La diffamazione è il reato commesso da chi, comunicando con più persone, offende l'onore o il decoro di una persona non presente.
Nel caso specifico della diffamazione a mezzo internet, è necessario dimostrare, ai fini dell'affermazione della penale responsabilità, che il messaggio diffamatorio sia stato effettivamente immesso sul web dall'imputato.
A tal fine, la giurisprudenza ritiene perfettamente attendibili gli accertamenti tecnici volti a individuare l'indirizzo IP, il quale permette di risalire ai dispositivi informatici collegati alla rete attraverso i quali è stato diffuso il messaggio diffamatorio (Cassazione, sentenza n. 34406/2015).
In particolare, con la sentenza citata, la Cassazione ha affrontato il caso di un ex marito, che in esecuzione del medesimo disegno criminoso, ha diffuso sul web due annunci apparentemente provenienti dalla ex-moglie, con i quali quest'ultima offriva prestazioni di natura sessuale, indicando anche i numeri di telefono della donna senza il suo consenso.
La Cassazione ha ritenuto fondata la condanna per i  reati di diffamazione (articoli 595 del Codice penale e 13 della legge sulla stampa) e di trattamento illecito di dati personali (articolo 167 del Decreto Legislativo n. 196/2003), considerando perfettamente attendibili gli accertamenti tecnici eseguiti dagli organi giudiziari volti a verificare l'indirizzo IP (Internet Protocol Address), che nella specie risultava associato al router dell'imputato, collocato presso l'abitazione della madre dove egli stesso, all'epoca, abitava.