Sommario: 1. I diritti derivanti dalla bioetica: a) premessa. 2. Segue: b) come diritti garantiti dalle carte internazionali e dai comitati etici - c) come diritti derivanti da principi morali sentiti dalla maggioranza dei consociati. 3. Morale e laicità - Cristo, il primo personaggio storico, raffinato legislatore riformatore della morale nella storia. 4. La novellata scelta legislativa interna, due limiti: a) principio di autodeterminazione del paziente e normazione penale; b) la scienza e coscienza dell’operatore sanitario coinvolto. 5. Segue: diritto positivo e posizioni giuridiche delle corti. 6. L’inviolabilità della vita nella sofferenza tra la norma morale e quella positiva.
 
1. a) La duplice evoluzione sociale e sanitaria della medicina odierna comporta una inevitabile tensione fra contrapposte esigenze individuali e istituzionali. Oggi, emergono nuovi problemi di carattere etico, giuridico ed economico, per questo occorre una doverosa riflessione sulle cause che consentono la risoluzione di problemi giuridici sui diritti derivanti dalla bioetica nel quadro delle relazioni cittadino-sanità e ordinamento giuridico (1). Il malcontento di fondo che caratterizza sempre più spesso l’esperienza del cittadino quando viene a contatto con il mondo sanitario per problemi di una certa rilevanza, è più un problema bioetico che di natura organizzativa, economica o socio-psicologica. Non è da escludere che per molti sanitari vi è un deficit di conoscenza e di sensibilizzazione alle tematiche bioetiche basilari. In altre parole la scarsa consapevolezza della trama bioetica genera l’insoddisfazione del cittadino, il quale pur non conoscendo la natura bioetica di tali problemi, ne avverte l’importanza sotto la forma di mancato rispetto di suoi diritti, di suoi valori, di sue attese. Più precisamente il malcontento si può sostanziare in un mancato rispetto o promozione dei seguenti principi bioetici: principio di autonomia; principio di beneficenza, principio di giustizia.
Per intenderci, il principio di autonomia o (consenso informato), è attualmente non del tutto attuato, quasi sempre ridotto ad un semplice formalismo legale, non vi è, il più delle volte un’informazione veritiera che avviene all’interno di una buona comunicazione fra operatore sanitario e paziente/parente, ad es. la compilazione frettolosa e burocratica di vari moduli ispirati soprattutto a motivazioni cautelari sul piano medico-legale è la negazione stessa del principio di autonomia.
Il Principio di beneficenza, è individuabile nell’interpretazione che gli operatori sanitari danno dello stesso principio di beneficenza. Ovvero, è ancora inusuale che il sanitario si sforzi di comprendere qual è il bene di quel paziente in quella fase della malattia, come è raro che il paziente sia invogliato (dai sanitari e/o dai suoi cari) ad esplicitare il suo concetto di qualità della vita e i suoi bisogni. Infatti, nella migliore delle ipotesi, essi agiscono nella convinzione aprioristica di conoscere qual è il bene del paziente, senza però chiedere a lui quale è il suo bene e come lo dovrà coordinare con il primo dei diritti fondamentali, quello alla vita.
Il medico, per il suo dovere deontologico che lo vincola al bene del paziente, deve per primo spiegare al malato che la libertà di autodeterminazione non può mai rinnegare sé stessa, non può mai pensare di autodistrugge la vita e che nessuno può mai disporre l'eliminazione dell'altro, che la sua soggettiva e mutevole opinione o, addirittura, il suo egoistico interesse può diveniresolo un suo capriccio.
Naturalmente, questo dovere del medico sarà vanificato senza che il paziente possa collegarlo al successivo principio di giustizia.
Il Principio di giustizia, fa riferimento alla solidale ad un’equa distribuzione delle risorse sanitarie, economiche, umane ed organizzative che impongono scelte di investimento e di non abbandono del malato finale e non (2).
Una normazione che sviluppi tale organizzazione, è questa che deve essere posta in discussione in un paese che aspiri a migliorare i suoi diritti civili e non una normativa che disciplini come porre fine alla vita del sofferente.
2. b) Se sul piano nazionale tali diritti sono ed erano disattesi solo recentemente vengono in semplice considerazione per l’attività di alcuni comitati etici. Nel diritto internazionale la nascita di questi diritti parte dagli anni sessanta quando emerge una realtà scandalosa. Uno studio esercitato negli USA nel 1958 (3), fa emergere il fatto che ben poche istituzioni avevano norme procedurali per lo svolgimento della ricerca e come la maggior parte dei centri riteneva indesiderabile qualsiasi forma di controllo, anche nella forma dell’autoregolamentazione. Solo 16 istituzioni, delle 52 risultavano aver risposto a questionari ed avevano moduli di “consenso informato”.
In Italia il dibattito negli anni 2000, era addirittura inesistente. Non è chiaro se ciò fosse dovuto al fatto che nel nostro paese non si svolgesse attività di ricerca in tal senso o alla circostanza per cui le violazioni di diritti restavano nascoste. Anche il quadro generale dei diritti individuali in campo biomedico non risultava molto incoraggiante. In una sentenza del 1967 (4), la corte di Cassazione affermava la fondamentale regola che il medico non poteva, senza il suo consenso, sottoporre il paziente ad alcun trattamento e fondava la tutela della vita e dell’incolumità del paziente sull’art. 13 della Costituzione. Subito dopo però la stessa corte escludeva che il consenso fosse necessario nei casi di condizioni necessitate ed urgenti, nelle quali l’intervento del medico era giustificato dalla norma penale sulla omissione di soccorso, e rimetteva comunque la valutazione della necessità di informare il paziente alla deontologia e quindi alla discrezionalità medica, con una ambiguità non dissimile da quella della giurisprudenza americana degli anni Cinquanta. Negli anni Ottanta continuano a emergere scandali sulle sperimentazioni.
Le organizzazioni mondiali cercano quindi di correre ai ripari, a Manila nel 1981, l’Organizzazione Mondiale della Sanità adottava linee guida per la ricerca sui soggetti umani, con un’attenzione particolare ai paesi in via di sviluppo; a Venezia (1983) venne approvata la terza versione della dichiarazione di Helsinki. Molti i problemi di effettiva applicazione. Le regole affermate erano tenue e non accompagnate da alcun reale controllo o sanzione legale tradizionale. Inoltre queste affermazioni generali continuavano ad essere ambigue nei principi in sé e nella loro pratica applicazione questi documenti senza eccezione mettevano chiaramente in luce il potenziale conflitto tra il ruolo di ricercatore e di terapeuta. E non pare che questa realtà possa essere efficacemente contrastata dai comitati etici mal tollerati.
Il Consiglio delle Organizzazioni Internazionali delle scienze mediche (CIOMS), Organismo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, emana nel 1992 direttive per la ricerca biomedica che pongono al centro proprio i problemi delle ricerche effettuate dalle grandi case farmaceutiche nei paesi in via di sviluppo, dove i bassi livelli culturali rendevano improponibile il modello del consenso informato (5).
Oggi in Europa i nuovi “Comitati etici indipendenti” non esprimono più solo un parere sulla bontà di un progetto di ricerca (il cosiddetto protocollo), hanno la responsabilità di garantire la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere dei soggetti coinvolti in uno studio clinico e di fornire pubblica garanzia di tale protezione. Devono valutare il protocollo di studio, ma anche l’idoneità degli sperimentatori, delle strutture, dei metodi e del materiale da impiegare per ottenere e documentare il consenso informato dei partecipanti allo studio e soprattutto, sono tenuti a controllare la sperimentazione nel suo svolgimento.
Esiste anche il Tribunale per i diritti del malato che nasce negli anni 80 costituito da volontari, nel 1995, il (TDM) ha realizzato un Protocollo dei 14 diritti fondamentali del malato che è stato anche recepito dal Ministero della Sanità (6).
