Dimensione interna della responsabilità sociale: la formazione come strumento di valorizzazione delle risorse umane

di Lorenzo Cuomo

SOMMARIO: 1. La prospettiva della formazione nel rapporto tra CSR  e gestione dei rapporti di lavoro. - 2. Il diritto alla formazione nello statuto costituzionale italiano e comunitario. - 3 La formazione dei lavoratori occupati nelle grandi imprese italiane e la domanda di formazione dei lavoratori: spunti di riflessione per un approccio operativo della CSR – 4. Riflessi sul rapporto di lavoro della  promozione della professionalità da parte delle imprese

1. La prospettiva della formazione nel rapporto tra CSR  e gestione dei rapporti di lavoro.

La complementarietà del diritto all’istruzione e del diritto al lavoro, per cui è  necessario “ il lavoro per imparare a lavorare ed il sapere per adattarsi ai cambiamenti del lavoro”[1], comporta che la nuova nozione di  formazione debba avere tra i suoi contenuti quelli legati ai saperi pratici del lavoro, in  misura tale da considerare l’aspetto formativo un elemento assolutamente essenziale in qualsiasi tipo di rapporto o contratto; la formazione, cioè, non può rimanere un profilo peculiare solamente di alcuni contratti definiti, pertanto, formativi, finalisticamente preordinati alla  riduzione del costo del lavoro e della promozione dell’occupazione giovanile.

Il nostro legislatore ha, infatti, tradizionalmente legato la formazione al rapporto di lavoro solo al fine del perseguimento dell’obiettivo dell’assunzione, atteggiamento “figlio della cultura che pone la formazione soltanto nel momento iniziale del rapporto di lavoro, ignorando le esigenze della formazione continua e permanente”[2] che ha raggiunto risultati poco soddisfacenti sia, appunto, sul piano occupazionale sia ovviamente per quanto riguarda l’elevazione professionale dei cittadini-lavoratori. La formazione, invece, svolge un ruolo fondamentale nella costruzione della professionalità oltre che della personalità del lavoratore ed attraversa in maniera trasversale tutto il rapporto di lavoro[3]: nel momento dell’inquadramento professionale, durante l’esecuzione della prestazione, nell’interpretazione della nozione di diligenza, infine, al momento dell’estinzione del rapporto, che può portare a nuovi momenti di formazione o riqualificazione. [4]

L’affermarsi di fenomeni quali la globalizzazione dei mercati e la trasformazione dei modelli produttivi hanno determinato profonde variazioni sulle ragioni dell’ accordo negoziale nel rapporto di lavoro, così che “i termini dello scambio fondante il modello di lavoro subordinato – subordinazione in cambio di sicurezza – si trovano sconvolti senza che siano stati ridefiniti i termini di un nuovo scambio”[5].

Il contratto di lavoro, non essendo un istituto statico e rappresentando lo strumento che sintetizza giuridicamente gli interessi derivanti dalle realtà economiche e produttive del lavoro, si sta modificando nel senso di affiancare alla organizzazione dell’impresa, affidata ex art. 41 Cost. al datore – imprenditore, maggiori spazi per l’autonomia dei lavoratori nella prestazione attribuendo loro anche maggiori responsabilità in termini di flessibilità di impiego e di risposta alle molteplici esigenze di un lavoro anche delocalizzato, legando definitivamente così i due fenomeni della formazione e del lavoro.  

La richiesta di una maggiore assunzione di responsabilità da parte dei lavoratori non può essere legata solo ad incentivazioni di tipo retributivo quanto piuttosto ad un maggiore coinvolgimento degli stessi nell’organizzazione di impresa: in altre parole sarebbe, quindi, più corretto puntare su una «fidelizzazione» dei lavoratori piuttosto che su una estrema «rotazione» della manodopera suggerita dalla organizzazione flessibile, attraverso misure quali la partecipazione alle decisioni aziendali e soprattutto la formazione continua degli stessi, una sorta di investimento per l’azienda ma soprattutto per il lavoratore; oppure sulla nozione più ampia possibile di professionalità, definita “«processiva», proprio come l’impresa” che, in fondo, ne costituisce l’oggetto[6]: una impostazione che ha il  pregio di valorizzare il ruolo della persona nel rapporto di lavoro. Ai lavoratori, infatti, non viene più richiesta una «generica» prestazione di attività psicofisiche effettuata, secondo quanto disposto dall’art. 1176 c.c., con la diligenza del buon padre di famiglia (nozione ormai inadeguata a definire le modalità della prestazione ) ma con “quella del «buon lavoratore» in possesso di tutti i «segreti» della sua arte ed in grado di metterli in atto nel concreto contesto produttivo”.

Si pone, dunque, il problema della formazione nell’ambito delle prospettive analitiche del rapporto tra CSR e gestione dei rapporti di lavoro, in particolare della condotta dell’impresa nei confronti dei dipendenti; alcuni “items” dell’analisi riguardano sicuramente il rapporto tra CSR, formazione e tecniche di fidelizzazione [7] (Centesimus annus 1991: “proprietà della conoscenza, della tecnica e del sapere”; “servirsi del sapere a vantaggio degli altri), tra CSR e occupazione (combattere l’esclusione, conciliare interessi di insiders -mercato del lavoro interno e outsiders - mercato del lavoro esterno) anche perché lo spostamento da parte delle politiche pubbliche del loro baricentro sul mercato del lavoro (occupabilità, formazione, workfare) libera spazi inaspettati alla CSR per la sicurezza del posto di lavoro ma soprattutto per l’affermazione della professionalità come aspetto della dignità del lavoratore attratta nel vincolo di subordinazione[8]

Anche il discorso sulla “bontà”  del lavoro si interseca con la tematica della Csr dal momento che è dato per acquisita  la percezione soggettiva da parte del lavoratore ed oggettiva se riferita a standards misurabili della qualità del lavoro, suggerita dalla psicologia del lavoro [9]. Il lavoro non deve essere solo lo strumento che permette di avere una fonte minima di reddito, ma deve essere risorsa di benessere per l’individuo e per la famiglia. Il lavoro deve consentire l’ottenimento di capacità, le quali rappresentino la libertà individuale di acquisire well-being, inteso nel senso espresso da Sen .[10]

I lavori “buoni” sono quelli che consentono di promuovere il benessere personale, di partecipare attivamente alle decisioni;  risulterebbe cioè un tentativo di andare oltre il concetto di benessere utilitarista, in cui le finalità sono rappresentate dall’appagamento delle preferenze, includendo anche i concetti di risorse a disposizione dell’individuo e di libertà di scegliere, tra le diverse opportunità di cui si dispone per il raggiungimento del benessere personale e della propria famiglia.[11]

2. Il diritto alla formazione nella Costituzione  italiana e nell’ordinamento comunitario.

Sulla base dell’analisi delle formulazioni presenti negli statuti costituzionali italiano e comunitario, parte della dottrina[12] ha ritenuto esistente un “diritto alla formazione come effetto legale naturale del contratto di lavoro subordinato per cui il lavoratore ha diritto ad essere formato, per effetto della stipulazione del contratto di lavoro e in presenza del mutamento di alcune circostanze come le innovazioni tecnologiche od organizzative”.

Tuttavia, bisogna riconoscere che l’assenza di un’esplicita formulazione giuridica dell’esistenza del diritto alla formazione per i lavoratori e per tutti i cittadini è senz’altro un aspetto di debolezza del nostro ordinamento[13]: l’esistenza di un diritto alla formazione, come diritto sociale fondamentale riconosciuto a tutti i cittadini, è, infatti, ricavabile dall’interpretazione di diverse norme costituzionali  e comunitarie.

