Una delle questioni fondamentali della nuova normativa sulla responsabilità degli enti consiste nell'individuazione di parametri sufficientemente determinati nel loro contenuto, che consentano di estendere all’ente la responsabilità per il reato commesso dalla persona fisica.

I criteri di imputazione contemplati dal D.lg 231 sono il frutto di una nuova concezione del diritto penale, che ha perso la sua dimensione prettamente individualistica per rivolgersi anche ai soggetti collettivi.

Nell’introdurre la responsabilità da reato degli enti il problema principale per il legislatore è stato quello di assicurare la compatibilità di tale nuova forma di responsabilità con in tradizionali principi costituzionali in materia penale.

In particolare si vuole fare riferimento al principio di responsabilità penale personale, inteso nella sua duplice accezione di divieto di responsabilità per fatto altrui e di divieto di responsabilità oggettiva.

Tradizionalmente, infatti, si riteneva che l’ente fosse incapace all’azione ed alla colpevolezza per evidenti limiti di natura ontologica.

Tali limiti sono stati superati attraverso l’introduzione dei criteri oggetti e soggettivi di seguito analizzati.

I criteri oggettivi  di imputazione della responsabilità all’ente

I criteri oggettivi di imputazione sono fissati dall’art. 5 del D.lg. 231, il quale stabilisce:

“1. L'ente e' responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unita' organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonchè da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).

2. L'ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi”.

Deve trattarsi dunque di reati commessi da persone fisiche che rivestono una posizione qualificata all’interno dell’ente (deve trattarsi cioè di apici o sotto posti) a vantaggio o nell'interesse dell'ente. Tali criteri costituiscono la trasposizione normativa del rapporto di immedesimazione organica, che consente di superare le critiche che un tempo ruotavano attorno alla violazione del principio di personalità della responsabilità penale, nella sua accezione "minima" di divieto di responsabilità per fatto altrui.L'interesse dell'ente ha un significato prettamente soggettivo e  connota la condotta delittuosa della persona fisica che si rappresenta e vuole l’interesse dell’ente, passando attraverso la commissione dell’illecito. L’interesse viene verificato ex ante; viceversa, il vantaggio, che può essere tratto dall'ente anche quando la persona fisica non abbia agito nel suo interesse, richiede sempre una verifica ex post.

Riguardo invece i soggetti che possono “impegnare” l’ente deve trattarsi di apici o sottoposti. I primi sono coloro che svolgono anche di fatto funzioni gestionali e di controllo sull’ente (amministratori, direttori o rappresentanti). Vi rientrano anche i cd. direttori di stabilimento, preposti ad una unità organizzativa dell’ente, purchè siano dotati di una reale autonomia e potere decisionale. Sono esclusi i sindaci i quali svolgono esclusivamente funzioni di controllo e non anche gestorie. Riguardo i sottoposti,  si tratta certamente di lavoratori subordinati, tra i quali sarà difficile ricomprendere figure quali agenti o lavoratori co.co.co. per i quali non si configura un vero e proprio rapporto di subordinazione.

I criteri soggettivi di imputazione della responsabilità all’ente

Per gli enti il criterio soggettivo di imputazione consiste nella colpevolezza in senso normativo, ovvero nella violazione di regole comportamentali volte a prevenire la commissione dei reati presupposti. Il concetto di colpevolezza normativa consente di superare l’ostacolo all'ingresso di forme di responsabilità penale dell'ente posto dall'art. 27, comma 1, Cost., che sancisce il principio di responsabilità penale personale, inteso nella sua concezione ampia di divieto di responsabilità oggettiva. La colpevolezza dell’ente si atteggia diversamente a seconda che il reato presupposto sia stato commesso da un apice o da un sottoposto. Nel primo caso si ritiene che il reato sia la diretta espressione della una politica aziendale. In tal caso, pertanto, il legislatore pone una sorta di presunzione di colpevolezza a carico dell’ente.

La norma di riferimento è l’art. 6 (1) del D.lg. 231 del 2001, il quale, nel caso di reato commesso da un vertice, prevede una inversione dell'onere probatorio. In altri termini, si parte dalla presunzione che il requisito "soggettivo" di responsabilità dell'ente – ossia la colpevolezza - sia soddisfatto, dal momento che il vertice esprime e rappresenta la politica dell'ente. Ove ciò non accada, dovrà essere la societas a dimostrare la sua estraneità, e ciò potrà fare soltanto provando la sussistenza di una serie di requisiti tra loro concorrenti. In particolare l'ente è chiamato a dimostrare di aver adottato ed efficacemente attuato modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quelli verificatisi; dovrà inoltre provare di aver vigilato sulla effettiva operatività dei modelli, e quindi sulla osservanza degli stessi: a tal fine, per garantire la massima effettività del sistema, è disposto che la societas si avvalga di una struttura che deve essere costituita al suo interno, dotata di poteri autonomi e specificamente preposta a questi compiti. Inoltre l'ente dovrà dimostrare che il comportamento integrante il reato sia stato posto in essere dal vertice eludendo fraudolentemente i suddetti modelli di organizzazione e di gestione. La lettera c) bene si presta si riferisce alle ipotesi del cd. "amministratore infedele", che agisce cioè contro l'interesse dell'ente al suo corretto funzionamento. Ad ogni modo, affinché venga meno la responsabilità dell'ente, non è sufficiente che ci si trovi di fronte ad un apice infedele; si richiede che non sia ravvisabile colpa alcuna da parte dell'ente stesso, il quale - attraverso il suo organismo - deve aver vigilato anche sull'osservanza dei programmi intesi a conformare le decisioni del medesimo secondo gli standard di "legalità preventiva" (lett. d).

Nel caso di reati commessi dai sottoposti, invece, si parla di una colpa di organizzazione in senso stretto, che si atteggia come elemento costitutivo del reato , piuttosto che come “scusante”. In questo caso dunque non vi è alcuna presunzione di colpevolezza e l’onere probatorio sarà a carico del pubblico ministero (art. 7 (2) del D.lg. 231 del 2001).


1)   1. Se il reato e' stato commesso dalle persone indicate nell'articolo 5, comma 1, lettera a), l'ente non risponde se prova che:
a) l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
b) il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento e' stato affidato a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;
c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
d) non vi e' stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di cui alla lettera b). 2. In relazione all'estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i modelli di cui alla lettera a), del comma 1, devono rispondere alle seguenti esigenze:
a) individuare le attivita' nel cui ambito possono essere commessi reati;
b) prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l'attuazione delle decisioni dell'ente in relazione ai reati da prevenire;
c) individuare modalita' di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati;
d) prevedere obblighi di informazione nei confronti dell'organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli;
e) introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello. 3. I modelli di organizzazione e di gestione possono essere adottati, garantendo le esigenze di cui al comma 2, sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della giustizia che, di concerto con i Ministeri competenti, puo' formulare, entro trenta giorni, osservazioni sulla idoneita' dei modelli a prevenire i reati. 4. Negli enti di piccole dimensioni i compiti indicati nella lettera b), del comma 1, possono essere svolti direttamente dall'organo dirigente. 5. E' comunque disposta la confisca del profitto che l'ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente”.

 2) 1. Nel caso previsto dall'articolo 5, comma 1, lettera b), l'ente e' responsabile se la commissione del reato e' stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza.2. In ogni caso, e' esclusa l'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l'ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.3. Il modello prevede, in relazione alla natura e alla dimensione dell'organizzazione nonche' al tipo di attivita' svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell'attivita' nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio.4. L'efficace attuazione del modello richiede:
a) una verifica periodica e l'eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell'organizzazione o nell'attivita';
b) un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello”.