La convenzione di Oviedo dedica numerose disposizioni alla attività di ricerca sugli uomini, in particolare nel cap. V. Tra le norme di portata nazionale si possono ricordare: il Codice di deontologia medica approvato dalla Federazione degli Ordini dei Medici, art. 46 Ricerca biomedica e sperimentazione sull’Uomo; art. 47 Sperimentazione clinica (7).
 
c) Queste norme sono importanti per definire il quadro degli obblighi che i medici si sono autoimposti, ma hanno puro valore deontologico, così come i principi affermati nelle carte internazionali hanno puro valore dichiarativo. Il codice civile e il codice penale contengono norme non specifiche in materia, ma che costituiscono, insieme alle norme costituzionali, il passaggio essenziale per qualsiasi giudizio di responsabilità, anche se il contenuto e il profilo della condotta lesiva sia frutto di una ricostruzione delle disposizioni deboli che spetta al giudice ricostruire. Il giudice si trova, a svolgere un ruolo altamente creativo, che si esprimerà soprattutto nell’individuare o costruire la regola di condotta che il medico deve rispettare o che ha violata.
Il quadro è complesso, una particolarità del campo della sperimentazione biotecnologica sta nella eterogeneità delle fonti. Insomma, la sperimentazione dei farmaci o biotecnologie sull’uomo rappresenta una palestra formidabile: i giudici vengono chiamati a cimentarsi in una attività di creazione giurisprudenziale delle norme a partire da una ricognizione tra fonti di diversa natura e di diversi livelli, spesso sovranazionali e il più delle volte, le ultime, prive di effetti indotti nel nostro sistema per la mancanza di disposizioni legislative. Il che apre a una sorta di diritto giurisprudenziale transnazionale che può, a ragione, essere considerato la prospettiva futura in questo e in altri campi (8).
Attualmente molti passi avanti si sono fatti si pensi alla normativa sulla procreazione assistita che tutt’ora è fonte di contrasti etici ancora in discussione.
Per quanto concerne il presente lavoro, dopo questa breve ed ellittica introduzione, si pensa si possa passare a esaminare i principi naturali che fanno sia da cornice ma anche da contrasto alle scelte legislative attuali.
Tutte le fonti sovranazionali e nazionali prima elencate vengono ad esistenza per i continui bisogni dell’uomo a dover disciplinare (secondo un bene morale sentito dalla maggioranza dei consociati come comune), i casi della vita connessi alle nuove tecnologie che permettono all’ammalato terminale o agli uomini in genere, che cercano un trattamento sanitario, di poterle utilizzare legalmente secondo i propri ragionevoli bisogni.  
 
3. Una ricostruzione sistematica, quantomeno, sul rapporto cittadino-sanità e/o associazioni per i diritti del malato nonché delle strutture non può che partire da alcuni principi che concernono il concetto di giustizia secondo i valori fondamentali della nostra civiltà europea occidentale.
Giustizia, morale, etica, democrazia e laicità, sono termini tutti interconnessi, ove, coloro che si definiscono laici, il più delle volte usano questo aggettivo per cercare di separare dalle implicazioni religiose lo Stato moderno già a partire dalla rivoluzione francese.
Dando uno sguardo alla storia scopriamo che tutto è intrinsecamente connesso.
Molteplici sono le concezioni della giustizia elaborate dalla civiltà occidentale: essa è stata identificata all’origine (fonti giudaico-cristiane) con un ordine divino o naturale che assegna a ciascuno il suo ruolo, con una tecnica giuridica il cui scopo è garantire la convivenza pacifica, o con alcuni valori come l'utilità, l'eguaglianza sociale, la libertà ecc. diritti tutti derivanti dalla legge morale che è l'insieme dei principi generali che guidano il nostro comportamento e le nostre relazioni in uno all'Etica quest’ultima che è la pratica, la modalità della loro applicazione.
Quanto all’Etica è difficile dare una definizione perché essa non è solo morale ma soprattutto propensione a fare il bene, a preoccuparsi degli altri. Tali principi sono infatti tutti collegati alle fonti, prima della torha orale e scritta e poi dai vangeli, solo successivamente entrati nella nostra cultura, che oggi (vuoi per la c.d. globalizzazione, vuoi per il relativismo etico che sta aggredendo attualmente la nostra società), riceve sempre maggiori attacchi non solo da influenze culturali contrarie a quelle elencate prima ma anche da parte dei fautori dei diritti civili in senso “relativistico” non laico che ricercano il massimo della civiltà etica e sociale ma che in effetti finiscono per divenire incivili nella disperata ricerca di regolare i loro rapporti quando si tratta dei modi di concepire una famiglia, di stabilire i diritti delle coppie etero e omosessuali, le adozioni, la procreazione assistita ed altro secondo una morale sentita solo da una minoranza dei consociati che lo Stato deve si tutelare in quanto minoranza ma che deve in ogni caso evitare di urtare al contempo la sensibilità del senso etico della maggioranza soprattutto tenendo conto del concetto di democrazia.
Questo perché, non tutti i rapporti, solo perché legittimati da una parte del consenso popolare possono essere considerati morali.
In realtà, è bene precisare anche il concetto di democrazia, perché attualmente anche tale espressione si perde in molte massime della affannosa ricerca ad ottenere i diritti civili.
La democrazia oggi non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell'immoralità. Fondamentalmente, essa è un «ordinamento» e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere «morale» non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale a cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè dalla moralità dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve per raggiungere i diritti civili.
Tanto precisato, occorre dirimere anche la contrapposizione che parte da coloro che si ritengono laici o finanche di quelli anticlericali e che dunque vedono l’affermazione dei diritti civili in un’ottica scevra da implicazione di varia natura religiosa.
Con specifico riferimento al “caso italiano”, la laicità fu affrontata con la sent. 12.4.1989, n. 203, la Corte costituzionale in tale occasione affermò l’esistenza nel nostro ordinamento della cd. laicità positiva, quella cioè della «non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale»; la Corte costituzionale non accolse quella concezione della “laicità-neutralità”, considerata «l’espressione più propria della laicità» (9).
La scelta fu nel senso che il compito dello Stato laico è quello di regolare in maniera pacifica e civile le relazioni tra la maggioranza e le minoranze, proteggendo — di più: favorendo — il pluralismo e impedendone il soffocamento.
Occorre tener presente pure quella connessione di cui si è prima discusso, nel senso che, laicità non significa separazione fra morale (frutto di secoli di civiltà occidentale fatta dai richiamati principi) e politica. La moralità e che stabilisce ciò che è giusto nella politica che è laica.
Sul punto si può affermare che la laicità è si libertà per tutti; è rispetto dei diritti di ogni individuo e gruppo di seguire ciò che detta la coscienza, di praticare, organizzandosi, la propria filosofia, ideologia e religione senza violare i diritti altrui ma all’interno di tale coscienza vi deve essere sempre il riconoscimento reciproco della dignità di tutte le visioni del mondo non violente, del diritto di dibattito e confronto senza pretendere di acquisire posizioni di monopolio o di predominio in forza di privilegi che il potere politico dovrà proteggere.
Il tema è dunque il contenuto della coscienza riferito al valore della vita o ai valori nella vita!
Concetti questi dove ritorna, volenti o nolenti, il senso etico di propensione a fare il bene, a preoccuparsi degli altri! Si, proprio i concetti espressi da quella morale o cultura occidentale derivante dal personaggio storico più democratico del mondo, ovvero, Cristo, che fu il primo personaggio storico, raffinato legislatore riformatore della morale nella storia!
La storia antica ci narra il collegamento tra il diritto naturale previgente e come questo fosse violento rispetto a quello successivo al figlio dell’uomo, volenti o no, tutto il diritto positivo attuale è intriso di quella nuova etica che ne costituisce la c.d. pietra d’angolo.
Fu Cristo a mettere ordine nel pensiero del diritto naturale degli uomini.
Facendo un passo ancora più indietro partendo dai famosi Sofisti, il pensiero appariva caratterizzato dal relativismo e varie altre vedute, non solo nel campo gnoseologico, ma anche nell'etica (10), come eterogeneità di interpretazioni del «giusto per natura». Il sofista Callicle sosteneva la caducità delle leggi positive, frutto della volontà dei più deboli riuniti per soverchiare la naturale superiorità dei più forti, (11) e la loro contrarietà al diritto di natura, il quale postulava, sia fra gli animali sia fra gli Stati, che il più forte s'imponga sugli altri (12) consistendo in questo la «giustizia di natura». Il pensiero che si tramandava dall’età antica concepiva dunque il diritto naturale come un istinto naturale, identificantesi con la forza bruta. Questa concezione – che sarà ricorrente nella storia del pensiero dell'umanità veniva, subìta passivamente dai consociati che ad essa si adeguavano. (13) Emergeva, insomma, quello che oggi definiamo cultura di morte, quando si fa strada negli uomini il seme dell’egoismo nel suo insieme che tradisce una concezione della libertà del tutto individualistica e che finisce per essere la libertà dei «più forti» contro i deboli destinati a soccombere (si vedrà qui di seguito il concetto ricorrere nel consenso previsto nel disegno di legge DAT).
Più avanti Antifonte, sosteneva che, «la maggior parte delle cose giuste secondo la legge sono in opposizione con la natura», perché per natura il singolo individuo perseguirebbe il suo giovamento personale, mentre la legge lo impedisce, essendo le norme di questa «convenzionali», ossia «frutto di un accordo», e derivando dal loro rispetto alla «giustizia». Dalla riflessione di Antifonte anche il diritto romano benchè gli stessi erano d'indole pratica e poco avvezzi alla meditazione filosofica, riuscirono a formulare, attraverso l'influenza greca, alcune dottrine, seppur non originali, incentrate sui temi del diritto, della giustizia, della società e dello Stato. Da un profondo sentimento religioso è infatti segnato il pensiero di Lucio Anneo Seneca, il quale postula un'ideale fratellanza fra tutti gli uomini, perché – come si legge nelle Lettere morali a Lucilio (14) e poi quella del Corpus iuriscivilis è possibile rinvenire, accanto alla definizione della legge naturale proposta da Ulpiano, 170 – 228 d.c. e quella datane dal giureconsulto Paolo III sec. d.c., secondo cui il diritto naturale è «quello che è sempre giusto e buono» (15), seguita più in la da Giustiniano 482 – 565 d.c. che inizia a codificare il nuovo insegnamento.
Prima della conversione al cristianesimo, Paolo di Tarso fu, da quanto risulta dalla Lettera ai Filippesi, «irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge».
Tenuto conto della svalutazione paolina della legge, la quale è superata nell'amore per il Cristo, è possibile dar l'interpretazione corretta di un passo della Lettera ai Romani (2, 14-15), in cui, fin dall'antichità, fu vista l'accettazione dell'Apostolo Paolo della dottrina del diritto naturale, favorendo grandemente l'introduzione di tale teoria entro la morale cristiana. (16)
Sorvolando tutto il pensiero medievale da Sant. Agostino ed altri si arriva a Pietro Piovani (17), che parla di ambiguità del concetto del diritto naturale grazie ad una convenuta non chiarezza di definizione, e nella impossibilità di individuare i precisi sensi di «diritto naturale» e «giusnaturalismo» in relazione alle condizioni di vita che li hanno determinati.
Un dato accomuna dunque questa ricerca, ovvero, quello di una morale che racchiude sempre e comunque la propensione al bene comune come riformata dal personaggio storico Gesù.
 
4. Senza essere clericale ma semplicemente giurista di educazione critica e scientifica che accetta la morale così come derivata allora occorre chiedersi: “posso preoccuparmi in senso etico del prossimo che per condizione disagiata che sia mi chiede di porgli fine alla vita attraverso le predisposte norme del D.L. recante “norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari?” Il disegno di legge citato fu oggetto di discussione alla Camera il 13 marzo 2017, ma l’aula andò deserta e la discussione fu rimandata, insomma, diverse spinte trasversali influenzarono i deputati per una maggiore riflessione sul testo che pare proprio nascondere una legalizzazione dell’omicidio del consenziente, con tutte le annesse problematiche etiche delle diverse parti politiche.
Il testo base adottato prevede che il medico sia vincolato dalle dichiarazioni anticipate (magari rese molto tempo prima) di un paziente, o di un suo “fiduciario”, anche quando in queste c’è la richiesta di sospensione della nutrizione e dell’idratazione. In altre parole, il medico può essere obbligato a lasciar morire il malato di fame e di sete. Il testo introduce a tutti gli effetti l’eutanasia omissiva.
In virtù di un mal compreso “diritto all’autodeterminazione”, si permettono atti che invece di realizzare l’autodeterminazione piuttosto la distruggono: non c’è libertà senza vita. In nome di un assurdo “diritto a morire” si introduce il conseguente “obbligo di uccidere”. Atti giustamente puniti dal codice penale vengono mutati in atti pietosi e dovuti. Il malato si trasforma in peso sociale, titolare di un diritto alla vita non più indisponibile.
 
a) Dalla lettura del previsto art. 1, co. 3 del DAT in discussione, appare chiaro che l’odierno legislatore incide subito sulla c.d. autodeterminazione del paziente.
Ma quali sono i limiti?
In Italia è corretto sostenere che l’autodeterminazione in ambito sanitario è già oggetto di tutela ma certamente questa tutela non ha carattere assoluto non può superare i limiti imposti da norme positive quali ad es. quelle che vietano di stipulare patti contrari alla legge, norma prevista nel c.c. o di ogni altra norma che limitano i singoli comportamenti individuali, ovvero, l’autodeterminazione trova comunque il limite nelle norme che vietano di disporre del proprio corpo e della propria vita quando si arrivi finanche ai casi di fine vita.
Qui soccorrono sempre i medesimi principi democratici ed etici richiamati.
Vediamo cosa indica il diritto positivo.
Nella pratica, in carenza di norme, i giudici di Cassazione in alcuni casi hanno cercato di guardare anche a decisioni straniere al fine di scegliere il giusto valore etico di un comune sentire, si pensi ai richiami delle decisioni straniere come quelle di Francia, Stati Uniti, o Gran Bretagna, particolarmente eloquenti le parole utilizzate nel già citato caso di Tony Bland: «the principle of the sanctity of life, whichitis the concern of the state, and the judiciaryasone of the arms of the state (…) isnot an absoluteone. It does not compel a medical practitioner on pain of criminal sanctions to treat a patient, who will die if he does not, contrary to the express wishes of the patient, insomma non si deve neppure arrivare ad un mantenimento in vita che costituisca di per sé un elemento prevalente rispetto alla volontà individuale (18).
Un secondo elemento da codificare in senso etico e su cui spesso si discute in ambito di decisioni di fine vita riguarda la configurabilità e le conseguenze del cd. accanimento terapeutico per i trattamenti futili, sproporzionati, incapaci di dare alcun beneficio (elementi che in realtà ne escludono il carattere “terapeutico”), è chiaro come tutto dipenda dal valore che si darebbe al grado terminale del paziente che per chi scrive dovrebbe essere pari al 100%.
Per alcuni, ma non per altri, ad esempio, il mantenimento in vita, anche in uno stato vegetativo irreversibile potrà costituire un beneficio in sé e nessun trattamento di ventilazione meccanica o di nutrizione o idratazione artificiale potrà mai costituire un accanimento. Per alcuni, ma non per altri è possibile e opportuno dare una definizione oggettiva di tale concetto, oppure farne dipendere l’individuazione sulla base di ciò che il singolo paziente coinvolto intenderà per beneficio e futilità.
In questa sede, le ragioni e le basi dell’interruzione di un trattamento sanitario dipendono non dalla valutazione tecnica che di essi si dà in termini di utilità, ma dalla scelta della persona, la quale ha diritto di rifiutare cure che pure si qualifichino come efficaci ed adeguate.
Ma il diritto al rifiuto che prevede il DAT all’art. 1 può diventare diritto al suicidio al fine di far valere una scriminante al reato assistenza al suicidio o legalizzazione dell’omicidio del consenziente?
Vi è questo limite all’autodeterminazione del paziente?
Olanda, Belgio, Svizzera, Oregon, testimoniano come l’autodeterminazione nel terminare la propria vita in maniera ritenuta soggettivamente dignitosa non venga mai contemplata e tutelata in forma assoluta.
In Italia il dibattito rimane acceso oltre che per gli aspetti legati alla parte del diritto penale anche e soprattutto per le critiche mosse dalla morale di valore cattolica come sopra già esposta.
In termini generali il DAT prevede il rifiuto (eutanasia omissiva) e non quella attiva (assistenza al suicidio e omicidio del consenziente).
Si tratta di una distinzione che si può basare sull’intenzione del paziente (di morire per l’eutanasia attiva, di non essere oggetto di un trattamento sanitario non voluto per il diritto al rifiuto), sul proposito del medico (a interrompere un trattamento a cui alla persona gli è stato attribuito il diritto di rifiutare), sul risultato della “liberazione” del paziente nel rifiuto, sul nesso di causalità (la morte del soggetto sarebbe causata dalla malattia che, non più trattata, farebbe il suo corso, conducendo il paziente ad una morte per cause naturali).
Tuttavia, alcune riflessioni basate sull’esame di casi concreti possono contribuire a rendere meno certo il confine dell’autodeterminazione tra richiesta attiva o omissiva.
Vediamo attualmente il caso di eutanasia sul minore in Belgio, il paese è finora il primo ed unico ad aver approvato, nel 2014, una legge che lo consente.
La vittima aveva 17 anni e, “soffriva di dolori fisici insopportabili. I dottori hanno usato dei sedativi per indurre il coma come parte del processo”. (19)
La legge belga del 2014 consente ai genitori di scegliere la “dolce morte” per i propri figli malati terminali dopo averne fatto richiesta al medico curante, che deve sottoporre il caso al Dipartimento di controllo federale e valutazione dell’eutanasia e riceverne l’autorizzazione. La legge specifica che anche il minore deve esprimere una forma di consenso.
Le reazioni in Italia.  Sul caso è intervenuta da Scienza e vita, l'associazione che collabora in modo organico con la Cei per i temi della bioetica. "Il diritto all'eutanasia del bambino, altro non significa che attribuire ad un adulto il potere di vita e di morte su un minorenne" e se si ammette l’eutanasia, il prossimo passo sarà l’assassinio dei disabili?
Le critiche si rifanno a timori fondati che si sono avuti nella storia come ad es. nelle pratiche eugenetiche naziste sotto cui cadde anche un cugino di Papa Benedetto XVI.
Potrebbe indurre a pensare così la storia di Nancy Fitzmaurice, una bambina britannica di 12 anni morta il 21 agosto 2014, che respirava da sola e non stava morendo, ma era nata cieca con idrocefalia, meningite e setticemia, non poteva camminare, parlare, mangiare o bere e trascorreva ore gridando in agonia. La dichiarazione della madre: “a un certo punto soffriva e gridava continuamente. Mi uccideva l’idea di non poter far nulla per aiutarla; tutto quello che volevo era che mia figlia morisse con dignità mentre le tenevo la mano”. (20)
Od ancora il caso del 24 settembre 2000, di Vincent Humbert, 19 anni, francese, aveva subito un terribile incidente stradale che, dopo nove mesi di coma, lo lasciava tetraplegico, muto e quasi cieco, ma drammaticamente lucido.
In preda a continue, indicibili sofferenze, Vincent detta a un’infermiera - sfruttando l’unica parte di sé che riesce a muovere, il pollice destro - una lettera aperta indirizzata a Chirac, in cui manifesta per la prima volta pubblicamente la volontà di morire: “A Lei, che ha il diritto di concedere la grazia, io chiedo il diritto di morire”. Ma Chirac non può aiutarlo, anzi, lo incita a vivere. A Vincent non resta che pregare sua madre, di donargli la più grande prova d’amore: procurargli la morte. Due giorni più tardi, una équipe medica diretta dal dottor Chaussoy decide di staccare il respiratore e inietta del cloruro di potassio, un farmaco mortale, a Vincent. È il 26 settembre del 2003. La madre e il medico vengono imputati per somministrazione di sostanze tossiche e per avvelenamento con premeditazione. Solo il 28 febbraio del 2006 il giudice Anne Morvant, su raccomandazione degli stessi procuratori, assolverà la madre di Humbert e il dottor Chaussoy, affermando che i due hanno agito in circostanze estreme, il che “li esonera da qualsiasi responsabilità penale”. (21)
Al di la della dichiarazione sconvolgente che definiva la più grande prova d’amore, se per amore si può credere di arrivare a dare la morte? La Corte europea per i diritti umani negava a Diane Pretty, donna londinese di 43 anni, il diritto all'eutanasia. La Corte non era mai stata chiamata prima a decidere su questo tema e da questa sentenza, nel caso fosse stata a favore della Pretty, si aspettava una nuova linea a livello europeo nei confronti dell'eutanasia. Diane Pretty ha espresso in una conferenza stampa tutta la sua delusione per la sentenza. Parlando attraverso un sintetizzatore elettronico di voce disse: "La legge mi ha tolto tutti i miei diritti". Diane Pretty, che di mente era ancora lucidissima, non sopravviverà a lungo, quella che l'attese fu una morte terribile: per soffocamento. Si rivolse perciò, prima ai giudici inglesi che per tre volte respinsero la richiesta, e poi quelli europei, di potersi suicidare con l'aiuto del marito. (22)
Diane Pretty invoca gli articoli 2 e 3 della Convenzione europea dei diritti umani che vietano "trattamenti degradanti e disumani", chiama in causa le leggi contro le discriminazioni e sostiene che il diritto a una vita dignitosa includa anche il diritto a una morte accettabile. Ma la Corte di Strasburgo, nella sua sentenza, affronta punto per punto le cinque presunte violazioni che Diane Pretty ha ipotizzato nel suo ricorso contro il governo del Regno Unito. In particolare, rispetto all'articolo 2 della Convenzione - ispirato alla salvaguardia del diritto alla vita - la Corte conclude che questo "non può essere interpretato come tale da conferire il diritto diametralmente opposto", cioè quello a morire. Anche nelle altre quattro questioni sollevate da Diane Pretty per presunte violazioni degli articoli 3, 8, 9 e 14 della Convenzione, i magistrati decisero che il Regno Unito non fosse daritenere" colpevole". "La Corte - recita il verdetto - non può non comprendere la paura della donna: andare incontro a una morte angosciante e dolorosa, senza la possibilità di porre fine alla propria vita. Da questo, però, non può derivare un diritto a morire, né per mano di una terza persona né con l'assistenza dell'autorità pubblica".


Tony Nicklinson, ingegnere che viveva nella cittadina di Melksham e affetto dalla “sindrome locked-in”, aveva chiesto fin dal 2010 di essere ucciso dalla moglie o da un medico, liberandoli da ogni responsabilità. Il 16 agosto 2012 la Corte suprema inglese ha respinto la sua richiesta, non potendo approvare un caso di eutanasia. (23)
La Corte d’appello riconobbe che la legge inglese interferiva con il diritto dei pazienti all’autodeterminazione ma anche che il divieto di suicidio assistito ed eutanasia è una «interferenza proporzionale» giustificata e che trattandosi di «questioni profondamente sensibili circa la natura della nostra società» spetta al Parlamento decidere su di esse.
