Dopo le numerose pronunce che, a vario titolo, hanno drasticamente limitato l’impatto recidiva, specie reiterata (si vedano, in particolare, le decisioni n. 192 e n. 198 del 2007 e n. 183 del 2011), con la Sentenza in esame la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4, c.p. - come sostituito dall’art. 3 Legge 5 Dicembre 2005, n. 251 - «nella parte in cui recita il dispositivo - prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del Decreto del Presidente della Repubblica 9 Ottobre 1990, n. 309, Testo unico delle Leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, del codice penale».
La questione era stata sollevata dal Tribunale di Torino, il quale aveva evidenziato come, per effetto della norma impugnata, ove sia applicata la recidiva reiterata, le violazioni «di lieve entità» della disciplina degli stupefacenti, per le quali l’art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309 del 1900 prevede la pena della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000, devono essere punite con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000.
Orbene, una disciplina del genere, secondo il remittente, si pone in contrasto con i principi di: *uguaglianza (art. 3 Cost.), perché, in determinati casi, condurrebbe ad applicare pene identiche a violazioni di rilievo penale enormemente diverso;
*offensività (ex art. 25, comma 2, Cost.), il quale riconoscerebbe rilievo fondamentale all’azione delittuosa per il suo obiettivo disvalore e non solo in quanto manifestazione sintomatologica di pericolosità sociale;
*proporzionalità della pena (art. 27, comma 3, Cost.), in quanto una pena sproporzionata alla gravità del reato commesso da un lato non può correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalità violata, dall’altro non potrà mai essere sentita dal condannato come rieducatrice.
In via preliminare, la Corte ha disatteso l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’’Avvocatura generale dello Stato, sul presupposto che il Giudice a quo non aveva chiarito i motivi per i quali ben avrebbe potuto escludere la recidiva reiterata, la cui applicazione – anche dopo la riforma del 2005 - è rimasta facoltativa, salvo i casi di cui all’art. 99, comma 5, c.p.
Infatti, nel caso di specie il remittente aveva spiegato che le precedenti condanne riportate dall’imputato tutte relative alla disciplina degli stupefacenti erano una chiara manifestazione di maggior colpevolezza e pericolosità sociale, ciò che imponeva di applicare la recidiva reiterata.
Nel merito, la Corte ha ritenuto la questione fondata con riguardo a tutti i parametri evocati.
La Corte ha preso le mosse dalle tappe legislative dei criteri di bilanciamento e delle relative deroghe, «generalmente adottate per impedire il bilanciamento della circostanza c.d. privilegiata, di regola un’aggravante, o per limitarlo, in modo da escludere la soccombenza di tale circostanza nella comparazione con le attenuanti», risultato, questo, che si è voluto perseguire con la norma impugnata.
Orbene, eventuali deroghe al bilanciamento rappresentano scelte del legislatore che sono insindacabili purché non «trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio»; in altri termini, le deroghe alla generale disciplina di cui all’art. 69 c.p. «non possono giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale» alterazione che, invece, è stata ravvisata nel caso di specie.
La Corte, infatti, ha evidenziato la «manifesta irragionevolezza» delle conseguenze che, sul piano sanzionatorio, derivano dalla norma censurata: «nel caso di recidiva reiterata equivalente all’attenuante, il massimo edittale previsto dal quinto comma per il fatto di “lieve entità” (sei anni di reclusione) diventa il minimo della pena da irrogare; ciò significa che il minimo della pena detentiva previsto per il fatto di “lieve entità” (un anno di reclusione) viene moltiplicato per sei nei confronti del recidivo reiterato, che subisce così di fatto un aumento incomparabilmente superiore a quello specificamente previsto dall’art. 99, quarto comma, cod. pen. per la recidiva reiterata, che, a seconda dei casi, è della metà o di due terzi».
La norma censurata, inoltre, viola il principio di offensività, desumibile dall’art. 25, comma 2, Cost.: il trattamento sanzionatorio più mite riservato, dall’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1909 al fatto di “lieve entità” «esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato».
Per effetto della divieto di prevalenza sancito dalla norma impugnata due fatti, profondamente diversi sul piano dell’offesa, «vengono ricondotti alla medesima cornice edittale». In tal modo, si realizza un vulnus al principio di offensività, il quale, sottolinea la Corte, «è chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale».
Infine, la Corte ha ravvisato anche la violazione del principio di proporzionalità della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), perché il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata «impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l’applicazione della pena stabilita dal legislatore per il fatto di “lieve entità”».
«Perciò deve concludersi – ha affermato la Corte - che la norma censurata è in contrasto anche con la finalità rieducativa della pena, che implica un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra».