Come statuito dall'art. 13 della nuova legge Forense, i compensi possono essere liberamente determinati fra le parti: l'avvocato ed il proprio cliente. Da un primo esame della disposizione normativa in commento, sembrerebbe che il legislatore della riforma abbia lasciato alle parti quell'autonomia contrattuale che l'articolo  1322 c.c. consente ad essi, comunque, entro i limiti imposti dalla legge.  La nostra riflessione si accentra (trattandosi di disposizione molto complessa) solo su quella parte del dettato normativo che recita: è ammessa la pattuizione (...) a percentuale sul valore dell'affare (...). Sono vietati i patti con i quali l'avvocato percepisca come compenso (...) una quota del bene oggetto della prestazione (...).
Da una interpretazione prima facie sembrerebbe che l'avvocato possa domandare, quale controprestazione alla propria prestazione professionale, una percentuale sul valore della lite. Per rendere meglio il significato di senso (come direbbe Gustavo Zagrebelsky), consideriamo una ipotesi di controversia con l'INPS finalizzata al riconoscimento dell'indennità per accompagnamento. Le parti si accordano per un compenso determinato nella misura del 25% del valore dell'affare al momento della liquidazione degli arretrati. Consideriamo anche che il cliente domandi l'assistenza sin dalla fase amministrativa, passando per la stragiudiziale e concludendo con la giudiziale in appello. Conoscendo i tempi dell'INPS e della Giustizia possiamo ragionevolmente considerare i seguenti termini. Un anno per la fase amministrativa (INPS), due anni per il giudizio di primo grado (Tribunale), tre anni per il giudizio d'appello (Corte d'appello) ed un anno per l'esecuzione. Sommando i tempi delle varie fasi arriviamo a sette anni. Nel mentre il nostro cliente è venuto a mancare e sono subentrati gli eredi. La superiore indennità viene liquidata e corrisposta dalla banca con funzione di tesoreria dell'INPS. Il valore complessivo della lite, al momento della corresponsione ammonta ad €  40.000,00 circa. Sulla base del contratto stipulato con il de cuius, l'avvocato ha diritto ad un compenso pari ad € 10.000,00 e ne chiede, pertanto, conto agli eredi. Questi oppongono il divieto che si ricava da un esame del comma 4 dell'art. 13 in commento. Il superiore disposto normativo statuisce che sono vietati i patti con i quali l'avvocato percepisca come compenso una quota del bene oggetto della prestazione. Orbene, l'accordo sul compenso stipulato fra il professionista ed il cliente è un patto. La misura percentuale del compenso (25%) è una quota (1/4) del bene oggetto della prestazione (indennità per accompagnamento). Ora, se è vero che è ammessa la pattuizione del compenso a misura percentuale sul valore dell'affare ed è anche vero che è vietato all'avvocato percepire quale controprestazione  una quota del bene oggetto della prestazione, le due norme sembrerebbero in contrasto tra loro. La misura del compenso (€ 10.000,00) se decurtata dal bene oggetto della prestazione (€ 40.000,00), non è altro che quota del bene oggetto della prestazione, e non può essere oggetto di pattuizione, quindi non può essere corrisposta all'avvocato. Se, invece, la misura del compenso (€ 10.000,00) viene liquidata in quota parte (€ 5.000,00) da quattro eredi del nostro defunto cliente, con provenienza dai loro conti bancari, frutto del loro lavoro, non è quota del bene oggetto della prestazione, pertanto non è vietata. Orbene, sappiamo che il danaro è bene fungibile per eccellenza, pertanto, il divieto imposto dal comma 4 non viene legalmente superato ma viene solo aggirato. Questa minima ed anche, per certi versi, banale riflessione, non vuole certamente essere esaustiva del ragionamento fatto, anche perché non propone una soluzione, ma intende solo stimolare i Colleghi, che sono soliti seguire queste pagine, ad una riflessione ulteriore e ad un confronto serio per cercare e trovare una soluzione, prima che la questione arrivi avanti la Corte di cassazione.