La sentenza chiuse le porte al suicidio assistito e all’eutanasia nel Regno Unito, anche se una seconda decisione della stessa Corte lascia aperto uno spiraglio. Con una maggioranza risicata, come scrive Avvenire, i giudici hanno accolto il ricorso di una terza persona, «indicando la necessità di stabilire nuove linee guida per i medici e le infermiere che assistono un paziente che va all’estero per ricorrere all’eutanasia». (24) 
Per quanto si possa obiettare, da parte dei c.d. fautori dei diritti civili in uno Stato libero, gli ordinamenti di cultura occidentale si rifanno a quel senso morale ed etico del bene e dell’amore del prossimo che non può recedere al valore della libertà del più forte contro quella del più debole (le encicliche che seguiranno ne spiegano il senso).
In riferimento ai casi citati, può ritenersi come l’intenzione del paziente, il proposito dei medici e il risultato della condotta possano considerarsi complessivamente analoghi alla disciplina del consenso informato diretto all’autodeterminazione di cui al disegno di legge italiano.
Ciò che rimane fermo è la distizione della causa del decesso: se le condizioni del paziente “permettevano” di essere lasciato morire per cause naturali, o per quelle che richiedono un aiuto esterno.
Pure a tal proposito, tuttavia, emerge una responsabilità per omissione e, comunque, l’intervento richiesto, al fine di interrompere la ventilazione meccanica o le terapie, riduce, si configurano come azioni mediante omissione o omissione mediante azione.
La dottrina internazionale in ogni caso tende a considerare leciti, sulla base della dottrina del doppio effetto, anche alcune ipotesi di sedazione terminale in cui la morte potrebbe essere anticipata dall’impiego dei farmaci (causa esterna, quindi), pare che i motivi che stanno alla base della distinzione della disciplina fra eutanasia attiva e rifiuto del trattamento possano in alcuni casi limite non ritenersi inattaccabili, basando le ragioni della distinzione fra un divieto penale ed un diritto fondamentale su un elemento accidentale come le caratteristiche della malattia cui si è affetti, le quali determinano la necessità o meno di un sostegno artificiale (interrompibile).
Tutto ciò porta a tre ordini di considerazioni: il ruolo e la percezione del medico come professionista che cura e non che uccide o aiuta a uccidersi, i timori per le possibili derive legate all’argomento della china scivolosa (c.d. slipperyslope, ovvero, "l'eutanasia è pericolosa. Si comincia col dare la morte a quelli che la chiedono. Poi a quelli che presumibilmente la chiederebbero. Poi a quelli che dovrebbero chiederla. Poi a quelli che la meritano.").
In ogni caso il limite dovrebbe essere sempre costituito sulla indisponibilità del bene vita intesa in termini di sacralità e che solo in una fase di malattia allo stadio terminale tale limite potrebbe interrompersi.
 
b) Un secondo limite all’autodeterminazione del paziente che voglia disporre delle fasi finali della propria vita deriva dalla componente che potremo ricondurre alla scienza e coscienza dell’operatore sanitario coinvolto.
Nei casi in cui la decisione del paziente richieda la partecipazione di tale figura professionale, riemerge quel processo di condivisione che abbiamo visto contraddistinguere i presupposti del consenso. In quanto scelta morale, il rifiuto di un trattamento vitale, ad esempio, coinvolgerà la struttura – appunto – morale di tutti i soggetti coinvolti, quindi anche del medico chiamato ad interrompere le cure iniziate e poi non più volute. E chi riterrà contraria alle proprie convinzioni la partecipazione ad un’attività cui comunque segue la morte del paziente potrà esimersi dall’intervenire senza subire alcuna conseguenza discriminatoria.
Le basi normative di tale facoltà – cui in questa sede non si può che dedicare un cenno – si possono trovare, in termini analogici, negli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione secondo quanto ritenuto dalla consolidata giurisprudenza costituzionale in materia di obiezione di coscienza al servizio militare, oltre che alle ipotesi legislativamente previste in ambito di interruzione volontaria della gravidanza (art. 9 della legge 194 del 1978) o di sperimentazione animale (legge 413 del 1993). In termini specifici, inoltre, va ricordato il codice di deontologia medica, il cui art. 22 espressamente dispone che  il medico al quale vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, può rifiutare la propria opera, non può che essere in conflitto con l’art. 1, co. 7, del disegno di legge DAT.
 
5. La posizione delle corti italiane non è molto dissimile dalla linea sopra marcata.
La Corte di Cassazione con la sentenza n° 21748/07, intervenuta sul caso Englaro (25) esclude che possa essere richiesto al giudice di ordinare l’interruzione del trattamento vitale: «una pretesa di tal fatta non è configurabile di fronte ad un trattamento sanitario, come quello di specie, che, in sé, non costituisce oggettivamente una forma di accanimento terapeutico, e che rappresenta, piuttosto, un presidio proporzionato rivolto al mantenimento del soffio vitale». 
La Corte di Cassazione, così, adotta una scelta di sentire comune analoga a quella adottata dalla High Court of Justice nel caso citato di Ms B. Anche in tale pronuncia, infatti, la giudice condannò l’amministrazione responsabile della struttura ospedaliera (il Trust) per non aver adempiuto al «duty to do somethingeffective to resolve the dilemma» sorto fra il coinvolgimento emotivo dei medici curanti e la volontà della paziente, astenendosi dall’imporre ai primi alcun obbligo di intervento specifico. (26)
E quanto la dimensione della scienza e coscienza del professionista possa costituire un limite all’autodeterminazione individuale nelle fasi finali della vita si desume anche da un altro caso britannico, del tutto atipico, in cui un paziente affetto da malattia spino-cerebrale degenerativa, Leslie Burke, aveva chiesto ai propri medici di non interrompere la nutrizione e l’idratazione artificiali anche nel caso in cui le sue condizioni si fossero aggravate al punto da condurli, sulla scorta delle linee guide prodotte dal General Medical Council, a considerare tali trattamenti un futile accanimento. Nel giudizio che ne seguì, la Court of Appeal riconobbe l’autonomia dei medici nel considerare una cura inutile e, quindi, nell’interromperla, stante il divieto di praticare condotte di cd. accanimento terapeutico.
Tali spunti, sono in un certo qual modo confluiti nel DAT al nostro esame con la differenza che il legislatore italiano cerca principalmente la legittimazione nell’autodeterminazione del malato dopo l’informazione legata alle considerazioni di scienza e coscienza dei medici coinvolti in modo da non porre alcun limite all’autodeterminazione del paziente che mentre il limite che si basa sulla scienza non pare essere aggirabile nel momento in cui una persona richieda un trattamento che si sia dimostrato futile o inefficace, quello che si basa sulla coscienza risulta superabile di fronte ad una volontà del paziente di rifiutare una cura astrattamente efficace in virtù dell’obbligo anche in capo all’obiettore di attivarsi per trovare altri professionisti che ritengano compatibile con la propria coscienza adoperarsi per interrompere il trattamento.
Un ulteriore limite si stabilisce all’art. 3 (disposizioni anticipate di trattamento “DAT”) nel momento in cui la persona non sia in grado di rappresentare in forma diretta ed attuale la propria scelta, infatti, per superare la possibilità di una decisione che si basi sulla volontà della persona coinvolta, si arriva a cancellarne la cifra morale, potrebbe anche ritenere sussistere una prevalenza incondizionata del principio di precauzione, secondo cui la vita dovrebbe essere sempre artificialmente mantenuta anche se ridotta allo stato vegetativo o viceversa di dover dichiarare l‘autorizzazione a sospendere i trattamenti sanitari.