In particolare è possibile ricavare l’esistenza di un diritto del lavoratore ad essere formato continuativamente durante l’intera vita lavorativa dall’analisi dell’art. l’art. 35 co. 2 Cost., che obbligando la Repubblica a curare la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori, riconosce, di conseguenza, a questi ultimi il corrispondente diritto e costituisce il più importante “veicolo normativo per la traducibilità nel rapporto di lavoro del diritto alla formazione continua e permanente”[14]. Ma soprattutto è stata la UE ad aver imposto il principio per cui gli Stati devono “offrire a ciascuno, secondo le proprie aspirazioni, attitudini, conoscenze ed esperienze di lavoro, con i mezzi permanenti atti a permettere un miglioramento sul piano professionale, sia l’accesso a un livello professionale superiore, sia la preparazione per una nuova attività di livello più elevato”[15].

Non può certamente stupire la sensibilità della Comunità rispetto a questo tema, perché l’ordinamento comunitario ha sempre attribuito notevole rilevanza alla formazione , tanto è vero che tra i diritti sociali fondamentali certamente ricavabili in via diretta o derivata dal Trattato dell’UE, pur nella perdurante assenza, al momento, di una formale carta costituzionale europea, troviamo il diritto all’istruzione e formazione professionale. L’UE, infatti, ha voluto esprimere solennemente questo principio nell’art. 15 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, approvata a Strasburgo il 9 dicembre 1989 e inserita all’interno del Trattato dopo la sua riforma di Amsterdam, che riconosce al lavoratore il diritto di accesso alla formazione e l’opportunità di collaborazione tra autorità pubbliche e parti sociali nella predisposizione e gestione dei sistemi di formazione professionale. Proprio a tale documento si è poi ispirata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che dovrebbe costituire la prima parte della futura Costituzione europea e nella quale la formazione professionale assumerebbe la natura di diritto fondamentale di tutti i cittadini (art. 14). [16]

La comunicazione della Commissione del novembre 2001 intitolata “Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente” sottolinea al paragrafo 1.1 che “il Consiglio europeo di Lisbona ha ribadito che l’apprendimento permanente è una componente basilare del modello sociale europeo”. In tal senso l’apprendimento permanente comprende tutte le attività di apprendimento intraprese nel corso della vita al fine di migliorare le conoscenze, le abilità e le competenze in una prospettiva personale, civica, sociale e/o occupazionale. All’apprendimento non si attribuisce ora esclusivamente un peso nel campo dell’istruzione; esso è anche considerato un fattore critico negli ambiti dell’occupazione e della sicurezza sociale, della resa economica e della competitività esteso all’intero ciclo della vita.[17]. Sostenere l’apprendimento permanente del personale nelle imprese incoraggia il mantenimento della qualità elevata della produzione di conoscenze come anche la capacità di assorbire nuove conoscenze da altri settori. Questa percezione rispecchia la strategia di lungo periodo del Vertice di Lisbona volta a rafforzare l’occupazione e la coesione sociale in una società e in una economia basate sulla conoscenza. Attualmente, la politica di apprendimento permanente è una pietra angolare nella strategia europea per l’occupazione, sottende diversi orientamenti per l’occupazione e ricorre in tutti i piani d’azione nazionali degli Stati membri che attuano tali orientamenti. In uno dei capitoli finalizzati a sviluppare e attuare strategie nazionali coerenti di apprendimento permanente, “Condivisione dei ruoli e delle responsabilità” la Commissione fa presente le responsabilità dei datori di lavoro nello sviluppo delle competenze della loro manodopera: “Le imprese dovrebbero essere incoraggiate a diventare organizzazioni che apprendono, dove tutti apprendono e si sviluppano nel contesto del lavoro…”.

La formazione continua è sempre più al centro delle politiche volte a ridurre la disoccupazione e a promuovere la produttività e la competitività in Europa. Lo sviluppo delle abilità mediante la formazione  continua nelle imprese è parte importantissima dell’apprendimento permanente in quanto migliora l'adattabilità della manodopera ed assicura la sua perdurante occupabilità. L’investimento delle imprese nella formazione professionale continua rispecchia la loro disponibilità a consacrare risorse per rispondere agli sviluppi del mercato del lavoro.

