Un "Perry Mason" all'italiana non salva il processo accusatorio

di Giulio Pasanisi

27 gennaio 2001 - L'entrata in vigore della legge sulle investigazioni difensive, approvata nell'ambito del fervente dibattito sui principi del giusto processo ed unanimemente accolta come una vittoria dall'avvocatura, ha generato una serie di commenti, più o meno stravaganti, sul nuovo ruolo che saranno chiamati a svolgere gli avvocati penalisti italiani del nuovo millennio. Sui giornali, in televisione, nei corridoi e nei bar dei tribunali si è cominciato ad immaginare intrepidi avvocati impegnati in avventure indagatorie mozzafiato, evocando fantasticherie che, sino ad oggi, avevamo conosciuto soltanto nelle pellicole e telefilm americani, che raccontavano una realtà così lontana e diversa dalla nostra, da risultare eccitante ed esotica. La legge 7 dicembre 2000, n. 397 (pubblicata nella G.U. n. 2 del 3/1/01), accompagnata dall'introduzione di regole ad hoc nel codice deontologico forense, disegna scenari addirittura impensabili soltanto una decina d'anni or sono, quando il neonato codice di procedura penale di stampo accusatorio si proponeva come radicale rottura con il passato sistema misto-inquisitorio disegnato dal codice Rocco e dai successivi interventi normativi e giurisprudenziali, che avevano faticosamente tentato di adeguarlo ai principi costituzionali. Oggi possiamo dire, con una certa soddisfazione, che finalmente la posizione del difensore, nella fase delle indagini preliminari, appare riequilibrata anche se, per ovvie ragioni, non paritetica, rispetto al suo dirimpettaio e futuro contraddittore rappresentato dal PM indagante. La nuova figura di avvocato "investigatore" viene, infatti, salutata come il raggiungimento di una nuova tappa nel tortuoso avvicinamento ad un rito accusatorio compiuto. La facoltà di prendere visione dei beni sequestrati, di trarre copia di documenti detenuti dalla pubblica amministrazione, unitamente a quella di accedere in luoghi privati o non aperti al pubblico per finalità investigative, rappresentano un'autentica rivoluzione, così come la possibilità di raccogliere dichiarazioni da persone informate sui fatti, da persone indagate o imputate nello stesso procedimento o in altro procedimento connesso o probatoriamente collegato.
La rivoluzione è compiuta, ma qual è il prezzo? Le prime perplessità che sono state evidenziate da più parti e che forse spariranno una volta - si spera rapidamente - approvati i disegni di legge riguardanti la difesa d'ufficio e, soprattutto, il gratuito patrocinio, riguardano, com'è noto, la possibile disparità tra la posizione di chi può permettersi economicamente un legale affiancato da validi "collaboratori" ed investigatori nella fase delle indagini e chi non ne ha i mezzi. Possiamo, pertanto, con cauto ottimismo, accantonare questo problema. Salutando con soddisfazione l'introduzione delle nuove facoltà difensive in merito all'accesso nei luoghi e all'acquisizione e copia di documenti, occorre appuntare l'attenzione, invece, sulla problematica relativa al raccoglimento di dichiarazioni di persone, siano esse potenziali testimoni o ipotetici correi narranti, nella fase delle indagini. E'sul versante delle prove narrative, infatti, che si gioca la partita più importante del processo sul piano della pienezza del contraddittorio. Il vero nodo della questione che, anziché sciogliersi appare aggrovigliarsi su se stesso sembra essere proprio questo. A furia di parlare del sistema accusatorio non siamo più capaci di coglierne il significato profondo. Improvvisamente calato in un processo di stampo accusatorio, anziché applicarlo secondo i suoi canoni, a partire dal 24 ottobre 1989, l'ambiente sembra essersene difeso. Questa provocatoria affermazione, certamente non condivisa da molti, necessita di una breve giustificazione. Sono a tutti noti i caratteri