A fronte di quella che diventerebbe una presunzione juris et de jure di favore incondizionato per il mantenimento in vita per un tempo indefinito, una possibilità per recuperare dignità e potenzialità morali è quella di tentare, dove possibile, la ricostruzione della volontà del soggetto divenuto incapace si contrappone la possibile eutanasia.
In ogni caso il DAT azzera la struttura logica e prudente della giurisprudenza che si era mossa su tre passaggi: esistenza del diritto al rifiuto, tutela della dignità e dei diritti dell’incapace considerato persona in senso pieno, possibilità di ricostruirne la volontà. Il tutto, venato dalle cautele dettate dal principio di precauzione, cui si collega la prevalenza del mantenimento in vita in presenza di dubbi sulla attendibilità della rappresentazione del rifiuto, per non parlare delle implicazioni dei minori sull’idea di una universale eguaglianza tra gli esseri umani quanto l’altrettanto universale dovere di solidarietà nei confronti di coloro che, tra essi, sono i soggetti più fragili o minori.
Il DAT insomma racchiude in parte alcuni principi di giurisprudenza che sulla scorta di quella statunitense, tedesca e britannica, anche lquella italiana, arriva avvicinandosi al caso Cruzan risolto dalla Corte Suprema degli Stati uniti nel 1990, a decidere con particolare cautela che: «la funzionalizzazione del potere di rappresentanza, dovendo esso essere orientato alla tutela del diritto alla vita del rappresentato, consente di giungere ad una interruzione delle cure soltanto in casi estremi: quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una vita fatta anche di percezione del mondo esterno; e sempre che tale condizione – tenendo conto della volontà espressa dall’interessato prima di cadere in tale stato ovvero dei valori di riferimento e delle convinzioni dello stesso – sia incompatibile con la rappresentazione di sé sulla quale egli aveva costruito la sua vita fino a quel momento e sia contraria al di lui modo di intendere la dignità della persona».
Oltre alle criticità tipiche di ogni attività di ricostruzione di volontà presunte, si inserisce in questo contesto la questione del carattere vincolante o meno di eventuali direttive o dichiarazioni espresse in forma anticipata. Fino al DAT in commento, l’ordinamento italiano si poneva in una situazione particolare: il principio della “considerazione” in cui il medico avrebbe dovuto tenere eventuali direttive anticipate è previsto tanto nel codice di deontologia medica (art. 38, terzo comma) quanto nella citata, non ancora ratificata Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina (art. 9), ma non risulta espresso in alcuna legge vigente. A fronte di tale quadro, la Corte di Cassazione riserva un ruolo assai rilevante alle dichiarazioni precedentemente manifestate.
Per converso la posizione che si assume, come all’inizio esternata, va nella direzione opposta al consenso di porre fine alla vita proprio per eccessiva astrattezza non ci convince la prospettiva di rendere vincolanti attestati quali i «do not resuscitate orders» statunitensi o documenti rintracciabili anche in internet che, a prescindere dalla situazione concreta, riportano la volontà generica di rifiutare trattamenti di sostegno vitale, ciò genera equivoci, siamo per una scelta legislativa non mascherata come quella del DAT ma che va nel solo senso dell'eutanasia omissiva, o meglio, dell'astensione terapeutica che, come abbiamo detto, consiste nel rifiutare il cosiddetto “accanimento terapeutico”; ma solo ed esclusivamente per le patologie irreversibili al 100%. In questi casi crediamo sia giusto anche per un Cristiano laico poter rifiutare che macchine per la respirazione e sonde gastriche prolunghino giorni di inutile sofferenza.
Contrariamente si rischierebbe di ripetere gli errori compiuti dal nazionalsocilismo che era nient’altro che un’applicazione della biologia». Ovvero la messa in pratica, su scala politica, economica e finanche sanitaria, del principio che esistono vite “degne” e altre che invece sono “indegne” di essere vissute. Tale lapidaria ammissione del gerarca nazista Rudolf Hess, risalente al 1934, poco dopo la presa del potere da parte di Hitler, illumina la prassi dell’eutanasia di Stato nel Terzo Reich, sancita dalla celebre “Operazione T4”, chiamata così dall’ufficio al numero 4 di Tiergartenstrasse, nel quartiere di Charlottenburg, a due passi da Berlino, dove il Fu¨hrer sancì – siamo nel 1939 – l’eliminazione fisica degli infermi e dei malati di mente da parte della burocrazia statale germanica.
Fino a porre un taglio agli “sprechi” Secondo alcune stime – quelle ad esempio dello storico austriaco Florian Zehethofer – l’intera operazione T4 comportò l’uccisione di 70 persone al giorno per 3 anni, per un totale di 60-70 mila vittime. (27)
A voler trarre delle conclusioni, può essere valida la decisione di rinunciare al cosiddetto «accanimento terapeutico», ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza «rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi». Si dà certamente l'obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte.
Nella medicina moderna vanno acquistando rilievo particolare le cosiddette «cure palliative», destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano.
Il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l'assunzione del «bene comune» come fine e criterio regolativo della vita politica.
La risposta giusta alla sofferenza alla fine della vita deve solo essere un’attenzione amorevole, di accompagnamento verso la morte – in particolare anche con l’aiuto della medicina palliativa – e non un “attivo o passivo aiuto a morire”.
Il tema è sempre il contenuto della coscienza riferito al valore della vita o ai valori nella vita!
Questo perché la vita è sempre ed in ogni caso inviolabile fino all’ultimo soffio vitale.
La Chiesa cattolica italiana è favorevole, e anzi ha sollecitato, la promulgazione di una legge che riconosca valore legale alle dichiarazioni su i trattamenti terapeutici per i malati terminali, soprattutto consentendo di evitare inutili accanimenti terapeutici. D’altro canto il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della CEI, ha più volte espresso la preoccupazione che cìò non rappresenti in qualche modo una forma mascherata di eutanasia. Di conseguenza non è ammessa la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, che è l'argomento principale su cui sono divise le posizioni e conseguentemente i vari disegni di legge presentati in parlamento, in quanto trattamento di sostegno vitale e non terapia sanitaria. Per la CEI resta centrale il ruolo del medico, che, pur in presenza di dichiarazioni inequivocabili, ha il compito di valutare secondo scienza e coscienza i trattamenti da porre in atto. Bagnasco così sintetizza l'auspicio della Chiesa cattolica italiana: che in questo delicato passaggio − mentre si evitano inutili forme di accanimento terapeutico − non vengano in alcun modo legittimate o favorite forme mascherate di eutanasia, in particolare di abbandono terapeutico, e sia invece esaltato ancora una volta quel favor vitae che a partire dalla Costituzione contraddistingue l’ordinamento italiano.”
 
6. Il collegamento tra la norma morale e quella positiva, in materia di vita, sofferenza e speranza è confermata nella ricostruzione operata nella enciclica Evangelium Vitae (28) e nella lettera apostolica salvifici-doloris di Giovanni Paolo II.
Vediamo alcune constatazioni.
La prima è quella sulla realtà del dolore, il suo carattere indesiderabile è universale: l'uomo lo rifiuta e, nello stesso tempo, sa di non essere in grado di evitarlo.
Da parte di molti laici si obietta che proprio la religione dovrebbe rendersi conto che è spregevole vedere soffrire una persona ammalata in stato irreversibile, e che i precetti cristiani per un non credente valgono meno dell’edizione di topolino.
La risposta che mi fu data qualche tempo fa denota proprio quel senso di onnipotenza che pervade l’uomo di oggi (posso fare nella vita ciò che desidero nei limiti della legge e per cui mi dovete una legge che mi permetta di essere libero di porre anche fine alla vita se soffro) si è proprio il concetto del relativismo etico, io sono colui che può fare tutto ciò che vuole.
