secondo il superiore canone, i compensi possono essere pattuiti liberamente, fermo restando il limite della proporzionalità con l'attività trattata e da trattare. Infine, viene ribadito (perché già statuito dall'art. 13 legge forense) il divieto di patto di quota lite.
Il Consiglio nazionale forense ha, recentemente (sentenza 18.03.2014) affrontato la questione a seguito di ricorso proposto da un Collega a cui era stata irrogata, dal competente Consiglio dell'ordine, la sanzione della sospensione dall'esercizio della professione per due mesi. Lo stesso era stato accusato di un patto di quota lite sproporzionato rispetto alla prestazione professionale.
In quella statuizione, il CNF sentenziava nel senso che è ammessa la pattuizione a percentuale (non poteva affermare il contrario, atteso il dato letterale ex art. 13 legge forense) ma la stessa non poteva essere legata al risultato ma solo al valore dei beni e degli interessi in gioco al momento del conferimento dell'incarico, si da evitare in radice qualunque ipotesi di commistione di interessi.
La superiore interpretazione, fondata sull'inciso “si prevede possa giovarsene”, ex art. 13 legge forense ed ex art. 25 codice deontologico, non ci convince appieno.
Ai sensi del superiore art. 25 C. D., la pattuizione dei compensi è libera. Unico limite espresso è quello della proporzione con l'attività svolta e da svolgere (art. 29 co. 4 C. D.). In questo senso depongono sia il dato letterale che la ratio della norma.
Sul dato letterale. Il disposto normativo recita: E' ammessa la pattuizione (…) a percentuale sul valore dell'affare o su quanto si preveda possa giovarsene il destinatario della prestazione (…). La percentuale, quindi, può essere convenzionalmente determinata su due diversi valori: il valore dell'affare o (oppure) sul valore che si preveda di ottenere. Appare evidente la diversità delle sue costruzioni. Se è vero, come sembra anche allo scrivente, che “il valore che si preveda di ottenere” sia quello ipotetico determinato al momento dell'incarico, condivisa l'interpretazione del CNF, ci chiediamo cosa possa essere invece, “il valore dell'affare”. A nostro avviso si tratta di cosa diversa, attesa la separazione (o) tra le due costruzioni. Si tratterebbe del valore ottenuto, quello reale, il risultato anche se qualche autore ha affermato che si tratterebbe del valore di un affare stragiudiziole.
Sulla ratio della norma. Riteniamo che il Legislatore produca un dettato normativo per regolare una fattispecie astratta. La statuizione che consente di determinare i compensi in misura percentuale deve avere un senso logico. In difetto sarebbe inutile. Se fosse vero che la misura percentuale debba essere determinata sul presunto risultato e non sul risultato reale, la stessa non avrebbe senso. Vediamo perché. Consideriamo un affare il cui valore sia ricompreso tra un minimo di € 10.000,00 ed un massimo di € 20.000,00. La misura percentuale pattuita tra le parti è pari a 15. Con la determinazione sul valore di risultato non è possibile determinare il compenso. Lo stesso può ragionevolmente risultare da un minimo di € 1.500,00 ad un massimo di € 3.000,00. Si saprà al momento della definizione della controversia, con il risultato, non prima.
Con la determinazione sul presunto risultato, il compenso potrebbe comunque variare da € 1.500,00 ad € 3.000,00. A differenza della prima determinazione, nella seconda, il compenso viene determinato nella percentuale e nella misura assoluta. Nel primo caso, invece, il compenso viene determinato solo nella misura percentuale. Dal superiore ragionamento si ricava che stabilire una percentuale su un valore certo non serve a nulla, atteso che il compenso può essere stabilito con valore assoluto e determinato, se pattuito prima. Perché fare un contratto per stabilire un compenso pari al 15% di € 20.000,00. Si stipula un patto per un compenso pari ad € 3.000,00. Non avrebbe senso la possibilità di convenire il compenso in misura percentuale. I compensi determinati in misura percentuale sono sempre legati ad un margine di rischio. Ciò per una ragione di logica. Se il Legislatore ha facultato le parti a pattuire i compensi in misura percentuale, una ragione ci sarà, atteso che il dettato normativo di riferimento è stato redatto da insigni giuristi ed approvato dal Parlamento. Ecco perché la conclusione a cui è pervenuto il CNF non è completamente condivisibile.