Per diffondere una cultura ed un sistema di politiche formative nei diversi contesti produttivi, negli anni 90 sono state attivate diverse iniziative con lo scopo di svilupparla e promuoverla (tra tutte si ricorda il programma FORCE destinato a sviluppare la formazione in azienda, il programma Adapt dedicato allo sviluppo della formazione nelle piccole e medie imprese, la raccomandazione del Consiglio del 30 giugno 2003 sull’accesso alla formazione continua).In particolare con quest’ultima la Comunità si è dotata di uno strumento e di un punto di riferimento nel processo di cooperazione comunitaria, attraverso la scomposizione in 15 obiettivi particolari che gli Stati membri perseguono, definendo liberamente mezzi e modalità.

Ai fini del discorso intorno alla CSR, rilevano l’accesso e la presa in considerazione dei bisogni individuali( ob.vi 3,7), la riconversione professionale (ob.vo 49, l’accesso di gruppi “deboli” , delle donne dei giovani dei disoccupati di lunga durata . Ancora, la risoluzione del Consiglio del 15 luglio 2003 sul capitale sociale e umano ribadisce l’importanza dell’apprendimento e della formazione sul lavoro per costruire il capitale sociale e umano nella società della conoscenza. Un riferimento specifico è fatto a “… l’importanza di garantire che all’interno delle rispettive aziende e organizzazioni tutti i lavoratori siano pienamente implicati e adeguatamente formati … il che può contribuire a facilitare i cambiamenti, e siano pertanto consapevoli dei benefici in termini di migliore competitività e qualità della vita professionale;…”. La risoluzione fa inoltre presente “… il problema legato al fatto che le persone con un elevato livello d’istruzione/formazione hanno maggiori possibilità e di fatto fruiscono di maggiori opportunità di apprendimento rispetto alle persone con livelli inferiori d'istruzione/formazione, quali le donne e i lavoratori anziani, che dovrebbero trarre invece il massimo beneficio dalla formazione, …”.

La nuova strategia europea per l’occupazione, concordata il 22 luglio 2003, è stata riveduta per tener meglio conto dei bisogni di un’Unione europea allargata, per meglio reagire alle sfide che un mercato del lavoro moderno si trova ad affrontare e per meglio contribuire alla strategia di Lisbona. Gli Stati membri sono anche incoraggiati a porre in atto strategie complete di apprendimento permanente per dotare tutte le persone delle abilità richieste a una forza lavoro moderna e per ridurre gli sfasamenti tra domanda e offerta di qualifiche e le strozzature sul mercato del lavoro. Le politiche nazionali suggerite negli orientamenti dovrebbero mirare ad accrescere l’investimento nelle risorse umane, in particolare mediante un aumento significativo dell’investimento ad opera delle imprese nella formazione degli adulti.. [18]

3 - Formazione dei lavoratori occupati nelle grandi imprese italiane e domanda di formazione dei lavoratori : spunti di riflessione per un approccio operativo della CSR

Con l’indagine Mlps –Isfol -Politecnico di Torino [19]2002 è stato realizzato un approfondimento sulle politiche di formazione delle grandi imprese, dotate di un organico superiore ai 249 dipendenti o, comunque, non rientranti nella definizione comunitaria di Pmi. L’ indagine ha evidenziato il manifestarsi di una tendenza evolutiva verso l'acquisizione di un approccio diffuso e continuativo, da parte delle grandi imprese, nel realizzare interventi di formazione strutturata per i propri dipendenti; tendenza che ha subito un'accelerazione nel corso dell’ultimo decennio. Uno dei principali indicatori della sistematicità dei processi formativi fa riferimento alla presenza di un piano di dettaglio della formazione: l’85% delle imprese di grandi dimensioni intervistate nel 2002 presenta un approccio di tipo strutturato riferibile alla presenza di un piano interno espressamente dedicato alle attività formative. Il ricorso al piano di formazione aziendale è strettamente collegato alle politiche di impresa come, ad esempio, la necessità di enfatizzare l’importanza delle attività di formazione nelle relazioni tra management e dipendenti o la necessità di programmare in modo efficiente gli interventi

L’analisi così condotta ha restituito le seguenti indicazioni principali:

·  l’area deputata alla produzione e all’erogazione del servizio principale rappresenta la funzione

dove gli investimenti in formazione coinvolgono più dipendenti;

·  i dipendenti inquadrati come operai sono quelli con minori probabilità di essere coinvolti negli interventi formativi;

·  nelle imprese operanti nei settori avanzati del terziario la percentuale di impiegati formati è più elevata che nelle altre imprese;

·  nell’area commerciale e nella direzione tecnica/sviluppo del prodotto gli interventi di formazione hanno un impatto più ampio che nelle aree amministrative e di gestione delle risorse umane.