del sistema accusatorio "puro", fondato su capisaldi quali la terzietà del giudice, la presunzione di non colpevolezza, l'oralità, il contraddittorio, la parità tra le parti in un processo pubblico, che si contrappongono alle caratteristiche del sistema inquisitorio "puro", fondato, invece, sulla preminente posizione del giudice anche nella fase della ricerca delle prove, sulla precostituzione delle stesse prove rispetto alla fase dibattimentale, sulla posizione subalterna dell'inquisito rispetto all'accusa, in un processo scritto e segreto e magari fondato sulla presunzione di colpevolezza. Torniamo, allora, al nostro processo, nato sotto la "stella" accusatoria e che, a colpi di sentenze della Corte Costituzionale e di decreti, in poco più di dieci anni, ha assunto una fisionomia che lo fa assomigliare solo ad un pallido riflesso del rito accusatorio puro. Nell'ambito del nostro processo, infatti, se si pone l'attenzione alla fisionomia dell'istruzione probatoria, oralità e contraddittorio appaiono dissolversi in nient'altro che principi evocati e raramente materializzati, attesa l'invadenza, tra il materiale che sarà oggetto di valutazione del giudice, di un numero sempre crescente di documentazione cartacea precostituita, proveniente da ogni luogo, fuorché dal dibattimento stesso, mediante acquisizioni di verbali, letture consentite, contestazioni o quant'altro.
Dov'è finita l'oralità e dove il contraddittorio? Il contraddittorio è, anzitutto, partecipazione dialettica e con pari dignità delle parti dinanzi ad un giudice terzo e l'oralità ne è l'ovvio corollario, se si tratta di prove narrative. Per fare un esempio, l'ipotizzata valutazione da parte del giudice imparziale, delle dichiarazioni di un testimone che, si diceva, nel gioco dell'esame incrociato avrebbe reso al massimo e nel pieno rispetto del contraddittorio, svanisce quando questi, alla minima defaillance della memoria (che a causa della durata dei processi è praticamente scontata) si vedrà contestare dichiarazioni unilateralmente raccolte nella fase delle indagini da una delle parti, mediante lettura ed acquisizione del relativo verbale. Per non parlare, poi, delle problematiche relative alle contestazioni a coimputati o imputati di processi connessi o collegati sulle quali sia consentito stendere un velo pietoso. Occorre, allora, delineare nuovamente la differenza tra indagini e processo. Le prime hanno una finalità, quella di acquisire elementi utili all'accusatore pubblico, monopolista dell'azione penale obbligatoria, da utilizzarsi se (e quando) questi sarà persuaso della fondatezza della notizia di reato e di avere materiale sufficiente per sostenere l'accusa in giudizio. In caso di esito negativo o contraddittorio delle indagini, pertanto, l'obbligatorietà dell'azione penale, si trasforma nella necessità della richiesta di archiviazione del procedimento. Il momento processuale è invece quello in cui, nel contraddittorio tra le parti, dopo il rinvio a giudizio, quegli elementi si svolgeranno in prova dinanzi al giudice terzo, che ne apprezzerà la valenza probatoria, guardando dritto in faccia il dichiarante sottoposto al fuoco di fila delle domande proposte dalle parti. La possibile (ed oggi normale) acquisizione agli atti di documenti (verbali) precostituiti dalle parti (l'accusa o la difesa, non fa differenza) mina alla radice la stessa possibilità che l'oralità ed il contraddittorio possano esprimersi pienamente nella fase dell'istruzione dibattimentale. Ogni lettura di un verbale portante una dichiarazione precostituita da una parte è un colpo all'oralità ed alla dialettica processuale e rappresenta una metastasi inquisitoria, che si presenta sotto forma di prova scritta formata unilateralmente. Questa forma degenerativa del concetto stesso di contraddittorio ha finito per inquinare così tanto il sistema da sfigurarlo.