San Giovanni Paolo II ci ricorda nella sua lettera il carattere della sofferenza che arriva finanche all’auspicio della speranza.
Si riportano qui alcuni passi salienti al fine di spiegare quando i diritti dell’uomo possono subire una compressione.
Da queste riflessioni emerge l’esempio del passaggio della morale nella norma positiva penale.
Il Santo parte dalla raffigurazione di Abele, ucciso dal suo fratello geloso, è la definisce la prima immagine di Gesù nell’Antico Testamento. Richiama poi la figura di Giuseppe, venduto dai suoi fratelli. 
“ … La negazione dei diritti dell'uomo nella pratica risiede in una concezione della libertà che esalta in modo assoluto il singolo individuo, e non lo dispone alla solidarietà, alla piena accoglienza e al servizio dell'altro.
Se è vero che talvolta la soppressione della vita nascente o terminale si colora anche di un malinteso senso di altruismo e di umana pietà, non si può negare che una tale cultura di morte, nel suo insieme, tradisce una concezione della libertà del tutto individualistica che finisce per essere la libertà dei «più forti» contro i deboli destinati a soccombere.
Proprio in questo senso si può interpretare la risposta di Caino alla domanda del Signore «Dov'è Abele, tuo fratello?»: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gn 4, 9).
C'è un aspetto ancora più profondo da sottolineare: la libertà rinnega sé stessa, si autodistrugge e si dispone all'eliminazione dell'altro quando non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità. …”. 
Ci soccorre qui la richiesta del ragazzo francese rivolto alla madre se mi ami fammi morire ma questa può risultare lecita?
Qui soccorre alla mente anche il caso Fapo il giovane DJ suicidatosi in Svizzera.
Al di là dell’età di una persona il Pontefice prosegue: “… La domanda posta da un uomo che non considera più la vita come uno splendido dono di Dio, una realtà «sacra» affidata alla sua responsabilità e quindi alla sua amorevole custodia, alla sua «venerazione» perché finito in un letto di ospedale e dove non vede più altra via d’uscita se non quella di non poter più essere parte attiva di una vita all’insegna della non sofferenza allora pone la domanda. La persona che con grandi sacrifici gli sta accanto e che soffre nel vederlo in quello stato e che pure soffre per il proprio stato capisce che la vita è semplicemente divenuta «una cosa», che l’altro rivendica come sua esclusiva proprietà, totalmente dominabile e manipolabile. Queste, da esperienze originarie che chiedono di essere «vissute», diventano cose che si pretende semplicemente di «possedere» o di «rifiutare».
Ma Dio non può lasciare impunito il delitto: dal suolo su cui è stato versato, il sangue dell'ucciso esige che Egli faccia giustizia (cf. Gn 37, 26; Is 26, 21; Ez 24, 7-8).
Dio, tuttavia, sempre misericordioso anche quando punisce, «impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato» (Gn 4, 15): gli dà, dunque, un contrassegno, che ha lo scopo non di condannarlo all'esecrazione degli altri uomini, ma di proteggerlo e difenderlo da quanti vorranno ucciderlo fosse anche per vendicare la morte di Abele. Neppure l'omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante. ...”.
Dunque, dinanzi a tale immensa sensibilità quanto vale il possesso o il rifiuto di una vita.
“ … Le radici della contraddizione che intercorrono tra la solenne affermazione dei diritti dell'uomo e la loro tragica negazione nella pratica risiedono in una concezione della libertà che esalta in modo assoluto il singolo individuo, e non lo dispone alla solidarietà, alla piena accoglienza e al servizio dell'altro. Se è vero che talvolta la soppressione della vita nascente o terminale si colora anche di un malinteso senso di altruismo e di umana pietà, non si può negare che una tale cultura di morte, nel suo insieme, tradisce una concezione della libertà del tutto individualistica che finisce per essere la libertà dei «più forti» contro i deboli destinati a soccombere.
Se vuoi entrare nella vita osserva i comandamenti - Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: "Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?"«(Mt 19, 16). Gesù rispose: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19, 17). Il Maestro parla della vita eterna, ossia della partecipazione alla vita stessa di Dio. A questa vita si giunge attraverso l'osservanza dei comandamenti del Signore, compreso dunque il comandamento «non uccidere». Proprio questo è il primo precetto del Decalogo che Gesù ricorda al giovane che gli chiede quali comandamenti debba osservare: «Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare..."«(Mt 19, 18).
Sono io che do la morte e faccio vivere» (Dt 32, 39). All'altro capo dell'esistenza, l'uomo si trova posto di fronte al mistero della morte. Oggi, in seguito ai progressi della medicina e in un contesto culturale spesso chiuso alla trascendenza, l'esperienza del morire si presenta con alcune caratteristiche nuove. Infatti, quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo. La morte, considerata «assurda» se interrompe improvvisamente una vita ancora aperta a un futuro ricco di possibili esperienze interessanti, diventa invece una «liberazione rivendicata» quando l'esistenza è ritenuta ormai priva di senso perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un'ulteriore più acuta sofferenza.
In un tale contesto si fa sempre più forte la tentazione dell'eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine «dolcemente» alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano. Siamo qui di fronte a uno dei sintomi più allarmanti della «cultura di morte», che avanza soprattutto nelle società del benessere, caratterizzate da una mentalità efficientistica che fa apparire troppo oneroso e insopportabile il numero crescente delle persone anziane e debilitate”.
E qui che con la mente è possibile ritornare al pericolo del concetto del nazzifascismo.
Alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli «maggioranze» di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto «legge naturale» iscritta nel cuore dell'uomo, è punto di riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per un tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti interessi.
Allora, soccorre la parola del figlio dell’uomo quando pone la parabola dei vignaioli assassini che ripudiano e infine uccidono in una visione dell’uomo e della sua dignità personale, diretta a sopprimere l’Erede accontentandosi di una spiritualità senza Dio!
La sofferenza umana, insomma, costituisce uno specifico « mondo » che coesiste insieme all'uomo. L'uno e l'altro interrogativo sono difficili, quando l'uomo li pone all'uomo, gli uomini agli uomini, come anche quando l'uomo li pone a Dio. Così nella Lettera Apostolica Salvifici Doloris di Papa Giovanni Paolo II. “ … L'uomo, infatti, non pone questo interrogativo al mondo, benché molte volte la sofferenza gli provenga da esso, ma lo pone a Dio come al Creatore e al Signore del mondo.
Nel Libro di Giobbe l'interrogativo ha trovato la sua espressione più viva.
E' nota la storia di questo uomo giusto, il quale senza nessuna colpa da parte sua viene provato da innumerevoli sofferenze. Egli perde i beni, i figli e le figlie, ed infine viene egli stesso colpito da una grave malattia. 
La figura del giusto Giobbe ne è una prova speciale nell'Antico Testamento. La Rivelazione, parola di Dio stesso, pone con tutta franchezza il problema della sofferenza dell'uomo innocente: la sofferenza senza colpa. Giobbe non è stato punito, non vi erano le basi per infliggergli una pena, anche se è stato sottoposto ad una durissima prova. Dall'introduzione del Libro risulta che Dio permise questa prova per provocazione di Satana. Questi, infatti, aveva contestato davanti al Signore la giustizia di Giobbe: « Forse che Giobbe teme Dio per nulla? ... Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani, e il suo bestiame abbonda sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti benedirà in faccia »(25). E se il Signore acconsente a provare Giobbe con la sofferenza, lo fa per dimostrarne la giustizia. La sofferenza ha carattere di prova.
Libro di Giobbe non è l'ultima parola della Rivelazione su questo tema. In un certo modo esso è un annuncio della passione di Cristo. 
La sofferenza deve servire alla conversione, cioè alla ricostruzione del bene nel soggetto.