Le analisi sulle ore di formazione per addetto nelle diverse aree organizzative e nei livelli di qualifica dei dipendenti confermano in parte le considerazioni svolte:

·  le ore di formazione mediamente sostenute dagli operai risultano largamente inferiori a quelle svolte dagli altri livelli di inquadramento;

·  nei settori manifatturieri i tecnici qualificati ricevono mediamente più ore di formazione delle altre categorie. Tuttavia l’intensità della formazione sostenuta dagli impiegati ha valori molto simili a quelli associati ai tecnici.

3.1 - Il rapporto tra innovazione e formazione

Quasi tutte le imprese del campione hanno fatto ricorso a innovazioni di tipo tecnologico. La principale area d’innovazione fa riferimento ai nuovi sistemi informativi (81%). Il 47% delle imprese esaminate vi ha fatto ricorso per informatizzare i processi di comunicazione con i clienti e i fornitori, vale a dire con aree che possono situarsi a valle (clienti/vendita) o a monte (fornitori / materiali / lavorazioni / logistica) dei processi produttivi.[20]

Solo l’8,3% delle imprese del campione ha dichiarato di non aver introdotto innovazioni nell’organizzazione dell’impresa e del lavoro; il cambiamento organizzativo ha rappresentato quindi un tema rilevante sul quale sono state impiegate consistenti risorse.

Le principali finalità del cambiamento organizzativo si riferiscono:

·  all’esigenza di incrementare le competenze dei lavoratori occupati per l’esecuzione di determinate mansioni (57,2%); 

·  alla necessità di porre in essere una ridefinizione del sistema aziendale delle mansioni e delle posizioni individuali di lavoro, come conseguenza del processo d’allargamento orizzontale dei contenuti (50%);

·  al trasferimento di maggiore potere decisionale a vantaggio delle posizioni di lavoro ricoperte, in termini di maggiore delega e autonomia (28,3%).

Un ulteriore elemento di focalizzazione è riferito ai processi di esternalizzazione di attività e/o segmenti d’attività non rientranti nelle competenze principali (32,8%). L’orientamento verso la ricerca della qualità totale, come finalità del processo di cambiamento organizzativo, viene esplicitato nel 25,3% dei casi. In relazione al tema delle innovazioni nei modelli di gestione delle risorse umane emerge il ruolo assunto dall’introduzione di sistemi di gestione delle retribuzioni legate ai risultati. Questa innovazione viene indicata dal 60,2% delle imprese;  Segue, con il 51,4%, la modifica strutturale della condizione stessa del lavoro, rappresentata dall’utilizzo di contratti di lavoro flessibile. In questo contesto si colloca la significativa frequenza di aziende (44,2%) che indica l’introduzione, a sostegno del maggiore peso della componente variabile delle retribuzioni, anche di innovazioni relative all’introduzione di sistemi di valutazione del personale, finalizzati alla misurazione delle performance individuali e/o di gruppo. Di contro, un peso certamente più marginale si riscontra nell’introduzione di percorsi di carriera legati alle conoscenze possedute dai dipendenti (28,6%) e nell’introduzione del lavoro di gruppo (15,4%).