Al capezzale di un malato ormai agonizzante, allora, pronunciando come una formula magica le parole "giusto processo" è stata messa in cantiere una riforma costituzionale in cui riporre ogni speranza di recupero di credibilità della giustizia. Oggi ci troviamo a commentare il raggiungimento di una nuova tappa verso il giusto processo, prendendo atto che, finalmente, il difensore dell'indagato vede delineati e riconosciuti quei poteri investigativi solamente abbozzati nell'art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice (che la riforma ha abrogato). Ma ci siamo chiesti perché ciò è avvenuto e dove ci porta la riforma? Il legislatore ha dovuto trovare una medicina alla degenerazione del sistema ormai in crisi. Un processo in cui le "letture" da eccezione sono diventate la regola e che, se non aggiustato, rischiava di rendere ridicolmente disapplicati i cinque commi aggiunti all'art. 111 della Costituzione. Per quanto si tenti di riequilibrare la posizione delle parti nella fase delle indagini, è opportuno rilevare, tuttavia, che non è questo il rito accusatorio. Il sistema accusatorio trova la sua massima espressione nel momento dibattimentale, ove dallo scontro delle parti deve uscire una verità processuale. Nel rito accusatorio, soprattutto per quanto riguarda le dichiarazioni di persone, tutto ciò che viene detto nella fase delle indagini non è prova e non dovrebbe trovare ingresso tra il materiale probatorio fruibile dal giudice ai fini della decisione, se non in casi eccezionali. La nuova normativa prende atto, invece, della degenerazione sopra descritta, ormai metabolizzata, necessariamente concedendo anche alla difesa, la possibilità di raccogliere a verbale dichiarazioni rese da soggetti informati, permettendo anche a questa di precostituirsi materiale potenzialmente destinato a diventare prova. Con buona pace dell'oralità e del contraddittorio. Non possiamo non chiederci a cosa servirà il materiale raccolto dall'avvocato investigante nella fase delle indagini. Se le dichiarazioni raccolte sono favorevoli all'indagato, potrebbero essere sottoposte subito al PM affinché si convinca a non esercitare l'azione penale, ottenendo l'archiviazione. Ciò apre il varco ad una sorta di contraddittorio nelle indagini, già anticipato con la recente introduzione dell'art. 415 bis c.p.p. (con la legge 479/99). In alternativa, appare forse più conveniente, ancorché rischioso, custodirlo gelosamente, per sfoderarlo successivamente, nella fase dibattimentale, e dare scacco matto all'accusa ottenendo il proscioglimento, con relativo ne bis in idem. Se il materiale raccolto è, invece, sfavorevole all'indagato, evidentemente non vedrà mai la luce e non potrebbe essere altrimenti (il difensore non può sostituirsi al PM investigante). L'arrendevolezza del legislatore di fronte all'evidenza che, ormai, la prova cristallizzata nei verbali è destinata a farla da padrone nel nostro processo trova conferma, infine, dalla nuova previsione (art. 391 bis, comma 11) relativa all'utilizzabilità dell'incidente probatorio (altra ipotesi di prova precostituita al dibattimento ed assunta da giudice diverso da quello dibattimentale) anche al di fuori delle (un tempo eccezionali) ipotesi previste dall'art. 392, comma 1 c.p.p. L'attuale sistema, in definitiva, e questo è il senso della critica, doveva essere riequilibrato tornando a limitare le indiscriminate "letture" dibattimentali. Il legislatore, invece, ha preso atto che la malattia che ha colto il nostro rito accusatorio ha avuto esito fatale e, forse, ha considerato che la piena applicazione del principio espresso dall'articolo 358 del codice di procedura penale appare una chimera e si è mosso di conseguenza, aprendo inevitabilmente il campo al possibile ingresso di materiale probatorio formato anche dal secondo contraddittore, fino ad oggi ingiustamente penalizzato. Non ci si è accorti, però, che lo scenario che si propone è simile ad una corsa agli armamenti, in un perfetto stile da "guerra fredda". Le parti, oggi, hanno poteri analoghi anche nelle indagini preliminari (anche se il PM ne conserva ancora di maggiormente incisivi), e questo è positivo, ma non parliamo più di processo accusatorio. E' un concetto che riempie la bocca e i cuori, ma è già caduto sul campo di battaglia da anni e i morti, purtroppo, non resuscitano.
Commento redatto nel gennaio 2001.