Dio infatti ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna.
L'uomo « muore », quando perde la vita eterna. 
Cristo soffre volontariamente e soffre innocentemente. Accoglie con la sua sofferenza quell'interrogativo, che — posto molte volte dagli uomini — è stato espresso, in un certo senso, in modo radicale dal Libro di Giobbe.
E questa è l'ultima, sintetica parola di questo insegnamento: « la parola della Croce », come dirà un giorno San Paolo.
Questa « parola della Croce » riempie di una realtà definitiva l'immagine dell'antica profezia. Molti luoghi, molti discorsi durante l'insegnamento pubblico di Cristo testimoniano come egli accetti sin dall'inizio questa sofferenza, che è la volontà del Padre per la salvezza del mondo. 
Tuttavia, un punto definitivo diventa qui la preghiera nel Getsemani. Le parole: « Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu! »
L'umana sofferenza ha raggiunto il suo culmine nella passione di Cristo. E contemporaneamente essa è entrata in una dimensione completamente nuova e in un nuovo ordine: è stata legata all'amore… 
I testi del Nuovo Testamento esprimono in molti punti questo concetto.
Nella seconda Lettera ai Corinzi l'Apostolo Paolo scrive: « Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dappertutto nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre, infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale ..., convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù ».
La sofferenza, infatti, è sempre una prova — a volte una prova alquanto dura —, alla quale viene sottoposta l'umanità. 
Tuttavia, le esperienze dell'Apostolo, partecipe delle sofferenze di Cristo, vanno ancora oltre. Nella Lettera ai Colossesi leggiamo le parole, che costituiscono quasi l'ultima tappa dell'itinerario spirituale in relazione alla sofferenza. San Paolo scrive: « Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa ». (78) Ed egli in un'altra Lettera interroga i suoi destinatari: « Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?
Il Redentore stesso ha scritto questo Vangelo dapprima con la propria sofferenza assunta per amore, affinché l'uomo « non muoia, ma abbia la vita eterna ».
Al Vangelo della sofferenza appartiene anche — ed in modo organico — la parabola del buon Samaritano. Mediante questa parabola Cristo volle dare risposta alla domanda: « chi è il mio prossimo?
La parabola del buon Samaritano appartiene al Vangelo della sofferenza. Essa indica, infatti, quale debba essere il rapporto di ciascuno di noi verso il prossimo sofferente. Non ci è lecito « passare oltre » con indifferenza, ma dobbiamo « fermarci » accanto a lui. Buon Samaritano è ogni uomo, che si ferma accanto alla sofferenza di un altro uomo, qualunque essa sia. Quel fermarsi non significa curiosità, ma disponibilità. 
Tuttavia, il buon Samaritano della parabola di Cristo non si ferma alla sola commozione e compassione. Queste diventano per lui uno stimolo alle azioni che mirano a portare aiuto all'uomo ferito. Buon Samaritano è, dunque, in definitiva colui che porta aiuto nella sofferenza, di qualunque natura essa sia …”. 
La speranza alla fine salva Giobbe.
 
NOTE
 
  1. L. Orsi, A. Bianchi, Cittadino insoddisfatto, sanità in trasformazione: una possibile lettura bioetica del problema in www. Zodig. It/bio/som  98-1.htm, del 18.01.02.
  2. L. Orsi, A. Bianchi, op. loc. cit..
  3. www faswebnetit A. Santorusso, in Consiglio Superiore della Magistratura, incontro di studio su Biologia, biotecnologia e diritto (Roma, 8-10 Novembre 2001), del 18.01.02. Lo studio partiva dal Law-Medicine research di Boston tra il 1958 e il 1962 su 86 dipartimenti di medicina. Nel 1972 il New York Tmes dà notizia in prima pagina delle sperimentazioni in corso sin dal 1932, su ignari uomini neri malati di sifilide e che ignari sul tipo di terapia loro somministrata non ricevevano invece alcuna cura onde osservare la storia naturale della sifilide non trattata.
  4. Corte di Cassazione 25 luglio 1967, n. 1950, Archivio Responsabilità Civile, 1968, 907.
  5. A. Santorusso, op. loc. cit., attualmente si continua a parlare di “cavie umane” a proposito dei numerosi annunci su giornali e siti Internet in cui vengono ricercati soggetti sieropositivi o donne con intensa attività sessuale o bambini sovrappeso e altro disposti, dietro compenso, a sottoporsi a sperimentazione di farmaci i più diversi.
  6. In www.Piazza salute.it, guida al benessere, carta dei diritti del malato, del 18.01.02.
  7. L. Orsi, Le novità del nuovo codice di deontologia medica viste con l’occhio dell’anestesista rianimatore in www. Zodig. It/bio/som  98-1.htm, del 18.01.02.
  8. A. Santorusso, , op. loc. cit.
  9. Principio di laicita dello Stato Diritto on line (2014), Enciclopedia Treccani, in http://www.treccani.it/enciclopedia/principio-di-laicita-dello-stato_(Diritto-on-line)/.
  10. Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto. I. Antichità e medioevo, a cura di Carla Faralli, 7ª ed., Editori Laterza, 2005, ISBN 978-88-420-6239-4.
  11. Platone, Gorgia, a cura di Giuseppe Zanetto, 7ª ed., Biblioteca Universale Rizzoli, 2010, ISBN 978-88-17-16991-2.
  12. Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto. I. Antichità e medioevo, a cura di Carla Faralli, 7ª ed., Editori Laterza, 2005, ISBN 978-88-420-6239-4.
  13. Hermann Diels, Walther Kranz, I presocratici, a cura di Giovanni Reale, 1ª ed., Bompiani, 2006, ISBN 88-452-5740-1.
  14. Lucio Anneo Seneca, Lettere morali a Lucilio, a cura di Fernando Solinas, Mondadori, 2007, ISBN 978-88-04-56990-9.
  15. Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto. I. Antichità e medioevo, a cura di Carla Faralli, 7ª ed., Editori Laterza, 2005, ISBN 978-88-420-6239-4.
  16. Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto. I. Antichità e medioevo, a cura di Carla Faralli, 7ª ed., Editori Laterza, 2005, ISBN 978-88-420-6239-4.
  17. Pietro Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna, a cura di Fulvio Tessitore, Liguori Editore, 2000 [1961], ISBN 978-88-207-3094-9.
  18. Carlo Casonato su Quaderni costituzionali, 3, 2008.
  19. In http://www.ilgazzettino.it/esteri/eutanasia_belgio_minore_primo_caso_mondo-1970947.html.
  20. In http://www.cinquantamila.it/storyTellerArticolo.php?storyId=544f3a898c9f3.
  21. In http://www.corriere.it/salute/cards/eutanasia-battaglie-legali-casi-piu-celebri/2003-vincent-humbert.shtml.
  22. In http://www.repubblica.it/online/esteri/eutanasia/eutanasia/eutanasia.html.
  23. in https://www.theguardian.com/uk/tony-nicklinson.
  24. Caso Nicklinson: Corte inglese nega il diritto all'eutanasia Tempi.it Followus: @Tempi_it on Twitter | tempi.it on Facebook.
  25. In https://www.google.it/?gws_rd=ssl#q=cassazione+con+la+sentenza+intervenuta+sul+caso+englaro&*.
  26. Carlo Casonato su Quaderni costituzionali, 3, 2008, pag. 14.
  27. in http://www.tempi.it/leutanasia-di-un-ratzinger#.WMseFTvhDIU, 2008 di Lorenzo Fazzini che parla delle pratiche eugenetiche naziste sotto cui cadde anche un cugino di Benedetto XVI.
  28.  LETTERA APOSTOLICA SALVIFICI DOLORIS In http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/hlthwork/documents/hf_jp-ii_apl_11021984_salvifici-doloris_it.html.