E’ utile a questo punto richiamare l’esperienza che si è venuta sviluppando nell’ultimo decennio nel gruppo Electrolux - Zanussi, all’avanguardia sia per il modello di relazioni industriali che per le politiche di gestione delle risorse umane. Il gruppo, con l’accordo 18 settembre 1988,  ha disegnato un modello partecipativo di relazioni industriali, nella convinzione che ciò costituisca un must ineludibile nello sviluppo della persona, in un’ottica di qualità totale[21]; tale modello si pone, tra gli altri, l’obiettivo di individuare interventi informativi e formativi finalizzati a costituire i presupposti – in termini di conoscenza tecnico professionale e consapevolezza socio culturale – per realizzare rapporti aziendali basati sulla trasparenza e sull’integrità delle funzioni ed orientati all’efficienza ed all’integrazione dei risultati in un’ottica di qualità totale[22]; i destinatari delle iniziative formative vengono di volta in volta individuati in base alla loro appartenenza ad aree socio professionali maggiormente idonee all’attivazione di meccanismi gestionali modulati sulla partecipatività; per le ore necessarie alla partecipazione ai corsi , le società del gruppo riconoscono permessi retribuiti ulteriori a quelli sindacali previsti dall’accordo aziendale.

3.2  L’esperienza del gruppo “Hera”

Il gruppo Hera, uno dei principali fornitori di servizi multiutility in Italia dal 2002, socio di “Impronta etica  - Associazione per la promozione della Responsabilità sociale di Impresa”, ha intrapreso nell’ autunno del 2005 un percorso di gestione responsabile determinato da cambiamenti strutturali del mercato di riferimento, ma soprattutto dalla  volontà di definire le strategie aziendali attraverso la valutazione e il bilanciamento degli interessi legittimi di tutti gli interlocutori, attraverso l’applicazione  alle decisioni aziendali  e a tutti gli strumenti gestionali delle nozioni  di  efficienza, qualità, sicurezza, rispetto per l’ambiente e per il territorio.

Una mission volta allo sviluppo di un’originale modello di impresa,capace di innovazione e forte radicamento territoriale e in particolare per i lavoratori  “perché siano protagonisti dei risultati con la loro competenza, coinvolgimento e passione” [23] ,  impegnandosi  ad ascoltare e valorizzare i contributi di tutti i lavoratori al fine di raggiungere gli obiettivi aziendali e a far sì che il lavoro sia fonte di soddisfazione, orgoglio per le persone oltre che fattore rilevante per il successo dell’impresa. (“Condividere conoscenze per migliorarsi e migliorare”)

In quest’ottica le attività di formazione pianificate dal gruppo, con un piano per il 2006 di circa 132.700 ore da erogare sulla base di una rilevazione delle specifiche domande formulate da dirigenti e responsabili delle diverse realtà territoriali e di una puntuale analisi dei fabbisogni, hanno riguardato quattro filoni di intervento : la Scuola dei mestieri, l’aggiornamento e lo sviluppo delle competenze specialistiche, la formazione cd. istituzionale per laureati neoassunti e interventi diffusi sulle tematiche della qualità e della sicurezza [24]. Particolarmente interessante il progetto Scuola dei mestieri, iniziato nel 2005 e ad oggi ancora in corso  finalizzato al trasferimento ai lavoratori delle competenze maturate negli anni, al fine di accrescere la consapevolezza dei comportamenti professionali.

Anche per ciò che concerne il sistema di sviluppo delle carriere, Hera ha mirato con la formazione a presidiare le competenze aziendali al fine di rendere adattabili a mutate strategie aziendali o cambiamenti del mercato, con l’adozione di una procedura di valutazione delle competenze che rilevi nel tempo eventuali gap da colmare con ulteriori, mirate, iniziative formative.

4. Riflessi sul rapporto di lavoro della  promozione della professionalità da parte delle imprese

La vicenda del rapporto di lavoro subordinato «tipico» in cui maggiormente capita di «mettere in discussione» la professionalità del lavoratore, cristallizzata nel contratto e dalla quale potrebbe quindi sorgere l’esigenza di ricorrere ad un periodo di formazione del lavoratore, è quello della variazione delle mansioni: infatti, in assenza di un aggiornamento della professionalità, soprattutto in organizzazioni aziendali caratterizzate da una flessibilità spinta nelle quali la mobilità dei lavoratori è molto accentuata, possono porsi dei problemi rispetto alla misura della diligenza che può essere richiesta al lavoratore nell’esecuzione della prestazione, la cui normalità diventa difficilmente oggettivabile; il mutamento delle mansioni dovuto a cambiamenti nei cicli produttivi o all’inserimento nell’organizzazione di nuove tecnologie comporterebbero anche una diminuzione della diligenza che può essere richiesta al lavoratore, se tali vicende non sono accompagnate da un periodo che abbia preparato il prestatore allo svolgimento delle nuove mansioni.

 È considerazione comune ricavabile dalla giurisprudenza avente ad oggetto il danno alla professionalità che la dequalificazione del lavoratore derivante da una violazione dei limiti imposti allo jus variandi dell’imprenditore dall’art. 2103 c.c. comporti la lesione di un interesse morale dedotto in contratto, in base al principio della contrattualità della qualifica e al fatto che la professionalità costituisce il vero oggetto del contratto di lavoro, in posizione sinallagmatica rispetto alla retribuzione[25]. [26] La vera portata innovativa dell’art. 2103 c.c. e del principio dell’equivalenza delle mansioni in esso contenuto riposa, infatti, “nell’obbligo per l’imprenditore di organizzare e amministrare l’azienda in modo tale da favorire l’esercizio (e quindi lo sviluppo) della propria capacità professionale da parte del lavoratore”. Negli ultimi anni la dottrina e anche la giurisprudenza hanno, così, sottolineato l’importanza di passare da una nozione “statica”, o difensiva, ad una “dinamica”, o offensiva, della professionalità, anch’essa tutelabile attraverso l’art. 2103 c.c. Secondo tale nozione dinamica della professionalità, questo “bene” va quindi tutelato anche e soprattutto in prospettiva; ciò che si vuol dire è, in altri termini, che gli atti datoriali di esercizio dello jus variandi non devono comportare una dequalificazione del lavoratore e, affinché ciò non si verifichi, essi neppure devono pregiudicare le possibilità di carriera del lavoratore sia all’interno dell’azienda sia per eventuali perdite di chances nel mercato. In sostanza, dunque, la prassi socialmente responsabile del miglioramento delle condizioni del lavoratore e della tutela della sua dignità coincide con il riferimento alla «qualità» del lavoro contenuto nell’art. 36 Cost .Del pari è auspicabile, nell’ottica dell’adozione delle prassi socialmente responsabili, si rinvenga in capo al datore di lavoro un obbligo procacciarsi e mobilitare tutte le risorse esistenti nel campo della formazione e riqualificazione della manodopera” per evitare estinzioni del rapporto di lavoro quali il recesso per giustificato motivo oggettivo legato a ristrutturazioni dell’organizzazione produttiva (cd. «licenziamento tecnologico», intendendo con questa locuzione il recesso da parte datoriale che si verifica quando si ha la sostituzione di un lavoratore a causa della sua inadeguatezza a svolgere le mansioni che gli erano state affidate al momento della stipulazione del contratto perché l’inserimento nell’organizzazione di un nuovo macchinario ne ha modificato le modalità di esecuzione. “ Si è giustamente rilevato, però, che il licenziamento tecnologico costituisce in sé una chiara lesione del diritto alla formazione[27]. Infatti, con il licenziamento di un lavoratore che non si adatta alle modificazioni dell’attività produttiva dell’azienda si mette in discussione l’oggetto stesso del contratto – cioè la professionalità offerta dal lavoratore al momento della sua stipulazione – senza rinegoziarlo, facendo ricadere sul prestatore di lavoro l’onere di tenere aggiornate le proprie competenze, pena la possibile cessazione del rapporto di lavoro e, successivamente, la sua emarginazione nel mercato. Sembra, però, eccessivamente gravoso assegnare questo compito al lavoratore dato che, allo stato attuale, certamente non esistono norme che possano far ritenere esistente un obbligo del lavoratore a formarsi, neppure al fine di adattarsi alle nuove forme di organizzazione e in tal modo non essere licenziato, mentre, come si è visto in precedenza, sono molto più numerose le norme – costituzionali e ordinarie – dalle quali è possibile ricavare il diritto del lavoratore ad essere formato, prima, durante lo svolgimento e alla cessazione del rapporto di lavoro.  Norme che le imprese socialmente responsabili dovranno recepire per dare attuazione all'obiettivo strategico definito dal Consiglio europeo di Lisbona: "diventare l'economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo"; finalizzazione degli interventi, dunque, per la learning society e per la visione che essa porta del cambiamento strutturale di lungo periodo in campo economico .La produzione, la disseminazione e l’uso della conoscenza avranno un ruolo preminente per la creazione e lo sfruttamento della ricchezza sino ad essere un  asset del quale è necessario che siano monitorate e sviluppate attentamente la natura e l’allocazione, insieme alle condizioni che ne governano l’accesso, specialmente in realtà sottoposte a continui processi di cambiamento tecnologico ed economico/sociale, coinvolgendo tra l’altro in modo decisivo i mercati del lavoro.