La superiore questione è stata trattata recentemente dalla Suprema Corte di cassazione, Sezioni Uniti Civili, 25 novembre 2014, n. 25012. Come accennato sopra, la Corte rigettava il ricorso proposto da un Collega che era stato incolpato di aver stipulato un patto di quota lite, la cui misura percentuale del compenso era sproporzionata rispetto alla prestazione. Il ricorso veniva rigettato e la Corte si uniformava, in parte, alla interpretazione fatta dal Consiglio Nazionale Forense. Questi, in quella Sede, aveva ridotto la sanzione della sospensione alla meno grave censura.
Le questioni oggetto d'esame, sia da parte del CNF che della Corte di cassazione, sembrano essere sostanzialmente due.
La prima. La astratta liceità del patto di quota lite.
La seconda. La proporzionalità e la ragionevolezza della misura del compenso.
Sulla seconda questione, i due Giudici si sono trovati d'accordo, sia il CNF (giudice disciplinare) che la Corte hanno statuito che il compenso deve essere proporzionato all'attività da svolgere, o svolta dell'avvocato.
Sulla prima, trattata dopo per una questione di ordine logico, sembrano avere pensiero difforme. Il CNF, come detto sopra, appare orientato per la illiceità del patto (astrattamente inteso). La Corte, invece, sembra orientata verso la liceità. A supporto di tale orientamento, il giudice di legittimità, evidenzia che l'art. 45 del precedente codice deontologico, applicato ratione temporis, consente all'avvocato di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, purché proporzionati all'attività svolta.
Orbene, la Corte ha statuito ratione temporis, atteso il passaggio dal vecchio al nuovo codice deontologico in pendenza di giudizio.
Mentre col vecchio codice il compenso poteva essere parametrato al raggiungimento del risultato, col nuovo può essere convenuto a percentuale. Cambiano i termini ma il risultato ci appare uguale.
Come spiegato sopra, la determinazione a percentuale non ha senso in difetto di una certa alea. Allora ci chiediamo, perché inserire, nei due disposti normativi, il divieto di patto di quota lite. Qualche autore afferma che si tratterebbe di quota di un bene meramente materiale (¼ dell'appartamento oggetto della controversia).
Non possiamo pervenire ad una nostra (ripeto:nostra) conclusione in difetto di un minimo esame del D. M. 10 marzo 2014, n. 55. Il superiore disposto normativo regola la misura dei compensi dell'avvocato in difetto di contratto stipulato con forma scritta (art. 1). Laddove il rapporto fosse regolato in forma scritta, quindi, il superiore decreto ministeriale non trova applicazione. Si, diciamo noi. Il D.M. non trova applicazione per quanto attiene la misura dei compensi ma, per quanto attiene i principi generali, appare evidente, anche ai non addetti ai lavori, che non possono essere altri e diversi i principi, e soprattutto non possono essere in contrasto con quelli statuiti dall'articolo 13 delle legge forense e dall'articolo 25 del codice deontologico.
Dove vogliamo arrivare? La norma ex art. 45 vecchio codice deontologico, che consentiva di parametrare i compensi al risultato raggiunto è tutt'ora vigente ? o è stata abrogata. A nostro avviso è tutt'ora vigente. E' evidente che lo sia, perché è stata inserita nell'art. 4 del D. M. 55/2014, laddove recita che “ai fini della liquidazione del compenso si tiene conto (…) dei risultati conseguiti. Non vi è dubbio che i risultati conseguiti rappresentino il consuntivo.
Orbene, è possibile che detta norma si applichi solo laddove i compensi non siano stati determinati con forma scritta. A nostro modesto avviso no. I principi sono principi. Non possono dipendere dalla forma, scritta o non scritta.Tra i principi statuti dalla Suprema Corte, nella sentenza 25.11.2014, n. 25012, in parte già indicati dal Consiglio Nazionale Forense nella sentenza n. 213/12 R.G., vi è un passaggio significativo, per ciò, si riporta: “la proporzione e la ragionevolezza nella pattuizione del compenso rimangono l'essenza comportamentale richiesta all'avvocato, indipendentemente dalle modalità di determinazione del corrispettivo a lui spettante”.Un'ultima cosa. La norma che vieta il patto di quota lite è stata pensata per tutelare l'avvocato o il cliente? Nel rispetto della superiore proporzione e ragionevolezza, il patto, garantisce più il cliente o l'avvocato?
Ognuno di noi tragga le proprie conclusioni.