[1] U. Romagnoli., 1999, 236

[2] M. Napoli, 1998, 50 ss.

[3] A .Loffredo, 2004

[4] A .Loffredo, 2004

[5]A. Supiot, ( a cura di ),  2003 , 40

[6]M. Napoli,  51

[7] v. Enciclica Centesimus Annus, Giovanni Paolo II, 1991

[8]M. Grandi , 1999, 336 ; v. anche Codice Etico Bocconi, “formazione prima (in funzione delle missioni) e durante il rapporto (chances occupazionali stabili).”

[9] E. Spaltro, 1996, 75 ss

[10] A .Sen,  Bologna, 1992“…Il well-being di una persona può essere visto in termini di qualità dell’essere di quella persona. Si può pensare che la vita consista di un insieme di ‘funzionamenti’ composti di stati di essere e di fare… I funzionamenti

rilevanti possono variare da cose elementari…come essere in buona salute…

ad acquisizioni più complesse  come essere felice, avere rispetto di sé, prendere parte alla vita della comunità…”

[11] v. anche Tronti, 2003,62 nel senso che un crescente benessere derivante dallo sviluppo economico costituisce un requisito di un aumento della friuzione di conoscenze, da parte del singolo e della collettività

[12] L .Galantino., 1998, 315

[13] A. Loffredo, 2004; Zoppoli 2003,93 configura un debito di attività formativa in capo al datore, , pur riconoscendo la difficoltà di una tale impostazione per la tutela dei lavoratori “debli”(inoccuparati,atipici,ecc) , per i quali è controproducente esigere l’adempimento di un generico obbligo formativo da parte del datore

[14] M Napoli, 52

[15] Consiglio d’Europa, decisione 63/266, secondo principio, lett .g)

[16] Sul punto v. Loffredo, 2001, 502 ss., che sottolinea come l’accesso alla formazione professionale previsto dall’art.14 costituisca un diritto del lavoratore

[17] Proposta di regolamento del Parlamento e del Consiglio relativo alle statistiche sulla formazione professionale nelle imprese, Com 2004/0041

[18] V. anche Commissione europea, 22 marzo 2006, Alleanza per la responsabilità sociale delle imprese

[19] ISFOL, indagine Mlps –Isfol -Politecnico di Torino, 2002

[20] Isfol, Indagine Mlps – Isfol -Politecnico di Torino 2002

[21]M. Biagi, 1996, 75

[22]F .Torelli, 2000 ,2, 193

[23] http://www.gruppohera.it/binary/hera_qualita_sostenibile/bilancio_sostenibilita/bilancio_di_sostenibilita_2005.1150290520.pdf

[24] http://www.gruppohera.it/binary/hera_qualita_sostenibile/bilancio_sostenibilita/bilancio_di_sostenibilita_2005.1150290520.pdf

[25] Cfr. Cass. 7 luglio 2001, n. 9228, in Not.giur.lav. 2002, 28 ; Cass. 18 ottobre 1999, in Lav. giur. 2000, 244

[26] P .Ichino,1976, I, 489

[27] Romagnoli, 238